Alessandria 1993. Il declino della politica. Parte I

– 1. La storia[1] delle elezioni amministrative nelle città italiane presenta una cesura comune, costituita dal 1993. In quell’anno si tennero per la prima volta le elezioni amministrative con la nuova legge (Legge 25 marzo 1993, n. 81) che introduceva la cosiddetta elezione diretta dei sindaci. Più in generale, in quel periodo si stava consumando la fine della cosiddetta Prima repubblica, fatto che avrebbe comportato notevoli cambiamenti nell’ambito del sistema politico del Paese. Nella successiva Seconda repubblica, il sistema dei partiti italiani, rimasto relativamente stabile dal 1946, entrò in un periodo di sempre più ampi e marcati rivolgimenti. Si ebbe la progressiva dissoluzione dei partiti tradizionali che erano nati con la Repubblica, accanto all’introduzione di nuovi e assai poco prevedibili soggetti politici, spesso definiti come movimenti piuttosto che partiti.

      – 2. La Guerra fredda aveva indubbiamente ingessato il sistema dei partiti italiani, ponendo da un lato la pregiudiziale antifascista, contro il MSI e i suoi derivati, e dall’altro la pregiudiziale anticomunista, ossia la conventio ad excludendum nei confronti dei partiti di matrice socialista e comunista, solo alla fine parzialmente superata nei confronti del PSI. Questa situazione aveva così determinato una specie di sistema politico bloccato ove solo alcuni soggetti politici erano di fatto legittimati a entrare a far parte delle forze di governo a livello nazionale. A livello delle amministrazioni locali i limiti, soprattutto nei confronti dei socialisti e dei comunisti, erano meno tassativi ma erano comunque presenti. Si formarono così, nel Paese, ben identificabili e durature tradizioni politiche locali legate ai partiti più importanti. In particolare si evidenziarono le “aree rosse” e le “aree bianche”, caratteristiche non nuove che avevano lontane radici nella cultura politica italiana, fin dal Risorgimento.

      – 3. I partiti della Prima repubblica avevano svolto – talvolta senza neppure averne la piena consapevolezza – un ruolo importante di corpi intermedi capaci da un lato di canalizzare la domanda politica che partiva dal basso e dall’altro di organizzare la società civile dandole la forma di una società politica assai articolata, ricca di una moltitudine di spazi partecipativi, come le sezioni, i circoli, le parrocchie, le SOMS e i dopolavoro, le Feste dei vari partiti e così via. Di questa articolazione facevano parte anche i sindacati confederali, nella logica della cinghia di trasmissione. Era questa la Repubblica dei partiti, assai ben descritta dallo storico Pietro Scoppola.[2]

      – 4. La presenza dei partiti come importanti e diffusi corpi intermedi permetteva che ci fosse una assai marcata corrispondenza tra la vita politica nazionale e quella locale. I dibattiti che si tenevano tra le forze politiche nazionali avevano un’immediata risonanza presso le forze politiche organizzate a livello locale. La risonanza era spesso amplificata da una copiosa attività pubblicistica ed editoriale, diffusa capillarmente anche e soprattutto grazie a una intensa e diffusa militanza. I congressi periodici dei partiti, che si tenevano sempre a partire dai livelli locali, alimentavano il dibattito tra le diverse linee e/o correnti e contribuivano alla formazione e alla selezione del personale politico, cose che avvenivano sul territorio. Non di rado nell’ambito stesso dello spazio politico così strutturato trovavano posto attività formative di vario genere, comprese le scuole di partito, rivolte ai militanti, e numerose attività più ampiamente di carattere culturale rivolte alla cittadinanza. I leader politici locali erano non di rado personalità di elevato profilo conosciute e rispettate. I loro interventi sui giornali locali alimentavano costantemente il dibattito politico, sia sui temi locali sia sui temi di più ampia portata, nazionale e internazionale. A tutto ciò si aggiungeva una folta schiera di intellettuali, anch’essi ben noti, spesso politicamente schierati, che contribuivano ad alimentare il dibattito politico e a compiere una importante funzione di divulgazione culturale, riportando sul piano locale i grandi dibattiti e i nuovi orientamenti culturali.

      – 5. Tutto ciò contribuiva a formare uno spazio politico comune, caratterizzato da un linguaggio politico condiviso, magari carico di sofisticati bizantinismi, grazie al quale comunque venivano definite le diverse posizioni, veniva prodotta una critica reciproca, venivano elaborate e diffuse varie e molteplici argomentazioni a proposito delle questioni di rilievo che poi erano condensate nei materiali di propaganda, diffuse sui giornali di partito. L’opinione pubblica mediamente aveva conoscenza, spesso tutt’altro che superficiale, delle diverse posizioni dei diversi soggetti politici.

      Non si trattava certo di un sistema perfetto. Infatti ebbe a terminare in maniera piuttosto rovinosa, anche e soprattutto per degenerazione interna. Tuttavia fu in grado di svolgere a lungo la funzione di organizzare uno spazio politico consapevole e attivo in un Paese come l’Italia che era, all’epoca, gravemente lacerato dalle tensioni della Guerra fredda. Si trattava dopotutto di un paese a sovranità limitata, come scopriranno molte inchieste nei decenni successivi.

      – 6. Il sistema politico della Prima repubblica implose nel giro di pochi anni, proprio intorno all’inizio degli anni Novanta. Sicuramente ebbero grande rilievo in ciò le vicende di Tangentopoli, che contribuirono a rendere noto all’opinione pubblica il lato oscuro interno di quel sistema politico che aveva retto le sorti del Paese dal 1946. Ma c’era anche un lato oscuro internazionale. L’altro potente motore del dissolvimento del sistema politico della Prima repubblica fu infatti determinato a livello internazionale proprio dalla fine della Guerra fredda, con la relativa implosione (piuttosto rapida e inaspettata) del mondo comunista. Nel nostro Paese tutta la galassia delle numerose forze che ruotavano intorno alla sinistra ne fu travolta. Iniziò un lungo stillicìdio di scissioni, tentativi di aggregazione, cambiamenti di nome, e così via. In questi processi, come abbiamo già ricordato, non fu estraneo il ruolo della magistratura che aveva preso a reprimere per lo meno le deviazioni più evidenti e clamorose. Anche la DC, il partito dei cattolici, che aveva maggiormente tratto vantaggio dalla condizione di sovranità limitata dell’Italia nella Guerra fredda, cominciò a perdere la propria posizione privilegiata di arbitro del sistema ed entrò in un processo di risonanza che ne produsse la rapida dissoluzione. Com’è noto, frammenti di DC e di PCI, dopo anni di incerte navigazioni, entrarono a costituire l’attuale PD nel 2007.

      – 7. Tutte le rapide trasformazioni avvenute all’inizio degli anni Novanta lasciavano presumere che alla Repubblica dei partiti, che era di fatto una democrazia sotto tutela, avrebbe potuto e dovuto succedere una Repubblica dei cittadini, uno spazio politico nuovo nel quale i cittadini finalmente avrebbero avuto l’opportunità di prendere nelle proprie mani la dimensione della vita politica. La grande indignazione contro la corruzione, suscitata dalle vicende di Tangentopoli, lasciava ben sperare nella determinazione degli italiani di pretendere migliori prestazioni dal sistema politico, di aprire le porte alla partecipazione di chi era stato ingiustamente escluso, di una politica incentrata prima di tutto sulla trasparenza. Una politica capace di fare a meno di una burocrazia partitica asfissiante, del clientelismo, del consociativismo e della corruzione.

      Si trattava, in altri termini, di lasciare un libero sviluppo alla cultura civica degli italiani, prima sacrificata dal fascismo, ravvivata parzialmente nell’ambito della Resistenza ma poi alquanto imbalsamata e ritualizzata nella paternale Repubblica dei partiti. Non a caso in quel periodo si sviluppò un acceso dibattito, tra gli intellettuali più indipendenti e più attenti alle trasformazioni del nostro Paese, sulle vicende storiche della cultura civica degli italiani. Si trattava di costruire un nuovo modello di politica e un corrispondente sistema politico rinnovato che avessero finalmente le loro radici in una cultura civica autentica nella quale la partecipazione fosse il risultato di una autentica mobilitazione dal basso e non della costante chiamata alle armi dei partiti paternalisti.

      – 8. Su quali basi si potevano autorizzare simili aspettative, si poteva realizzare un simile programma? Come sappiamo, nel nostro paese la cultura civica di tipo laico e repubblicano non aveva mai avuto grande fortuna e, dopo la Resistenza, era stata ben presto messa da parte. È appena il caso di ricordare la progressiva sparizione del Partito d’Azione. Le forze laiche (liberali, repubblicani, radicali) avevano sempre avuto scarsi consensi a livello elettorale. Le uniche forme di mobilitazione conosciute erano quelle dall’alto, quelle tradizionali dei partiti a forte impronta ideologica. Nel nostro Paese, pur sotto il paternalismo dei Partiti, erano state compiute alcune battaglie laiche importanti, anche attraverso lo strumento referendario, ma queste non avevano mai avuto una traduzione in termini di sistema politico, nonostante i tentativi e gli auspici di alcuni valorosi intellettuali e militanti. Il pensiero autenticamente repubblicano, nonostante gli illustri trascorsi storici, non è mai riuscito a diventare nel nostro Paese una sorta di senso comune, come invece era accaduto in Francia. Lo Stato è sempre stato considerato dalla gran massa degli italiani come qualcosa di estraneo.

      Gli stessi movimenti del Sessantotto non avevano saputo dare vita a un solido fronte civico laico e spesso erano rimasti impegolati nelle secche della ideologia rossa, in qualcuna delle tante declinazioni. Le stesse forze della sinistra, che erano in via di dissoluzione (PSI, PCI e derivati, parte della DC), avevano solo sempre afferrato la superficie, la retorica, la forma della democrazia piuttosto che la sostanza, finendo di fatto col praticare sempre più la politique politicienne, ossia forme spregiudicate di realismo, di cinismo, carrierismo e opportunismo. La cultura civica democratica, se uno non ce l’ha, non se la può dare con un colpo di bacchetta magica. A lungo le forze della sinistra furono lacerate tra i custodi dei vecchi linguaggi ideologici e gli “innovatori” sempre più spregiudicati e rotti a tutte le avventure.

      – 9. Alcuni tentativi di aggregazione di nuove forze civiche democratiche si ebbero nei primi anni Novanta. Dalle lotte contro la mafia era nata La Rete di Leoluca Orlando. Da Tangentopoli nascerà l’Italia dei Valori del giudice Di Pietro. Da un problema oggettivo sempre più grave e visibile nascerà la galassia delle forze ambientaliste, la quale anch’essa tuttavia non ha mai saputo sviluppare pienamente una tradizione civica democratica, tradizione che non le apparteneva fin dalle origini. Possiamo citare anche il Partito Radicale che in quel periodo seppe guadagnare una certa visibilità, affrontando temi sentiti dalla opinione pubblica laica non schierata. Alcune battaglie dei radicali erano senz’altro battaglie laiche e democratiche, che non avevano mai trovato posto nei programmi dei partiti paternalistici della Repubblica dei partiti. Sono stati, col senno di poi, tutti tentativi magari generosi ma minoritari e fallimentari. Queste forze, invece di dare vita a una nuova cultura civica democratica finirono per trasformarsi in piccoli partiti, per lo più monotematici, senza alcun ampio respiro.

      – 10. Così, col senno di poi, in questo vuoto, al posto di un nuovo modello di politica, civica e democratica, abbiamo avuto, alla fine, lo sviluppo dell’antipolitica. Al posto dell’irrobustimento e della crescita dello spirito pubblico abbiamo avuto il declino della politica. Sono troppo note le vicende dell’antipolitica per seguirle qui in dettaglio. Furono la Lega Nord di Bossi e il partito televisivo di Berlusconi a organizzare le prime forme di antipolitica. E l’antipolitica degli anni Novanta (e successivi) fu indubbiamente alle origini del populismo dei decenni più recenti. Il populismo, manco a dirlo, ebbe un gran successo di pubblico, ben più delle battaglie civiche e democratiche dei piccoli partiti laici. Gli italiani, catechizzati per lunghi anni entro le fumose ideologie paternalistiche della Repubblica dei partiti, si scoprì non avessero sviluppato alcun robusto antidoto contro il populismo e ne caddero vittime quasi inconsapevolmente. Così anche quel che restava dei partiti della Prima repubblica cominciò a rincorrere il populismo. Le strutture partecipative vennero smantellate per rincorrere i miti del partito televisivo, della leadership personale, del pragmatismo programmatico. Purtroppo, a fronte dell’uso sempre più pronunciato di immaginosi simbolismi di carattere retorico faceva da pendant una politica reale sempre più confinata alla mera amministrazione, alla mera aritmetica del potere, alle logiche della distribuzione in cambio del consenso. Una politica che rinunciava sempre più ai programmi per mettere, al loro posto, la persona dei leader politici. In un tempo in cui le persone dei leader si facevano sempre più deboli, sbiadite, prive di qualità. E le deboli persone non sapranno reggere alla gravità dei compiti che esse stesse si imponevano.

      – 11. La legge sull’elezione diretta dei sindaci promulgata nel marzo del 1993 (Legge 25 marzo 1993, n. 81) aveva cercato di rispondere alla nuova, seppur generica, domanda di nuova politica che si respirava nel Paese. Si trattava anzitutto (1) di dare più forza all’esecutivo e di porre fine alle alchimie politiche dei consigli comunali che spesso producevano l’immobilismo, la clientela, il consociativismo e la spartizione delle posizioni di potere. Uno degli espedienti fu quello di dare al sindaco, eletto direttamente dai cittadini, la facoltà di scegliersi la propria squadra di governo. La Giunta era ora scelta e nominata dal sindaco e di essa non potevano più far parte i consiglieri eletti. Un consigliere eletto per entrare in Giunta doveva dimettersi. Si trattava poi di permettere (2) una migliore selezione del personale politico, sottraendolo all’influenza corruttiva dei partiti. La competizione elettorale diretta e l’avallo popolare avrebbero dovuto contribuire alla discesa in campo di personalità più preparate e nello stesso tempo più fidate e stimate dal grande pubblico. L’elezione diretta di un personaggio noto al pubblico, capace e stimato, avrebbe permesso (3) una maggiore facilità nei rapporti tra gli elettori e l’amministrazione, avrebbe permesso la trasmissione della domanda politica dal basso verso l’alto e la possibilità, da parte dell’amministrazione, di orientare i cittadini verso gli obiettivi comuni e le scelte di fondo davvero rilevanti. Per questo, ogni candidatura doveva essere accompagnata (4) da un programma di governo preciso e circostanziato, intorno al quale avrebbero potuto ampiamente coalizzarsi tutte le forze alleate. Il Consiglio avrebbe dovuto fungere (5) da organo di controllo dell’esecutivo e avrebbe avuto il potere di sfiduciare l’Amministrazione stessa in caso di incapacità di realizzare il proprio programma.

      Insomma, si trattava di realizzare, almeno a livello locale, quella esperienza autenticamente democratica che si tardava a intravvedere nei meandri della politica nazionale. Naturalmente tra i fautori della legge c’erano coloro (all’epoca non erano pochi) che tifavano per l’introduzione nel nostro Paese di un modello presidenziale o semi-presidenziale. I guasti della degenerazione del sistema proporzionale erano infatti sotto gli occhi di tutti.

      – 12. Sono ormai passati trent’anni e a questo punto può essere opportuno fare un bilancio di quel che è successo da allora, non solo sulla base dei pregiudizi ideologici circa i vari sistemi elettorali, ma sulla base delle effettive realizzazioni. È davvero strano che gli studi in questo campo a livello nazionale siano pochi e decisamente poco illuminanti, segno del fatto che nel nostro Paese lo spirito del pragmatismo debba percorrere ancora molta strada. Indubbiamente nell’immagine dell’opinione pubblica alcuni sindaci – soprattutto di città medio grandi – sono divenuti celebrità mediatiche. Indubbiamente alcuni di questi hanno mostrato grandi capacità e ottenuto notevole consenso popolare. Ma ci sono stati anche molti flop che non possono essere facilmente messi da parte. E poi c’è la zona grigia dei comuni medio piccoli, dove non è davvero chiaro quel che sia effettivamente accaduto.

      – 13. Alessandria, città media per eccellenza, può essere presa come caso paradigmatico. O, se si vuole, per lo meno, come un caso interessante di sviluppo e realizzazione del nuovo sistema politico locale, capace anche di gettare qualche luce su quel che sta accadendo più in generale nel nostro Paese. Non si tratta principalmente di dare valutazioni specifiche sui sindaci che si sono succeduti, che sarebbero comunque sempre valutazioni di parte, bensì di comprendere quale tipo di sistema politico si sia effettivamente instaurato a livello locale, come funzioni di fatto, al di là delle belle intenzioni, quali siano le diversità rispetto al sistema precedente, e soprattutto quali siano i punti di forza e di debolezza di questo ormai relativamente nuovo sistema.

      La nostra analisi sarà incentrata soprattutto intorno ai dati elettorali. Si tratta dunque prima di tutto di fatti e non di opinioni. Fatti che nel corso del tempo mostrano delle tendenze, producono degli effetti, spesso indipendentemente dalla volontà stessa dei protagonisti. Si tratta di dati elementari, tuttavia non facilmente reperibili, nonostante tutte le proclamazioni retoriche sulla trasparenza che abbiamo sentito in questi decenni. In questo senso il sito web della Amministrazione alessandrina è davvero alquanto carente. Per avere alcuni dati abbiamo dovuto andare a sfogliare i vecchi giornali locali, ricorrere a siti istituzionali nazionali o, addirittura, a Wikipedia. I dati elettorali che si sono lentamente accumulati nei decenni possono svelare – entro certi limiti – i meccanismi di funzionamento del nuovo sistema, possono mostrarne le caratteristiche di fondo e le tendenze presenti e future.

       Il periodo 1946 – 1990

      – 14. Prima di procedere a interrogarci su quanto sia accaduto nella politica alessandrina dal 1993 a oggi, è il caso di dare un’occhiata, seppur frettolosa, a quanto era accaduto nel precedente periodo compreso tra il 1946 e il 1990, il periodo della cosiddetta Prima repubblica. L’aspetto più appariscente di quel periodo – se confrontato con il periodo successivo – è che il sistema politico che era emerso a livello locale era a grandi linee uno specchio di quello nazionale, fatte salve piccole variazioni. E nel periodo, il sistema politico nazionale – per i motivi estrinseci legati alla Guerra fredda – era rimasto notevolmente stabile. I partiti erano grossomodo gli stessi ovunque. Le competizioni elettorali alessandrine hanno a lungo rispecchiato la competizione elettorale nazionale. Le forze politiche, che erano in gran parte le stesse, spesso riportavano nei territori locali analoghe distribuzioni percentuali di voti. Nell’ambito di questo sistema, ogni città col passare del tempo aveva maturato una propria specifica tradizione politica locale, virata tendenzialmente a destra, al centro o a sinistra. Fu questa una delle conseguenze della Repubblica dei partiti, nel bene e nel male. Come si vedrà dai dati, si è trattato dunque di un sistema relativamente stabile e prevedibile.

      – 15. Allo scopo di avere a disposizione una sintesi generale di questo lungo periodo, abbiamo realizzato una ricostruzione grafica dell’andamento del voto amministrativo in Alessandria nel periodo 1946-1990. Il commento che seguirà sarà condotto sulla scorta dei tre grafici, riportati in fondo a questo capitolo, che si consiglia di avere sott’occhio per meglio seguire le interpretazioni sintetiche che seguono (cfr. figure 1-3. I link si trovano in fondo).

      – 16. Nel 1946, all’indomani della Liberazione, il partito più votato ad Alessandria è lo PSIUP (si tratta del partito che successivamente prenderà il nome di PSI, da non confondere con l’omonimo partito degli anni sessanta-settanta). Nei nostri grafici è stato indicato come PSIUP-PSI. A seguire, abbiamo poi il PCI e poi ancora la DC. Insieme, PSIUP-PSI e PCI avevano raggiunto, in quella consultazione, la cifra ragguardevole di 34.121 voti. Nel primissimo dopoguerra, Alessandria era dunque una città rossa per eccellenza.

      – 17. Nelle due tornate elettorali successive (1951 e 1956), che hanno un andamento piuttosto simile tra di loro, si nota un piccolo ma decisivo cambiamento. Abbiamo un lieve ma decisivo sorpasso della DC (che passa dalla terza alla prima posizione) e una diminuzione sensibile di PCI e PSI (che passano in seconda e terza posizione). Ciò tuttavia non era bastato a modificare l’orientamento prevalente delle Giunte. Sono questi gli anni in cui – sul piano nazionale – la DC riesce a sfruttare in pieno la conventio ad excludendum nei confronti delle forze della sinistra e la propria rendita di posizione nell’ambito della Guerra fredda.

      – 18. Le elezioni del 1960 mostrano i primi segni di un’inversione di tendenza che si svilupperà pienamente nel decennio successivo. Il PCI cresce e sopravanza di poco la DC, mentre il PSI mostra già qualche segno di affaticamento, preludio a una più significativa discesa nelle elezioni successive. La ripresa elettorale del PCI nel periodo 1960 – 1964 è probabilmente legata al nuovo sviluppo economico e anche alla ripresa della conflittualità sociale.

      – 19. Le elezioni del 1964 in particolare mostrano una tendenza che perdurerà fino al 1975: una costante crescita del PCI (evidentemente sull’onda dei movimenti sociali) una stabilizzazione della DC (che raggiunge qui il suo culmine elettorale) e un declino del PSI (che raggiunge il suo minimo nel 1970). Nella contrazione del PSI indubbiamente ha avuto un ruolo la vicenda interna al mondo socialista della scissione dello PSIUP, presente quest’ultimo alle elezioni locali alessandrine nel 1964 e nel 1970. In Alessandria la scissione dello PSIUP ebbe un certo peso, date le figure rilevanti tra i politici locali che vi furono coinvolte.

      – 20. Le elezioni del 1975 sono quelle in cui il PCI ottiene in Alessandria il suo massimo storico (nei confronti della DC). Il PSI nel 1975 (anno che segna il massimo sviluppo ma anche la prima crisi dei movimenti) riesce a invertire il suo processo discensivo, con una risalita costante che lo porterà al suo massimo storico nelle elezioni del 1990. Le elezioni del 1975 sono dunque elezioni di svolta, dove comincia la discesa del PCI e della DC e la risalita del PSI (che continuerà fino al 1990, quando sarà bruscamente arrestata dalla crisi di Tangentopoli). È questo un quadro locale che rispecchia tuttavia la situazione internazionale (la crisi dell’Unione Sovietica) ma soprattutto quella nazionale, con l’alleanza DC-PSI in funzione anticomunista. Sono queste le ultime ripercussioni della Guerra fredda.

      – 21. Dal 1946 al 1990, Alessandria vede un’ininterrotta serie di sindaci socialisti, sostenuti alternativamente da maggioranze di sinistra o di centro-sinistra. Abbiamo anzitutto le due brevi esperienze di Moccagatta (7 aprile-22 settembre 1946) e di Porta (1946-1947) nell’immediato dopoguerra che costituiscono indubbiamente un periodo di transizione. Abbiamo poi il lungo periodo di Basile (1947-1964), seguito da Abbiati (1964-1967), Magrassi (1967-1972), Borgoglio (1972-1979), Barrera (1979-1985), Mirabelli (1985-1991), Priano (4 febbraio – 30 luglio 1992) e Veronesi (25 settembre 1992 – 24 febbraio 1993). Esula dagli scopi di questo studio entrare nel merito di tutte queste sindacature.

      – 22. Tornando al piano elettorale, se diamo uno sguardo alle forze politiche minori (con meno di 10.000 voti), notiamo anzitutto la costante decrescita del PSDI (nei nostri grafici questa denominazione assomma, per brevità, le tormentate formazioni del PSLI – PSDI – PSU), evidentemente risucchiato dalla costante crescita socialista dopo il 1970. Il PSI e il PSDI si trovavano infatti in competizione più o meno nella stessa area elettorale.

      Per quanto riguarda i partiti del fronte laico, del PLI e del PRI, abbiamo un andamento elettorale relativamente costante attraverso il tempo – seppure con consensi elettorali piuttosto ridotti. Sul fronte laico, va segnalata la presenza del Partito d’Azione soltanto alle elezioni del 1946, ove aveva però totalizzato pochissimi voti. Sul fronte dell’estrema destra, è altrettanto costante è l’andamento nel MSI (seppure con vari cambi di denominazione), nei cui confronti tuttavia è sempre valsa la esclusione antifascista.

      – 23. Nelle elezioni del 1990 si intravvedono alcuni significativi cambiamenti che porteranno poi alla svolta del 1993. Abbiamo la comparsa di diversi partiti nuovi, che hanno un corrispettivo nazionale: abbiamo due partiti ispirati alla tematica ambientale (Lista Verde e Verdi Arcobaleno – i Verdi già in versione plurale e già divisi in partenza!) e uno ispirato al comunitarismo etnico: la Lega Nord. La Lega Nord, alla sua prima comparsa elettorale in Alessandria, guadagnò appena 2.373 voti. Mentre i partiti ambientalisti rimarranno formazioni di minoranza, la Lega Nord riuscirà tuttavia a vincere, da sola, le successive elezioni del 1993, imponendo la nuova figura del sindaco Francesca Calvo, con 30.797 voti al secondo turno. Né il PCI né la DC nel lungo periodo precedente avevano mai neppure sfiorato la soglia dei 30.000 voti. Nel breve volgere di tre anni in Alessandria si assisterà dunque alla fine di un mondo. La politica sarebbe diventata un’altra cosa.

(Continua)

 Giuseppe  Rinaldi (9/12/2020)

Figura 1

Figura 2

Figura 3

Scarica la pubblicazione intera in PDF  (60 pagine, con tutte le tabelle e le figure)

 

NOTE

[1] Questo saggio, che pubblico suddiviso in due puntate, riprende in toto la parte interpretativa di un più ampio lavoro di riflessione e documentazione contenuto in un mio fascicolo di una sessantina di pagine che ha un titolo analogo (versione 2.1). Per motivi di spazio ho escluso qui le numerose figure e tabelle, e i relativi commenti. La pubblicazione originaria è disponibile e può essere agevolmente scaricata attraverso gli appositi link forniti in calce. Ho avuto modo di discutere di alcuni aspetti del presente saggio con gli amici Franco Livorsi e Nicola Parodi. Li ringrazio per le loro critiche, consigli e suggerimenti. Naturalmente la responsabilità di quanto contenuto nel saggio è solo mia.

[2] 1991. Scoppola, Pietro, La repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia, Il Mulino, Bologna.

 

 

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