Parlare di storia e diritti a mille km di distanza…

Questo è il testo dell’intervento che ho tenuto “via zoom” durante l’incontro organizzato a Lamezia Terme dal coordinamento nazionale  di “Ecologia e Diritti”, con una attenzione particolare ai diritti delle donne. A mille km di distanza ha suscitato, comunque, interesse e partecipazione. Le richieste del libro citato nel testo ne sono una conferma. Proprio vero che “Zoom” fa miracoli e, soprattutto, ci evita spese e levatacce superflue…

(1) Mi scuso per la prolissità dovuta alle molte questioni in ballo e alla necessità, fortissima, di dare voce a chi non ce l’ha. Le “donne della rivoluzione del Rojava”, , perché di una rivoluzione si tratta, meritano questo sforzo. Donne, uomini, bambini, anziani abbandonati a loro stessi, rinchiusi in “bantustan” di fatto con i vecchi colonizzatori (“arabi” per  il Rojava siriano e il Bashur irakeno, persiano per  le migliaia di presenze kurde sul territorio del trono del Pavone, turchi per la parte più consistente, quella anatolica) a volte sostituiti da nuovi padroni, ancor più feroci, chiusi e dogmatici. Per tre anni sotto il dominio di Daesh (ISIS) poi ritornati in un limbo fra libertà vigilate, controlli ed emarginazioni. Un popolo, donne, uomini in carne ed ossa, di cui non parla nessuno. Sicuramente non le TV di Stato, tanto meno i media più comuni. Ecco il perché di questo contributo, che parte da due esperienze dirette, vissute in loco (in nord Irak e nord Siria, a maggio 2015 e nell’autunno 2018) può essere di una certa utilità.

Si parte con una doppia testimonianza assolutamente inedita raccolta al confine con l’Iran, ancora in territorio irakeno (a Suleimaniya), con le testimonianze dirette di chi opera in Rojava, tentando una via diversa dalla solita apparente democrazia, tanto comune nei regimi mediorientali che, però, non tenta nessun nuovo percorso rispetto a quelli di sempre. Che sono ben conosciuti: società fortemente patriarcale, peso enorme dei gruppi tribali, abitudine ad un’economia di sussistenza, condizionata da innumerevoli mafie locali, povertà diffusa ed emarginazione. Condizioni che le fasce più deboli, e soprattutto le donne, conoscono bene per averle conosciute da sempre. I due interventi servono come preparazione alla seconda parte più descrittiva ed originale. Quella delle proposte possibili…della “rivoluzione”…appunto.

Prima di tutto, però un accenno al libro a cui ho collaborato (1) . Sostanzialmente si tratta di un “lavoro” di antropologia applicata, di conoscenza di popoli, culture, tradizioni, religioni diverse (ma, a ben vedere, con molti aspetti  “simili”  alle nostre). Tutto nasce da una serie di visite (sia mie, sia – molto più lunghe e approfondite – di Laura  Anania) in diverse aree del vicino Oriente. Colpiti dalla bellezza dei luoghi, dalla schiettezza e “modernita’” delle popolazioni locali e, soprattutto, dal loro anelito di libertà e democrazia ne abbiamo fatto un’occasione di approfondimento. Non ho certo la pretesa di poter rendere le immense varietà del patrimonio culturale di un intero subcontinente, ma  l’ambizione di far conoscere una vivacità di proposte, di modi di vita, di interpretazione del “bello” e di ciò che conta veramente nella vita. Questo sì, può essere alla nostra portata. E, oltre alla descrizione di popoli, fatti, luoghi, mi sta a cuore anche un altro aspetto, che è un po’ di sfondo a tutto lo sforzo. Da noi, infatti, si tenta di isolare e di rendere “autosufficienti” sessanta milioni di italiani nella loro penisola, evitando che ci siano contatti con altri mondi, con altre mentalità, con “altri colori” diversi da noi. Un’operazione che sappiamo bene essere perdente e “a tempo”, data l’ineluttabilità del processo di globalizzazione che, oltre che economico, si andrà a configurare sempre più come un “melting pot” complessivo.

Una nuova futura – ma nemmeno troppo lontana – condizione, che vedrà l’umanità intera di fronte ad una sostanziale omologazione generale, determinata da quello che un tempo era l’ “american way of life” e che, piano piano, sta condizionando tutto il mondo, noi, come il Vicino Oriente. Tutti con il mito dell’auto, della famiglia sorridente “da popcorn”, del conto in banca sicuro, delle assicurazioni su tutto, dell’intoccabile fine settimana e, di fatto, della convinzione che ci possa essere uno sviluppo senza fine, con conseguente utilizzo di risorse e territorio senza filtri di sorta. Condizione fortemente messa in discussione, oltretutto, dal periodo pandemico, dalla percezione di non poter “continuare nello sfruttamento” di animali, territori, persone, in una parola, di fronte ad un “cambiamento” non più procrastinabile. Ciò che invece abbiamo provato a mostrare è la storia antica di questi territori, l’enorme cultura che ha prodotto, di fatto poco conosciuta, così come le varietà di costumi, aspetti artistici e culturali che ne fanno un mosaico irripetibile. E da conoscere…proprio per poterlo apprezzare e rispettare.

A ben vedere lo “sviluppismo” va ad opporsi alla forma più pura dello “yazidismo”, attenta ad un equilibrio continuo di forze presenti nella natura, nel cielo e nel profondo di ogni donna e ogni uomo. E di sistemi di governo, di religioni e di riti antichissimi, è pieno il libro. Gli stessi principi, del primo yazidismo, che si possono ritrovare nella  forma statuale dell’entità politica autonoma del Rojava (nord Siria) (2) con un rovesciamento del tradizionale approccio paternalistico al diritto, alle forme politiche e amministrative.

Vi viene infatti adottata una Costituzione, esattamente il 9 gennaio 2014, che trae fondamento dalla “Dichiarazione del confederalismo democratico in Kurdistan”, a sua volta ispirata da testi chiave nella produzione saggistica di Ocalan come “L’ecologia della Libertà” e “Urbanizzazione senza città”. Il contenuto di questi libri  prevede l’istituzione di una grande confederazione del popolo curdo, un’entità sovrannazionale che riunisca tutti i membri dell’etnia sparsi tra Siria, Turchia, Iraq e Iran e sia saldata da pochi ma imprescindibili valori basilari come la difesa dell’ambiente, il rispetto del pluralismo religioso, l’eguaglianza di diritti tra tutti i componenti della società, la piena uguaglianza tra donne e uomini, l’istruzione universale.

In nuce ciò che veniva proposto dalla “religione dei sette angeli” e che veniva / viene attuato giornalmente, anche forzando le indicazioni delle varie gerarchie religiose.  Sono stato testimone nel settembre 2015, per esempio, di un impegno per la scolarizzazione dei più piccoli, nella siriana città di  Qamislo,  che ha riguardato indifferentemente allievi cristiani, ebrei e musulmani, sia sunniti che sciiti.  Una organizzazione scolastica di fortuna, basata sul volontariato di maestri/maestre ma anche di genitori, con migliaia di bambini interessati dal servizio scolastico, in un certo senso, di emergenza. Scuole soprattutto legate alle istituzioni religiose, con prevalenza (9 su 10) di quelle islamico-sunnite. Presenti anche realtà cristiane, in molte “varianti”, “caldei”, “maroniti”, “cattolici romani” e “ortodossi”. Su una popolazione di quasi trecentomila abitanti, presenti anche due sinagoghe con ebrei praticanti di tutte le età, tutti con la voglia di imparare e di “riscatto”. Le maestre, data la mancanza di materiale didattico, di fogli, di quaderni, si sono organizzate in turni e una volta alla settimana, per tutte le scuole, di qualunque credo religioso, “fanno la spesa” nella vicina Turchia a Nusaybin. Una trentina di chilometri di andata e ritorno con un pass giornaliero autorizzato dalle due postazioni di polizia di frontiera. Si presentano con grosse auto con al massimo due passeggeri e, al ritorno, riportano migliaia di schede fotocopiate, libri, quaderni, materiali di cancelleria, ricambi per stampanti e tutto quanto possono recuperare per migliorare la preparazione dei loro giovani. Di tutti i giovani. Un superamento degli steccati che è sempre avvenuto in questi ultimi secoli e che una scriteriata divisione forzata, imposta dall’alto (non solo dai dirigenti dell’ISIS), ha tentato di modificare in peggio. Questo è infatti il fondamentale messaggio che si vuole dare: conoscere, informarsi per superare gli steccati, di qualsiasi tipo.

Un doppio incontro per conoscere meglio le innovazioni in “Rojava”

A Suleimaniya (Iraq nord orientale) un incontro con il Pyd (Partito dell’unità democratica) e il Tevdem (Movimento per la società democratica) ci ha permesso di conoscere e approfondire quelli che erano solo principi teorici.

Infatti, esattamente il 2 ottobre 2018, incontriamo (con le amiche e gli amici di UIKI e “Un ponte per”) il responsabile del PYD, Gharib Hassou, che introduce l’incontro con un ringraziamento per la solidarietà dimostrata dal popolo italiano per aver accolto nel ’98, il leader del popolo kurdo, Abdullah Ocalan. “Una solidarietà storica”, ci dice. E continua: “La solidarietà è molto importante per noi. Per questo, la resistenza e la lotta che si è sviluppata in Rojava, non è solo per noi, ma per tutti i popoli del mondo. Se il Rojava è ancora vivo è anche grazie alla solidarietà internazionalista. Tanti gruppi hanno utilizzato l’islam per i propri fini, distruggendo così un Paese fiorente, la Siria. Non è stato così per noi, non ci fermeremo finchè non raggiungeremo il nostro obiettivo. Questa lotta ci è costata molto sangue e molti martiri. Daesh ha avuto l’appoggio e la solidarietà dei governi dei Paesi confinanti, in primo luogo, della Turchia che ad Urfa cura i feriti di Daesh e a Gaziantep addestra e protegge i miliziani di Al Nusra. Per questo la nostra vittoria che verrà, sarà la vittoria di tutta l’umanità! Se Daesh vincesse in Rojava, il prossimo obiettivo sarà la vostra Europa.   “    Sappiamo come è andata alla fine con l’ISIS / Daesh e conosciamo bene il ruolo centrale avuto dai resistenti (e dalle moltissime resistenti donne) in quella lotta di liberazione, per cui le parole di allora assumono, nel 2021, un rilievo ancor più particolare.   D’altra parte, è proprio il nostro interlocutore che introduce una “testimone” diretta (siriana del Rojava) che racconta quanto ha vissuto, non ultima l’avventura di uscita dalla Siria con l’attraversamento  dell’Iraq (un viaggio di 200 più 300 chilometri parte in Siria, parte in Irak).

Le parole del dott. Hassou sono la migliore introduzione:  “Voi state dando il colpo più grande al nemico di tutti portando questa lotta, questa rivoluzione in atto nel Rojava in Occidente. Se domani potete mettere un mattone in Rojava, questo non verrà mai dimenticato, sarà un mattone posato per l’umanità intera, sarà un simbolo di fratellanza e di amicizia tra i popoli”. (si ricorda che la testimonianza è dell’ottobre 2018)

L’incontro con la testimone “Layla”

La rappresentanza dei tre cantoni del Rojava si trova in un’elegante palazzina di Suleimaniya ed esiste dal 2015. Lì è dove veniamo ricevuti con il rituale the e pasticcini deliziosi al miele e alle mandorle. “Pure noi – ci dicono – seppur diplomatici o politici riconosciuti, non riusciamo a raggiungere il Rojava a causa della chiusura delle frontiere”. La situazione che descrivono Hassou e Layla Ocan  è oltremodo critica: negli ultimi anni (dal 2015 al 2018), si sono acuiti i contrasti tra i tre partiti maggiori del Kurdistan Bashur (2), il Puk, il Pdk e Goran, con conseguenze importanti. Il Parlamento è bloccato, la crisi incalza, ci sono categorie di lavoratori del settore pubblico – come gli insegnanti – che, da mesi, non percepiscono gli stipendi; non c’è solo l’embargo, ma l’intenzione di ostacolare qualsiasi iniziativa che possa, anche lontanamente, favorire il Rojava.  E questo a causa del fatto che il governo del Bashur irakeno, a stragrande maggioranza kurda, vede in modo negativo il processo democratico in corso e, soprattutto, l’emancipazione dichiarata delle donne.                                                                                                              Nel corso dell’incontro, viene anche fatto riferimento ad un progetto per gli studenti delle scuole, comprendente la stampa di libri di testo di cui sono attualmente sprovvisti. Si tratterebbe di realizzare l’equivalente di  4 tonnellate di libri di testo per l’insegnamento delle varie materie nelle lingue che si parlano nel Rojava – arabo, kurdo e siriano – per un totale di 170 mila euro. Di nuovo una questione di strumenti di studio e informazione, carenti dal 2015, con conferma dell’autunno 2018 e, soprattutto, con un aggravamento a partire dal 2020.  Si tratta di un progetto, avviato con OnG tedesche nel 2017  che  potrebbe essere esteso a più associazioni ed ong presenti in Italia.  Informazioni che facciamo nostre, durante l’incontro del 2018 e che proviamo ad estendere ad altri.   Soprattutto è importante ciò che riferisce con tanto di documentazione scritta la nostra interlocutrice, quanto mai sicura nella sua esposizione. Occhi attenti, voce ferma, fazzoletto colorato verde e rosso a trattenere una folta capigliatura rossiccia e un inglese, per fortuna, semplice e comprensibile.

In cosa consiste il rinnovamento proposto dal movimento delle donne in Rojava                                                                   

(3) Layla comincia ricordandoci che il movimento delle donne curde ha ricevuto l’attenzione dei media di tutto il mondo durante la guerra del Rojava contro l’ISIS, dove le donne venivano spesso descritte come “amazzoni” che combattevano contro i jihadisti. Su questo ha parecchio da obiettare e si impegna a ritornarci a breve.

L’enfasi sul lato militare, che a volte ha rasentato l’epica e che, secondo Layla, è del tutto fuori luogo ha snaturato  la  lunga lotta, che risale a più di 40 anni fa. Una opposizione che, solo in alcune sue fasi ha assunto una forma armata e che tenta di coinvolgere tutte le realtà operanti sul territorio, sia sociali che politiche.

E’ verissimo, ci ricorda Layla Ocan, che il movimento delle donne si è concentrato dagli anni 2000 sulla produzione e diffusione della conoscenza, insistendo sulla necessità di una conoscenza femminista, anticoloniale e anticapitalista. Il Jineolojî (4) potrebbe essere semplicemente tradotto come la scienza di donne. Jineolojîè una recente elaborazione teorica concepita dal movimento delle donne curde negli ultimi dieci anni e deve essere pensata come il culmine di un lungo processo di maturazione all’interno del movimento curdo, in un gioco di echi e dialoghi tra le montagne, prigione di Imralı e la sfera civile curda”.  (5) 

 

Le origini del jineolojî: la lunga storia delle donne in lotta

Il periodo che va dal congresso di fondazione del PKK nel 1978 agli anni ’90 è caratterizzato da una bassa partecipazione delle donne e si trova riunito in forma organizzata attorno a figure come Sakine Cansız  (6).

Il colpo di stato militare del 12 settembre 1980 in Turchia è stato accompagnato da una massiccia repressione, che ha costretto alla scelta  tra la spesso lunga prigionia, l’impegno diretto con gruppi militanti e rivoluzionari o l’esilio in Europa. La guerra condotta dallo Stato turco nel Kurdistan turco in quegli anni ha portato dal 1991 a una partecipazione sempre maggiore delle donne (7).

L’incarcerazione e la resistenza di attiviste come Sakine Cansız o Gültan Kışanak nelle carceri turche, gli scontri con il PKK e le azioni di donne combattenti come Beritan o Zilan  (8) hanno fortemente influenzato la partecipazione delle donne alle attività di supporto ai partigiani  e segnato la memoria collettiva. Il numero delle donne combattenti, allora basso, aumentò fino alla progressiva istituzionalizzazione della presenza femminile con il primo congresso del 1993 dove si discusse ufficialmente del coinvolgimento delle donne. Fatto che  portò alla creazione delle prime unità armate composte esclusivamente da donne e, in 1995, creazione della prima organizzazione autonoma sotto il nome di YAJK (Yekitiya Azadiya Jinên Kurdistan, l’Unione delle donne libere del Kurdistan).

Dopo la detenzione di Öcalan nel 1999, le donne dello YAJK decisero di costituirsi come un partito delle donne, che all’epoca avrebbe preso il nome di PJKK (Partiya Jinên Kerkaran Kurdistan, Partito dei Lavoratori del Kurdistan), conosciuto oggi con il  nome di PAJK (Partiya Azadiya Jinên Kurdistanê, il Partito per la libertà delle donne del Kurdistan).

Dal 2005 il partito delle donne fa parte del sistema confederale, denominato KJK (Komalên Jinên Kurdistan, Kurdistan Women’s Communities), che comprende tutte le organizzazioni sociali, politiche e di autodifesa del movimento delle donne curde e della diaspora curda.

Dalla fine degli anni ’90, il movimento delle donne ha poi prodotto numerosi testi, basandosi, tra l’altro, sugli scritti di Öcalan, per avanzare le teorie della rottura, del divorzio eterno, dell’uccisione “del maschio dominante”, per trasformare gli uomini e la conseguente esigenza per le donne di auto-organizzarsi in gruppi dello stesso sesso nel quadro dell’ideologia della liberazione delle donne. Alcuni consideravano la partecipazione delle donne alla lotta partigiana antiturca e antiAssad come un pericolo a causa della loro presunta incapacità a sostenere periodi di forte stress, di sottoalimentazione, di freddo e caldo intenso, di pericoli di ogni genere; e fu al prezzo di una lotta difficile e responsabile che riuscirono a stabilire definitivamente la loro presenza.

Animato nei suoi primi anni da un progetto per l’indipendenza del Kurdistan di ispirazione marxista-leninista, il PKK da cui ha avuto origine il movimento delle donne si sta, a partire dagli anni 2005,   muovendo verso un progetto di democratizzazione del Paese con il riconoscimento e l’istituzionalizzazione dei diritti delle minoranze in Turchia e più in generale in tutto il Medio Oriente. Oggi il movimento ha abbracciato il confederalismo democratico basato sulla liberazione delle donne, l’ecologia e la democrazia.

Così, dagli anni ’80, il movimento riflette, come molti movimenti rivoluzionari, sul posto delle donne nella lotta e nella società, con la notevole differenza che le relazioni di genere e la liberazione delle donne sono diventate il paradigma strutturante basato sugli anni ’90 (9).

Se i testi di Öcalan degli anni ’80 descrivono le donne come “tentatrici” che possono tenere gli uomini lontani dalla lotta, quelli degli anni ’90  presentano le donne come oppresse all’interno dello spazio familiare, con la possibilità dfi diventare combattenti e liberatrici. Nel momento in cui avviene il cambio di paradigma che accompagna la femminilizzazione dell’organizzazione, la storia delle civiltà è descritta come la lunga storia della schiavitù delle donne operata dal sistema patriarcale e la liberazione dovrà passare attraverso le donne e rompere con l’ordine maschile . (10)

Gli anni ’90 sono quindi decisivi per comprendere la lotta delle donne, il loro incontro con il femminismo e gli sconvolgimenti che la loro presenza provoca all’interno del movimento. Il cambio di paradigma all’interno dell’organizzazione ha portato il leader, soprattutto dopo la sua incarcerazione nel 1999, e l’intero movimento spinto dalle donne, a ridefinire il progetto politico nel senso di una più ampia integrazione di questioni di genere.

Il jineolojî è definito da Öcalan in gran parte dei suoi tratti salienti nel libro “Sociologia della libertà”, del 2008, che costituisce il terzo volume del Manifesto per una civiltà democratica scritto in cinque parti tra il 2005 e il 2010 . Molto velocemente si leggono gli scritti carcerari del leader , discusso e arricchito dal movimento in Kurdistan e in Europa,

A partire dal 2000 si comincia a conoscere molto di più dei testi e delle idee di Öcalan, sia quelle di ordine storico economico, sia quelle riguardanti l’etica e la “nuova vita comune” che dovrà caratterizzare tutti gli abitanti del nuovo Stato (e, sullo sfondo, diventare un modello possibile per tutte le nazioni). In questo quadro generale si sviluppa il  jineolojî , andando a  consolidare il movimento delle donne e, al tempo stesso, a contribuire al riscatto di un intero territorio dall’oscurantismo.

Nel 2011 è stato formato il primo comitato jineolojî in montagna per discutere le implicazioni teoriche e pratiche di una sociologia della libertà e una scienza delle donne all’8° Congresso PAJK.  Nascono così, come ci conferma Layla nel suo coinvolgente discorso zeppo di citazioni e di documenti presentati in buon ordine, i comitati Jineolojî nelle quattro parti del Kurdistan (e, di riflesso, anche in Europa e Canada). La prima conferenza jineolojî si svolge a Colonia, in Germania, nel 2014 (nel 2015 sarà a Stoccolma e nel 2016 a Parigi). Segue poi la conferenza del 2015 in montagna dove viene discusso il contenuto del libro Introduzione al jineolojî (11) in cui si fa riferimento ad una scienza delle donne basata su un dialogo esplicito tra scienza e società.

Nello stesso anno, il libro Jineoloji Tartışmaları (Dibattiti sul jineolojî) raccoglie diversi articoli interamente scritti dai prigionieri politici del movimento in Turchia e suggella così il legame tra l’Europa, le montagne del Kurdistan e le carceri, potenziando le  dinamiche transnazionali del movimento curdo. Questa fase di discussione e produzione ha preso forma anche con la creazione della rivista Jineoloijî uscita l’8 marzo 2016. (12)

Infine, nel 2017, è stato fondato un “Centro jineolojî” a Bruxelles e le Accademie jineolojî sono apparse in diverse città. Dal 2017 sono stati costruiti Centri jineolojî ad Afrin (13), Derik, Manbij, Kobane e Heseke e una Facoltà jineolojî presso l’Università del Rojava. A causa della pesante repressione contro il movimento delle donne curde da parte del governo dell’AKP  nel Bakur (Turchia, Kurdistan settentrionale), del PDK nel Bashur (Iraq) e del regime iraniano a Rojhilat (Iran), dal 2016 il lavoro di Jineolojî . dovrebbe trovare un suo sviluppo soprattutto nei territori liberi del Rojava e nelle varie realtà europee con forte presenza curda.

Decostruire la scienza, liberare le donne

Jineolojî si basa su una critica della conoscenza androcentrica, positivista ed eurocentrica e chiede un decentramento delle scienze. (14)

La conoscenza nel suo insieme  è condizionata dalle strutture politiche e sociali ed è un riflesso del potere egemonico che opprime le donne. Gli scritti del movimento delle donne curde, secondo la Ocan,  evidenziano l’invisibilità sistematica delle donne nella produzione scientifica anche se sono state elementi chiave nella costruzione delle civiltà. L’anatomia e la medicina si sono sviluppate basandosi quasi esclusivamente sul corpo maschile e hanno presentato il corpo femminile come passivo o debole. L’archeologia ha a lungo attribuito la produzione artistica e artigianale ai soli uomini, la psicologia freudiana ha ridotto le donne a stati fisiologici e intellettuali presumibilmente inferiori. Ma la critica maggiore riguarda il positivismo così com’è stato costruito in Europa a partire dal XIX secolo, con l’istituzione di una metodologia basata sull’osservazione dei fatti separata dalla realtà sociale e basata su una cosiddetta oggettività che trascura le interazioni tra “l’osservatore ( soggetto) e l’osservato (oggetto)”. Layla in questa disamina dimostra precisione di linguaggio ed idee chiare. Evidentemente la sua Jineolojî  ha funzionato bene ed ha prodotto concetti intellettuali di rilevo.

Ricordando la lezione, sempre presente, del miglior yazidismo, è proprio Layla Ocan a pronunciare una frase forte che ci colpisce: “Le scienze positiviste sono meccanicistiche, deterministiche e comportano l’idea di progresso continuo, inarrestabile e senza limiti”. Questo paradigma scientifico, incentrato sulla creazione della categoria “altro”, ha portato – secondo le Accademie Jineolojî –  al dominio degli esseri viventi, della natura e delle donne e ha sostenuto progetti di colonizzazione.

Occorre quindi imporre un nuovo paradigma per permettere alle donne di (ri)conoscersi, di aggiornare le proprie storie dimenticate e uccise. Il sistema patriarcale tende a mantenere inferiore la donna, umilia e limita l’esperienza e il corpo delle donne; Layla, con il suo gruppo di studio, è arrivata alla conclusione che è impossibile limitarsi a progetti riformisti, e che la rivoluzione non può aver luogo senza uno sconvolgimento epistemologico, cioè riguardante i fini ultimi dell’agire umano. Il jineolojî è quindi pensato come uno strumento di lotta e di analisi, parola e azione sono collegate e “l’obiettivo non è conoscere per conoscere ma conoscere per vivere liberi“. Sempre secondo la nostra interlocutrice layla Ocan. In altre parole, la veridicità della conoscenza può essere valutata solo nei termini della sua capacità liberatrice. Jineolojî, come ogni teoria scaturita dal movimento curdo, mira quindi a sviluppare una prassi rivoluzionaria (cioè di vero cambiamento e di autentica capacità di rigenerazione) ancorata alla realtà sociale.

In pratica, la produzione di conoscenza deve accompagnare ed essere utilizzata a beneficio della liberazione delle donne, da sempre emarginate e dominate nella storia e nelle scienze prodotte dal dominante. “Dobbiamo quindi mettere in luce la storia delle donne per rendere visibili le loro storie individuali e collettive attraverso le storie di combattenti, politici, madri, poesie e qualsiasi produzione femminile”. La visibilità va di pari passo con la trasformazione degli uomini la cui mascolinità opprimente (15)  deve essere uccisa prima di riscoprire il sé autentico, l’essere se stessi, l’ xwebûn. Jineolojî è quindi anche ricerca di identità.

L’uccisione del maschio ha implicazioni concrete, poiché le interazioni quotidiane tra uomini e donne vengono ridefinite alla luce dello sconvolgimento nei rapporti di genere. Diversi sono i campi di indagine proposti per svolgere ricerche “jineologiche”: etica ed estetica da un punto di vista filosofico, demografia per studiare i legami tra sessualità riproduttiva e corpo femminile, salute per proporre, tra le altre questioni, il know-how di guaritori e medicine naturali disprezzati nella storia, l’economia per sviluppare progetti alternativi centrati sull’autosufficienza e il riconoscimento della partecipazione delle donne alla produzione, l’ educazione rivoluzionaria, l’ ecologia con un ritorno alla natura nel senso più vero del termine , la politica con le “scienze politiche alternative” e la partecipazione di tutti all’interno delle istituzioni collettive, l’ autodifesa fisica e politica e, infine, la storia in una prospettiva  di “her-story” volta a raccontare la storia delle donne.

Jineolojî e il femminismo?

Ma non finisce qui la comunicazione di Layla che, con fatica, cerchiamo di seguire. Molto lavoro di sbobinatura e riassemblaggio ci aspetta, ma sarà un piacere rileggere e riorganizzare quanto ci ha comunicato. Souleimaniya è a cinquecento chilometri da Sere Kanye, la città dove risiede in nord Siria, e – ogni tanto – compare qualche segno di preoccupazione per un viaggio di due giorni che l’attenderà all’indomani dell’incontro. Ma Layla desidera ancora raccontarci qualcosa e, come suggello alla bella chiacchierata, ci ricorda che “il Jineolojî trae le sue basi dall’esperienza del movimento delle donne curde e dalla storia della lotta delle donne nel mondo, attribuendo un posto particolare ai contributi teorici e militanti dei vari movimenti femministi”. Di fatto, in linea con altri movimenti anticoloniali, il jineolojî arriva anche a formulare riflessioni e analisi critiche riguardo al femminismo in Occidente, pur servendosi ampiamente di figure, scritti e concetti femministi sviluppati dalle femministe occidentali. Il femminismo è riconosciuto come il movimento più radicale che sfida il sistema capitalista e patriarcale, ma la sua eredità è, secondo i sostenitori del jineolojî, problematica e contraddittoria, nella misura in cui il sistema è riuscito a incorporare le richieste femministe in una specie di richiesta di cambiamento generica.

In realtà, secondo Layla, il Jineolojî, molto più che una replica o un’appropriazione del femminismo, può essere considerato come un’elaborazione autonoma e translocale di un femminismo che può riguardare le donne del Kurdistan, del Medio Oriente e del mondo. Jineolojî come nuova epistemologia, portata avanti dal movimento delle donne curde e a cui hanno aderito molte femministe internazionaliste. È pensata come la scienza paradigmatica della modernità democratica difesa dal movimento e definita come la sociologia della libertà. Fa parte della lunga storia della lotta in Kurdistan, consente una riattualizzazione sistematizzata della lotta delle donne nel movimento che ne legittima e rafforza la loro presenza e illustra le possibilità creative ed emancipatorie prodotte dai movimenti solitamente ignorati.

Il jineolojî, in definitiva, può essere pensato come un tentativo di soggettivizzare la lotta delle donne in lotta, cercando di portarne metodi, presupposti, modalità di attuazione e fini su un piano generale onnicomprensivo.

Pier Luigi Cavalchini  .  Docente e formatore. In ruolo presso diversi Licei statali di Alessandria. Presidente dell’associazione  “DSF  docentisenzafrontiere – Piemonte“

.1. All’alba della civiltà ed. Cordero Genova. 2019. Autori Massimo Delfino, Laura Anania, Pier Luigi Cavalchini.  (il libro che è stato preso in considerazione durante il convegno)

.2. Il Rojava è la regione più a occidente dell’area occupata di circa quaranta milioni di kurdi, dispersi fra Turchia, Irak, Siria e Iran. Il “Basur” ne è l’area centro-orientale, corrispondente all’Irak del nord.

.3. https://www.arte.tv/fr/videos/084989-000-A/syrie-rojava-la-revolution-par-les-femmes/

.4. Dalla parola “jin ” donna in curdo e da “lojî” in riferimento al suffisso logos in greco “parola, discorso” usato nella costruzione di sostantivi femminili accademici.

.5. Tratto da “Arkadashlar” . Uno dei testi di cui siamo stati beneficiati dai nostri interlocutori.

.6. Sakine Cansız nacque nel 1958 a Dersim (Tunceli) e si interessa molto presto alla “questione kurda”. E’ una delle due donne presenti alla fondazione del congresso del PKK del 1978. Viene catturata dall’esercito turco e imprigionata fino al 1990. Subisce torture di ogni tipo. Una volta liberata si dedica alla riorganizzazione delle formazioni di impegno sociale e politico femminili. Viene assassinata a Parigi nel 2013 con altre due donne kurde:  Fidan Doğan et Leyla Saylemez.

.7. Gli anni Novanta dello scorso secolo si aprono con un nuovo ciclo di violenze e repression massiccia in Turchia. Più di duecentomila persone sono imprigionate e torturate, centinaia di villaggi e paesi del territorio turco-curdo vengono distrutti. Ancora oggi mancano all’appello seimila persone.

.8.  Beritan, (Gülnaz Karataş) rejoint le PKK en 1991 et devient rapidement commandante d’une unité. Elle se jette dans un ravin lors d’un affrontement avec les peshmergas en 1992 pour ne pas être capturée, préférant la mort à la reddition. Zilan, (Zeynep Kınacı) rejoint le PKK en 1995 et commet une opération suicide, le premier de l’histoire du PKK, en 1996 lors d’une cérémonie militaire à Dersim (Tunceli). Serdilan (Sema Yüce) rejoint le PKK en 1991 et s’immole par le feu en 1998 lors de sa détention en prison pour dénoncer l’oppression de l’État turc contre le peuple kurde et protester contre le sexisme au sein du parti, notamment contre la personnalité de Şemdin Sakık, ancien commandant du PKK, qui quitta plus tard le parti. Il est notamment connu pour avoir ardemment remis en question la présence des femmes au sein du PKK. Ces trois femmes figurent, parmi d’autres, parmi les icônes du mouvement et ont rejoint le panthéon des martyrs du mouvement.

.9. Öcalan pose par exemple dans un texte de 1987 la question de la place des femmes dans la société kurde et la lutte armée et critique la structure familiale. Il reprendra ces analyses dans « La question des femmes et de la famille » en 1992 où la famille est présentée comme le frein majeur à la libération du peuple kurde. Les femmes sont doublement opprimées par le pouvoir étatique et les hommes dans l’espace privé.

.10. Öcalan oppose dans ses écrits une ère pré-étatique de socialisme primitif, caractérisée par un matriarcat, et l’ère de l’asservissement des femmes, qui est apparue à la fin du Néolithique et s’est développée avec les civilisations. L’asservissement des femmes est allé de pair avec la création des premiers États, la naissance des religions et du noyau familial sédentaire. Ces trois instances se sont développées par le renforcement de la figure masculine au détriment des femmes.

.11.  Jineolojiye giris, (L’avanzata della logica femminile) a cura dell’insieme dell’ “Accademia di  jineolojî”

.12. Il primo numero della rivista Jineoloijî  si concentra sulla “crisi delle scienze sociali”, per la seconda parte sulla “Metodologia”, la terza sulla “Rivoluzione delle donne”, la quarta e ultima sull’ “Autodifesa femminile”. Una rivista giunta a luglio 2021 al suo 25esimo numero. Gli ultimi articoli sull’ “Evoluzione dell’economia in Rojava” e su “Come cambia la famiglia”.

.13.  Città del Rojava occidentale occupata da metà 2018 dalle truppe di invasione turche.

.14.  E’ utile precisare che la critica delle scienze si inserisce in una elaborazione teorica più ampia in cui Öcalan oppone , nelle sue prese di posizione, la “modernità capitalista” fondata sullo Stato-Nazione, il sistema capitalistico e il patriarcato ad una “modernità democratica” fondata, appunto su di una Nazione veramente democratica.  Il primo si basa su quattro elementi base classici quali il nazionalismo, il positivismo,  il patriarcato e la religione, mentre invece il secondo si fonda sul “confederalismo democratico”, sulla “solidarietà tra i popoli”, sulla “democrazia diretta”, l’ “ecologia” e l’ uguaglianza di genere.

.15. Per la verità la “critica alla mascolinità” non è una esclusiva del “Jineolojî” . Nel 1996 ne trattava già Öcalan rifacendosi ad elaborazioni di Virginia Wolf, della migliore letteratura russa, inglese e francese, fino a citare il “neorealismo” cinematografico italiano e la “nouvelle vague” francese. Sempre con esempi calzanti riguardanti il superamento della figura patriarcale ancorata ad un sistema familiare quasi medioevale, con leggi, giudizi e pene, tutte particolari.

 

 

 

 

 

 

 

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