La banconota algerina

In prossimità del “Giorno della Memoria” una testimonianza di vita che ci piace evidenziare…(n.d.r.)

Quando notai la banconota rimasi stupito. Tutto mi sarei aspettato di trovare in quella vecchia borsa modello anni Cinquanta, piena di lettere e cartoline, ma non un biglietto da 20 franchi dell’Algeria francese.

All’inizio, visto che era piegato in quattro, pensai ad un “santino”, ma quando l’aprii campeggiava la mezza figura di una sensuale donna berbera. Sicuramente era un ricordo di mio padre. Sapevo che aveva combattuto in Libia ed Egitto, ma non che fosse stato in Algeria.

Decisi di chiederglielo la sera stessa, dopo cena.

Era l’estate del 1969, dopo cena noi familiari ci sedevamo sul balcone a chiacchierare. Quella sera lo facemmo solo mio padre ed io.   Era un bel crepuscolo, i bambini giocavano in cortile e gli adulti discutevano, seduti sul basso muretto di cinta, godendosi il fresco.

Parlammo un po’ di scuola e di vacanze, quindi gli chiesi della banconota.Lì per lì non ricordò, poi rammentò di averla ricevuta da un soldato italiano caduto prigioniero degli inglesi in Tunisia, nel 1943. Gli sovvenne di avergli dato in cambio uno scellino inglese, ma non il motivo dello scambio. Quel soldato era giunto da poco nel campo di prigionia e non sapeva niente dell’Inghilterra, mentre mio padre, POW (prisoner of war) da più di due anni, ormai conosceva bene regole, usi e costumi del posto.

 

Gli chiesi della sua cattura.

Quante volte ci aveva narrato storie ed episodi della prigionia,   senza però mai far trapelare la sofferenza provata per la lontananza da casa, per la giovinezza che sfioriva giorno dopo giorno e per un futuro che appariva   fosco. Quella sera, parlando, mio padre assunse un’espressione malinconica, la voce divenne rauca, come nei momenti di forte emozione.  Era stato catturato a Bardia, in Libia, il 4 gennaio 1941, aveva venti anni. Venne liberato e ricondotto in Italia nel 1946. Per la precisione sbarcò a Napoli il 25 maggio1946. Fu messo in congedo temporaneo, con una liquidazione di 3000 lire. Non fece a tempo a raggiungere la stazione ferroviaria che buona parte di quei soldi (già poca cosa) gli fu portata via da un magliaro in cambio di un taglio di stoffa di pessima qualità.

Ma come era finito in Libia? La risposta fu sconvolgente: per fuggire da una condizione di vita insopportabile. E nella disperazione ebbe “fortuna”, dato che i potentini del suo scaglione furono inviati in buona parte in Russia, e di questi molti non tornarono.

L’episodio che spinse mio padre ad anticipare la partenza per il servizio militare, a febbraio del 1940, fu l’ennesima vessazione di suo cognato.

Mio zio, custode presso le case INCIS di Potenza, ospitava mio padre, Arturo, dato che mia nonna era stata nuovamente ricoverata fuori città e mio nonno era in uno dei suoi momenti di latitanza da tutti.   Arturo però non viveva sulle spalle di nessuno, perché, insieme alla sorella, svolgeva molte delle mansioni del custode, che aveva così tempo per fare altro (ad esempio, giocare).  Era disponibile, sempre pronto ad eseguire piccole riparazioni e commissioni per conto dei condomini, tutte famiglie della borghesia medio-alta.

Un giorno, un colonnello dell’esercito fu colpito da trombosi e il medico pensò di applicargli delle sanguisughe per attenuare la pressione del sangue. La moglie del colonnello chiese aiuto ad Arturo che, su una bicicletta presa in prestito, si recò in una zona paludosa fuori città, percorrendo quasi trenta chilometri fra andata e ritorno. Portò le sanguisughe, ma fu tutto inutile, il poveretto morì. La moglie per ringraziare il giovane gli donò un paio di scarpe, quasi nuove, del marito. Ma poté usarle poco. Suo cognato se ne impossessò e le vendette in uno dei suoi soliti piccoli traffici.

E dopo il danno anche il timore delle botte.

Era troppo, doveva andare via e l’unica soluzione possibile era partire per il servizio di leva. Si recò quindi al distretto militare di Potenza e, grazie ad un impiegato suo conoscente, ottenne l’anticipo della partenza. Quando lo seppero i miei zii fu una tragedia, ma per Arturo fu la conclusione di un lungo periodo di patimenti iniziato una notte del 1925. In quella maledetta notte fu svegliato dalle urla terribili della madre, avvisata, così si disse, da uno degli assassini di Francesco, il figlio di 19 anni, ucciso per gelosia.

Da allora non fu più lei, bisognosa di cure e quindi spesso ricoverata in ospedali lontani. Il ritorno dall’America di mio nonno, nel 1931, non migliorò le cose. Deluso per non aver trovato il denaro che aveva inviato in dieci anni di lavoro in Ohio, per riavviare la propria attività di ristoratore, iniziò una vita raminga. Cambiava spesso lavoro, a causa di un comportamento scorbutico, e si allontanava frequentemente dalla città senza dare notizie di sé per parecchio tempo. I matrimoni delle due sorelle e la vita indipendente di suo fratello Antonio avevano indebolito di molto i vincoli familiari. Quante difficoltà. Alla fine della quarta elementare, mia nonna decise di mandarlo a lavorare, vincendo a fatica la resistenza della maestra Manzi, che avrebbe voluto che Arturo concludesse il ciclo delle elementari.

Era il 1930 e mio nonno, a causa della depressione economica, non mandava più soldi dagli Stati Uniti. A mio padre dispiaceva lasciare i suoi compagni di scuola, ma nello stesso tempo si consolava vagheggiando una libertà nuova a fianco dei suoi amici di strada e la possibilità di aiutare economicamente la mamma. Fantasie di un bimbo di dieci anni.

Iniziò facendo lo strillone e consegnando i giornali agli abbonati.

Il magro salario veniva consegnato direttamente a mia nonna dal padrone, che si occupava anche del vitto del suo piccolo dipendente. Arturo mangiava sì nella casa padronale, però non in sala da pranzo, dove c’erano altri bambini, ma in un angolo della cucina, insieme alla cuoca, che mangiava in piedi perché nel frattempo doveva anche servire a tavola.

Crebbe. Adolescente cambiò mestiere, divenne imbianchino, ma i vantaggi furono pochi. Quante domeniche trascorse in piazza ad attendere invano il proprio impresario per il pagamento della settimana di lavoro.

Una vita resa ancora più dura dalla malattia della madre. Né poteva appoggiarsi al fratello Antonio. Sarebbe andato volentieri a Vibo Valentia, dalla sorella maggiore, ma per lui c’era posto solo per brevi permanenze. Il giorno della partenza, Arturo fu accompagnato dal padre alla stazione. Suo grande rammarico non poter salutare la mamma, ricoverata lontano da Potenza. Non l’avrebbe mai più rivista. Morì infatti nel 1944.

Giunto in Libia, poco prima dello scoppio della guerra, si sentì libero, senza il fardello di una famiglia lontana a cui pensare. E non capiva la sofferenza di tanti commilitoni richiamati, che si preoccupavano delle mogli e dei figli lasciati a casa.Per lui la vita militare rappresentava un passo avanti, un momento di progresso e conoscenza. Girava per Bengasi curioso di ogni cosa, tenendosi però lontano dai quartieri arabi, dove i singoli soldati italiani venivano aggrediti e, a volte, uccisi alla spicciolata. Si inoltrava in quei quartieri solo in compagnia di altri soldati e armati con la baionetta d’ordinanza. Si spingeva anche fuori città. Un giorno visitò un accampamento di nomadi. Lo colpì il grande numero di cammelli e il forte odore di letame che aleggiava tutto intorno. Non aveva molti soldi. Spendeva quelli della decade, che bastavano per un pacchetto di sigarette e per il cinema. Più di tanto non poteva permettersi. Quando mia nonna tornò a casa, ricevette qualche genere di conforto, ma soldi pochi, viste le difficoltà economiche in cui lei versava. Nonostante i venti di guerra, Arturo si sentiva libero, senza affanni, se non per la madre lontana. E girava, curiosava per le vie, prima a Bengasi e poi a Derna. Un giorno, verso il tramonto, fu avvicinato da una ragazza che gli chiese uno strano favore: accompagnarla a casa e accenderle le luci. Seppe poi che lei non poteva farlo perché ebrea, infatti al tramonto del venerdì iniziava lo shabbat e ogni attività cessava nelle case degli israeliti.

Uscendo dalla casa, subito dopo aver acceso le luci della sala da pranzo, si rese conto di non aver mai visto un ebreo, se non al cinema, e quella era proprio una bella ragazza. Mio padre partì per la zona d’operazioni senza rendersi conto della gravità della situazione fino a quando la rovinosa prima ritirata italiana dall’Egitto gli fece aprire gli occhi. Ma non capiva ancora la disperazione dei suoi commilitoni più vecchi, sotto i pesanti bombardamenti aerei e di artiglieria inglesi dal 2 al 5 gennaio ’41. Non era coraggio il suo, ma solo l’incoscienza di un giovane di venti anni, che fino ad un certo punto aveva pensato alla guerra come ad un gioco. Ma ebbe paura anche lui, quando i bombardamenti si infittirono, tanto da “far stringere il buco del culo”. Allora subentrò lo spirito di sopravvivenza. E quando il comandante di compagnia ordinò che un soldato tornasse indietro a recuperare la sua cassa personale, come gli altri, non fece un passo avanti. Il sergente maggiore li minacciò, poi, estratta la Beretta, costrinse il soldato che aveva protestato di più a tornare indietro. Lui lo avrebbe seguito, pronto a fare fuoco se avesse tentato di indietreggiare.

Il soldato tornò con la cassa ma non il sergente, investito dalle schegge di un’ogiva.La paura divenne terrore di essere ucciso quando venne catturato dagli australiani. Non fu così, preso in consegna dagli inglesi, iniziò una estenuante marcia nel deserto libico- egiziano, il terrore divenne disperazione, per la fame e per la sete: una scatoletta di carne in quattro e borracce piene d’acqua lanciate a uomini assetati, disposti ad uccidere i propri compagni di sventura pur di impossessarsene.E gli inglesi stavano lì a guardare, a volte a ridere di quel popolo straccione dalle velleità imperiali.

La notte, per carenza di vitamine, i prigionieri perdevano l’uso della vista ed erano come ciechi. Quante volte mio padre sognò di bere l’acqua che gocciolava dal rubinetto di casa. E quanto freddo patì, dormendo a terra, coperto solo dalla sua giubba. Nei pressi di Alessandria i prigionieri furono fatti salire su carri merci aperti, direzione Porto Said, da dove si sarebbero imbarcati per le destinazioni finali. Non camminavano più. Il treno attraversava aree umanizzate, ai lati della ferrovia folle di egiziani li accoglievano con urla e gesti di scherno, “Taliani macaroni”, pisciandogli addosso quando passavano sotto un cavalcavia. Le donne erano le più scatenate. La disperazione divenne rabbia. Arturo cavò da una tasca ciò che aveva, una lira. Là dove andavano non sarebbe servita a nulla, ma poteva essere ancora un buon oggetto contundente. La scagliò con violenza contro una donna che si sbracciava più di altre. La vide portare le mani a un occhio, e poi più nulla.

A Porto Said la destinazione fu decisa dalla sorte: una lunga fila di autocarri, salì su quello dove c’era l’amico d’infanzia Cocò e non sull’altro, dove il cognato del fratello Antonio e i suoi amici si sgolavano e si sbracciavano perché si unisse a loro.Fu la sua fortuna, perché i prigionieri del camion di Cocò andarono in Inghilterra, mentre quelli dell’altro finirono in India, con le sofferenze che ne seguirono.Il viaggio verso le Isole Britanniche durò tre mesi, vissuti come un’avventura, i pesci volanti del Mar Rosso, Cape Town, le piroghe di Sierra Leone, ma anche afflitti dalla fame: le arance, caricate in Sud Africa, mangiate di nascosto dagli italiani, che però riponevano nelle cassette le bucce ricomposte come se fossero intere.

E poi lo sbarco a Glasgow, il percorso in treno attraverso la Scozia e l’Inghilterra, altri paesaggi, oltre a quelli già visti.La vita nei vari campi di prigionia e, dopo il 1943, una esistenza quasi normale, anche se con forti limiti di movimento, facendo amicizia con inglesi e non solo. Memorabile la frequentazione di casa Backer e il gioioso Natale del ’44.Ma Arturo era il giovane pronto e disponibile di sempre, come quando, per procurare uova per la mamma malata di una ragazza inglese sua amica, percorse quaranta miglia, fra andata e ritorno, per raggiungere una colonia agricola dove lavoravano cooperatori italiani.Indossava un’uniforme simile a quelle dell’esercito britannico, ma era fuori legge per tutto il resto, a cominciare dal divieto di superare il limite di cinque miglia.  Quella sera i ricordi quasi si affollarono nella mente di mio padre, come il tentativo di un colonnello inglese, al termine della guerra, di farlo rimanere in territorio britannico come bracciante agricolo.Sarebbe rimasto se avesse saputo che sua mamma era morta. Ma la sorella e il cognato glielo tennero nascosto…ennesima vessazione.

Aveva dimenticato la banconota, ma ricordò in modo indelebile i momenti di una giovinezza volata via in un soffio.

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*