Ancora sul ’68. Giulio Girardi, i Cristiani, il Socialismo.

A rileggere quanto scriveva nel 1972 il filosofo e teologo della liberazione Giulio Girardi (Il Cairo 1926 – Roma 2012), ovvero circa quarantacinque anni fa, sul tema della pace si compie un benefico esercizio di riconsiderazione di buona parte della storia sociale, religiosa, culturale e politica in senso lato che ci riguarda. Un esercizio di riconsiderazione nel senso di una radicale de-costruzione di falsi miti, di quadri o quadretti ideologici, di ricette storiografiche riconducibili a una produzione meramente manualistica.

“La pace, un ponte malmesso sospeso nel vuoto”.

E allora leggiamolo  il Girardi impegnato per la pace: “L’urgenza e le difficoltà di una collaborazione per la pace sono particolarmente gravi quando le parti in causa sono i marxisti e i cristiani: due comunità che rappresentano, sotto forme profondamente diverse, grandi forze storiche e grandi aspirazioni ideali” (La pace, problema del nostro tempo). Già qui incontriamo elementi assai determinanti per il nostro compito di rilettura della storia di Girardi. Ancora più importanti in un frangente, come questo, se si prova a discutere di “’68”, del suo peso, del suo successo, di ciò che ha lasciato. Più che per far sfoggio di cultura storica filtrata dai comunicati dell’epoca o da ciò che riportavano i “giornaloni” gli “elemnti determinanti” facevano la differenza. Allora erano veramente “dirimenti” e, in un certo senso, marcavano l’approccio di base al mondo di ogni cittadino.

Di lì d’altra parte è partita anche la controcultura, basata su una lettura diretta delle fonti, sulla divulgazione di tutte le notizie (ritenute importanti) senza nessun tipo di censura. Lasciando al lettore, per lo più giovane, abituato ai paludamenti delle lezioni cattedratiche, spesso ripetitive e superficiali, la possibilità di “farsi un’idea diversa”. Poi a “lei” o a “lui” la responsabilità delle scelte conseguenti.

Pertanto padre Giulio Girardi ha contribuito a cambiare dalle fondamenta modalità di pensiero e epistemologie di fondo. Una delle sue principali preoccupazioni è sempre stata la salvaguardia della “pace”. Pace come bene supremo. Pace come preliminare ben precedente ad ogni scelta o steccato ideologico. E’ stato lui ad affermare, per esempio, che “il rapporto tra questi movimenti (quelli nati negli anni Sessanta dello scorso secolo), sebbene comandato da fattori storici molto complessi, non è per questo meno paradossale. In questi movimenti vi sono uomini che, in forza della loro ispirazione originaria, perseguono ideali di pace mondiale ma che, di fatto, sono spesso in conflitto fra loro, che contribuiscono anzi a rendere la lotta più assoluta, fornendole giustificazioni ideali e attribuendole la grandezza di una guerra santa” (2)

Una “storia” che si ripete, che si è ripetuta più volte nel tempo. Una situazione di tensione che va gestita e controllata. E’ proprio con un libro degli anni Sessanta “Marxismo e Cristianesimo” (3)  che il nostro prova a mettere a confronto due mondi, due filosofie, due prospettive di vita. E il paragone con il ponte sospeso, con la necessità di guardare oltre, di guardare verso la meta, chiarifica ogni incertezza del percorso intermedio.  Durante la sua vita ha dovuto pagare, anche con “isolamenti” forzati e reprimende di difficile giustificazione, il mantenimento del suo pensiero critico e il perseverare nelle sue denunce. Critiche che partivano dalla sua esperienza personale, dall’aver visto che al contenuto delle encicliche “Pacem in terris” (4) e “Populorum progressio” (5)   è seguito molto poco all’atto pratico. In America Latina tutti i grandi fermenti della “Teologia della Liberazione” venivano o repressi o annacquati, in Africa il “neo-colonialismo” stava riprendendo piede in modo subdolo e ancor più pericoloso, con sistemi clientelari e mafiosi, tutt’altro dalla sbandierata “democratie pour tous”. L’apoteosi di questa involuzione si avrà però nei Paesi dell’Est Europa, quelli segnati dal “socialismo reale”,  in cui più forte fu l’identificazione fra socialismo/comunismo e repressione, mancanza di libertà.

Il “Sessantotto” e la spinta del Concilio

Tutti fenomeni importanti verificatisi tra gli anni Cinquanta e Ottanta dello scorso secolo… spesso dimenticati o volutamente fraintesi. E sarà proprio padre Giulio con  “La tunica lacerata” (6) a togliere il velo a molte di queste ambiguità. Identificherà, per esempio nell’azione congiunta di buona parte del collegio cardinalizio post-conciliare (a cominciare da Joseph Ratzinger) e nella “fronda” del cattolicesimo dei Paesi dell’Est, il potente maglio che – con scientifica applicazione – riporterà nel giro di un decennio buona parte dei “fedeli” traviati dalle nuove idee della Teologia della Liberazione sul più tradizionale terreno del recupero dei principi fondanti del magistero della Chiesa.

All’interno di questo progetto restauratore (esiziale per lo “spirito squisitamente libertario” del Sessantotto)  trovano tutto il loro significato le prese di posizione del pontificato di Papa Woytila (Giovanni Paolo II) nei confronti del Concilio Vaticano II, della “Teologia della Liberazione”, e del rapporto fra l’uno e l’altra. Per analizzarle, si può fare un riferimento particolare al  “Rapporto sulla fede” dell’allora Cardinale Ratzinger (7). I problemi espressamente affrontati da questo documento in merito all’interpretazione del Concilio non sono necessariamente né gli unici né i fondamentali. Essi consentono però una prima lettura del dibattito, sufficientemente precisa, per individuare i problemi e le contraddizioni radicali espresse (spesso inconsce per intervistatore e intervistato).

In rapporto al Concilio, Ratzinger riprende con molta nettezza la classica polemica tra “conservatori” e “progressisti”, anche se intende collocarsi egli stesso, come la Chiesa, al di là di queste categorie. I1 suo intento è di tracciare una linea di demarcazione tra il legittimo aggiornamento della dottrina tradizionale, e il cedimento alle istanze culturali del mondo contemporaneo o, se si preferisce, del  “mondo” visto spesso in chiave negativa. In questo sforzo di discernimento, ciò che lo preoccupa è la difesa dell’identità cristiana, seriamente minacciata, a  giudizio dell’allora Cardinale, da correnti teologiche che si presentano come  “conciliari” ma che invece, sempre a secondo l’intervistato, sono tutt’altro. Identità cristiana  per Ratzinger, ma sotto sotto anche per Messori, coincide con 1’identità  cattolica, unica espressione integrale ed autentica di essa. Per questo, su ognuno dei problemi affrontati, siano essi metodologici, dogmatici, morali o liturgici, egli difende la soluzione specificamente cristiana, anzi cattolica, contro le varie soluzioni “riduttive”, sviluppate all’insegna del “dialogo” con il mondo, con i fratelli separati, con le religioni non cristiane, con l’ateismo e il marxismo.

Tutti temi “di frontiera” che hanno trovato, a partire dalla metà degli anni Cinquanta dello scorso secolo, più di un propugnatore, con intere scuole di pensiero che hanno spinto per la costruzione di “ponti” fino ad allora impensabili. Di qui le prime esperienze, specie in ambito missionario, di “revisione” della liturgia delle varie cerimonie in chiave localistica, con affiancamento di musiche locali/tribali alle più canoniche litanie o “canti ufficiali” dell’ortodossia, sia cattolica che luterano/protestante. Non solo, proprio negli anni immediatamente precedenti il concilio Vaticano II (tra il 1956 e il 1962) sono sempre più presenti (e accettate) all’interno delle celebrazioni, letture “laiche” che ricordano avvenimenti e personalità importanti della storia locale o, addirittura, figure mitiche del tribalismo indigeno. Hunhapu’ e Ixbalanque’, per esempio, famosi personaggi positivi della c.d. Bibbia maya (il “Popul Vuh”), venivano riletti in chiave evangelica mettendone in luce virtù morali e facoltà messianiche. Una commistione che permetteva di allargare il numero di fedeli e di motivarli ancor di più nella scelta del Cristianesimo, a fronte di altre religioni, sia tradizionali, sia di importazione (come l’Islamismo), ma che rischiava – per qualcuno -di minare alle radici la “catholica traditio”.

Cercando poi di ricondurre il problema ai suoi termini radicali, è proprio Ratzinger a mettere in evidenza l’antinomia tra antropocentrismo e teocentrismo. Dove antropocentrismo significa in prima approssimazione una visione dell’uomo e della storia, secondo cui l’uomo può liberare se stesso dal male e costruire un mondo nuovo con le sue sole forze; esattamente ciò che andava rivendicando la “rivoluzione dei fiori” o “l’immaginazione al potere”, una rivolta contro l’autoritarismo e per l’autodeterminazione. Invece il teocentrismo, sempre secondo i normalizzatori dell’epoca,  é la concezione secondo cui solo Dio può liberare l’uomo e costruire un mondo nuovo.

L’antropocentrismo cosi inteso è, secondo Ratzinger, nel cuore della cultura moderna; ed è fondamentalmente di fronte ad esso che la Chiesa conciliare e postconciliare debba prendere posizione, quando giudica il mondo (suo) contemporaneo. Tale opzione sarà decisiva nel caratterizzare i vari orientamenti teologici, e nel definire la loro ortodossia. Esattamente l’opposto di quanto ci si sarebbe aspettato dopo il pontificato “santo” di Giovanni XXIII e che ha cominciato a “materializzarsi” nei primi anni Settanta dello scorso secolo, sia come “reazione” all’onda montante della contestazione, sia come recupero di tutta una serie di “principi”, quelli soliti, a ben vedere, di Dio, Patria e Famiglia, da cui non ci si riusciva a distaccare.

Queste prese di posizione sul mondo intendono essere, in definitiva, “teologiche”, interpretando tutto alla luce della fede.  E qui Ratzinger è ancora più netto. “Ma quale è il luogo teologico fondamentale, dove cioè Dio si manifesta con particolare verità, dal quale è possibile portare sul mondo e sulla storia un autentico sguardo di fede?”  (8) . La risposta è lapidaria: l’ambito unico possibile è quello dell’interpretazione corretta dei fatti condotta dalle autorità della chiesa Cattolica nella sua ufficialità.

D’altra parte l’opinione di questi rappresentanti del “recupero dei valori tradizionali” rispetto a ciò che stava succedendo nel mondo prima, durante e dopo il Sessantotto era non solo negativo ma improntato alla più nera preoccupazione. A loro giudizio l’innovazione si era spinta molto al di là della forma, ed aveva largamente intaccato la sostanza dottrinale. La preoccupazione di aprirsi al mondo e di dialogare con esso, ha determinato una mimetizzazione del cristianesimo, privandolo  – nei confronti del mondo – della sua originaria capacita di contestazione. Questo, beninteso, sempre secondo i – comunque molti – “recuperatori”.

Per loro la radice della decadenza è da ricercarsi “nell’autonomia dell’uomo, e nel correlativo obliterarsi della centralità di Dio e della Chiesa cattolica “(9) . Sostanzialmente l’affermarsi dell’antropocentrismo moderno contro il teocentrismo e la pretesa dell’uomo moderno di liberarsi da Dio, rilanciando il grido della ribellione originaria: “non ti servirò”. Non sia mai.

Ma come si è verificata questa penetrazione dell’antropocentrismo nella mentalità dei credenti e nella stessa teologia?_Ratzinger vuole naturalmente escludere che la sua analisi sia una critica del Concilio: la responsabilità della decadenza non va quindi ricercata nello stesso Concilio (e questo tiene a precisarlo ogni volta che gli è consentito), ma in ideologie estranee ed ostili alla Chiesa, che però hanno trovato in essa diritto di cittadinanza, ad opera di correnti teologiche eccessivamente preoccupate di rendersi accette al mondo.

I Papi che si sono succeduti a Giovanni XXIII e i Padri conciliari si aspettavano una nuova unità cattolica e si è invece andati incontro a un dissenso che — per usare lc parole di Paolo VI (altro teorico del “recupero” anche se in termini diversi) — è sembrato passare dall’autocritica all’autodistruzione. “Ci si aspettava un nuovo entusiasmo e si è invece finiti troppo spesso nella noia e nello scoraggiamento. Ci si aspettava un balzo in avanti e ci si è invece trovati di fronte a un processo progressivo di decadenza che si è venuto sviluppando in larga misura sotto il segno di un richiamo a un presunto “spirito del Concilio” e in tal modo lo ha screditato”. (10)

A quali ideologie pensa egli più precisamente? Ne designa espressamente due, quella  “liberal-radicale” e quella  “marxista” collegando l’una e l’altra, in modo un poco confuso, alla stagione del ’68. Il ’68 è infatti per l’allora Cardinale Joseph Ratzinger una “rivoluzione culturale” (11) , una svolta che ha certamente esercitato un influsso decisivo sulla decadenza postconciliare e in particolare sull’attecchimento della “Teologia della Liberazione”. Essa è caratterizzata, da “un’atmosfera generale di ottimismo, di fiducia nel progresso” (12) . Più precisamente la “rivoluzione culturale” cui sono dovuti i guasti del postconcilio sarebbe “1’affermazione in occidente del ceto medio, della nuova ‘borghesia del terziario’ con la sua ideologia liberal-radicale di stampo individualistico, razionalistico, edonistico” (13) . D’altro lato, quando esamina la genesi della “teologia della liberazione”, egli cita tra i principali fattori “il nuovo clima filosofico degli anni Sessanta. L’analisi marxista della storia e della società fu considerata come l’unica a carattere “scientifico”.

Ciò significa che il mondo venne interpretato “alla luce dello schema della lotta di classe e che l’unica scelta possibile è quella tra capitalismo e marxismo” (p. 191 op. cit.)? Naturalmente si è un poco sorpresi di vedere caratterizzare la “rivoluzione culturale” del ’68 con due orientamenti ideologici così diversi anzi antagonisti: specialmente se si ha ragione di pensare che il ’68 sia stato segnato precisamente dalla contestazione della cultura liberale.

Si tratta però di una “confusione” assai significativa. Essa mostra che Ratzinger, osservando il ’68 dall’esterno, cioè dal punto di vista della Chiesa, vede in esso essenzialmente una tappa del processo di secolarizzazione della cultura. E quindi, da questo punto di vista, è più sensibile alla convergenza tra liberalismo e marxismo, in quanto ideologie “secolari”, e come tali anticristiane, che non al loro antagonismo politico-culturale. Una stessa posizione di osservatore esterno ed ecclesiastico lo indurrà, a percepire nella “Teologia della Liberazione” come un caso particolare di teologia secolarizzata, di derivazione europea e con “sviluppi” condizionati dalle condizioni di estrema povertà di molte aree del Terzo Mondo di allora.

Ed è appunto il fascino esercitato da queste ideologie sui cristiani, che le trasforma, a suo giudizio, in cause “interne” del decadimento: in quanto esse vengono accolte senza sufficiente discernimento in nome di un dialogo mal inteso, troppo preoccupato di aprire il cristianesimo alle esigenze del mondo moderno. “La decadenza è quindi provocata, spiega Ratzinger, dallo scatenarsi, all’interno della Chiesa di forze latenti aggressive, centrifughe, magari irresponsabili, oppure semplicemente ingenue, di facile ottimismo, di un’enfasi sulla modernità che ha scambiato il progresso tecnico degli anni del boom economico e di quelli immediatamente successivi con un progresso autentico, integrale” (14). Queste forze operano in nome di uno “spirito del Concilio” che in realtà ne è un vero “antispirito” (15) . Secondo questo pernicioso “antispirito” appunto, tutto ciò che è nuovo sarebbe sempre e comunque migliore di ciò che c’è stato o c’è. E’ l’antispirito secondo il quale la storia della Chiesa sarebbe da far cominciare dal Vaticano II, visto come una specie di punto zero” ( ibidem , p. 33).

Ma il culto della novità per la novità finisce, secondo Ratzinger, col ritorcersi contro lo stesso Concilio: i progressisti infatti non tarderanno a voler superare i documenti conciliari, decretando che essi non potevano più essere considerati il punto di riferimento della teologia perché eccessivamente ecclesiastici, clericali (16). Invece che con i testi del Vaticano II, si ritiene ormai di doversi confrontare con un “immaginario Vaticano III” (ibidem ,p. 159). Ed è precisamente su questo punto che avviene, lo dice lo stesso Ratzinger, la sua dissociazione della Rivista Concilium (ibidem ,p. 154)

Alla base dell’ottimismo e conformismo nei riguardi del mondo si trova, secondo il Cardinale, un’ antropologia mutilata che consiste nell’assumere acriticamente la visione ottimistica della natura umana, proposta da Rousseau, secondo cui l’uomo, naturalmente buono, sarebbe corrotto solo dall’educazione e dalle strutture sociali. Ratzinger ritiene che questo “dogma” sia alla base della cultura moderna, capitalista o marxista che sia” (17). In forza di tale presupposto, una certa teologia espunge il concetto stesso di peccato originale, anzi di peccato senz’altro, sostituendolo, per esempio, con quello di alienazione economica e sociale; perde cosi la sua ragion d’essere il concetto di “redenzione”, che viene sostituito da quello di “liberazione” (ibidem , pp. 79-82).  E ancora…“L’incapacita di capire e presentare il peccato originale è davvero uno dei problemi più gravi della teologia e della pastorale attuali” (ibidem , p. 79).

L’alternativa di antropocentrismo e teocentrismo viene precisata anzitutto sul piano del metodo. Qui si tratta in definitiva di optare tra una fiducia nel1’uomo, nelle sue conoscenze, nei suoi valori, e la fiducia in Dio, nella sua parola, nella sua chiesa. La fiducia nell’uomo si traduce in un’apertura euforica alla modernità: ai suoi strumenti di conoscenza e di critica, come ai suoi valori.

E anzitutto sul modo di pensare la fede, e quindi di fare teologia, che Ratzinger rileva i guasti prodotti dal1’antropocentrismo moderno, infiltrato nella Chiesa. Si interpreta la fede, si legge la Bibbia, con criteri puramente umani, razionalistici, privilegiando letture  “scientifiche” storico-critiche, indipendenti dal magistero della Chiesa (18), arrivando ad esperimenti assurdi, come  “l’interpretazione materialistica” della Bibbia (ibidem , p. 75). Messori, riportando questo pensiero “funereo” di Ratzinger non si accorge di fare un servizio solo a metà rispetto alle intenzioni dell’alto prelato, poi diventato Benedetto XVI. La critica ad una visione più “scientifica” del testo biblico, ad una sua contestualizzazione meno miracolistica e misteriosa, si rivela alla lunga perdente. Dal “sacro” rovo di Mosè, alle dieci piaghe d’Egitto, fino alla divisione delle acque del Mar Rosso, tutte – ma proprio tutte – hanno trovato spiegazioni plausibili e perfettamente razionali, ormai accettate dagli stessi organismi ecclesiastici. Già conosciute e  “verificate” – nella sostanza – dai livelli superiori del Sant’Uffizio, fin dagli anni Sessanta dello scorso secolo. Mai  “promossi” dalla Chiesa in quanto “autorità”, al massimo subiti e/o tollerati. Il timore era , d’altra parte, dietro l’angolo.

Affrontato con questo criterio, l’oggetto della fede viene ridotto alla misura dell’uomo, del tutto  privato della sua dimensione di trascendenza e di mistero; per cui la teologia si riduce a cristologia, e questa ad antropologia (con un lento slittamento verso la parità fra diritti di uomo e donna, fino al più smaccato “femminismo”) .

Una “età di dialogo” lentamente sbiadita

Recentemente Raniero La Valle ha associato in modo corretto l’idea forte della costruzione degli anni difficili ed intensi dell’ “età del dialogo”, di cui Girardi “fu un pioniere, ne pose le basi filosofiche, teologiche e spirituali (19)”. Si tratta sostanzialmente di un percorso di “decostruzione critica” che Giulio Girardi fa senza sconti e che lo porta, però, non allo scontro, non alla “condanna” – come sarebbe facile fare ad una lettura superficiale dei testi di Ratzinger e Woytila (20), ma piuttosto al “dialogo”.

Tutto questo, se per un certo verso rimanda ad altri elementi per Girardi inviolabili – come per esempio gli ecosistemi e in generale la biosfera, l’accesso di tutti ai beni della Terra e quindi la cifra democratica di una gestione consapevole e responsabile delle risorse -, per un altro verso non fa che offrirci una conferma fondamentale: che possiamo chiamare questo tipo di ricerca culturale, “cultura della liberazione”. Un’indagine continua in cerca della verità dei fatti, delle cose nella loro concretezza, al di là di tutti gli inganni e infingimenti. Non a caso la Teologia della Liberazione è stata in quel periodo storico, una frontiera di impegno tangibile per una testimonianza di autentica laicità. Su questo ebbe a scrivere Giovanni Franzoni in modo molto netto: “E’ proprio Giulio Girardi che ci ha aiutato a capire che il nemico è anche dentro di noi, che allo sfruttamento alimentato dall’esterno ci sono processi di reazione vitali. Quelli autogestiti dalla base e dal mondo degli oppressi”. (21)

In sostanza ci ha aiutato a capire che è stata operata con astuzia e impegno , degno del miglior Impero Bizantino , una fine opera di sradicamento di idee pericolose, al limite del sovversivismo. L’applicazione della parola del Vangelo, la scelta della povertà, lo stare dalla parte degli oppressi e di coloro che hanno meno…era di per se’ pericolosa. E fu staccata via, così come si fa con le zecche. E a questo diedero un buon aiuto, in questa opera di “recupero” e “restaurazione”, tanto gli accorati discorsi, fatti soprattutto nelle visite polacche da Papa Woytila, tutti tesi ad accreditare come baluardo della repressione la Chiesa cattolica, quanto le sottili argomentazioni di Ratzinger, amplificate e ripetute da sapienti campagne mediatiche. Il risultato lo conosciamo… E’ davanti a noi. Lo svuotamento c’è stato e “il ritorno all’ovile caldo” pure.

………..

.1.Giulio Girardi non ci ha lasciato: è presente negli oppressi e nei diseredati, nelle speranze dei poveri di tutta la terra, nelle teologie liberatrici e in tanti compagni di viaggio che, per tutta la sua vita, lo hanno accompagnato.                Gianni Novelli (Cipax – Centro Interconfessionale per la Pace)

Nella notte di domenica 26 febbraio, Giulio Girardi ci ha lasciato fisicamente. Il suo corpo, martoriato da una lunga e spietata infermità, ha cessato di essere ostacolo al suo grande spirito, alla sua operosa ricerca di un Dio liberatore e di un’umanità liberata. Con lui avevamo da poco ricordato i suoi 86 anni. Su giornali e riviste laiche si è parlato molto di Girardi. Voglio qui raccogliere qualche ricordo personale perché in compagnia di Giulio ho percorso quasi mezzo secolo di vita. Tutto è cominciato con la lettura di un suo libro. L’ho qui ancora adesso sul mio tavolo: “Marxismo e cristianesimo”, con la presentazione del cardinal Franz Koenig, arcivescovo di Vienna. La mia copia è del 1969 e già c’è scritto “Quarta edizione aumentata – ventesimo migliaio”, nella collana “Sulle vie del Concilio” della Casa Editrice Cittadella, collana diretta da Vincenzo D’Agostino. Dalla prima edizione del 1965 quante decine di edizioni e quanti milioni di lettori “liberati”! Insieme a Giulio, riconosciuto come maestro da molti, abbiamo vissuto la nascita del movimento dei “Cristiani per il socialismo”. Sul numero 8 del settimanale “Com-Nuovi Tempi”, delle comunità di base, il 19 maggio 1972, Giulio Girardi scriveva una “nota politica” intitolata “Da Medellin a Santiago” confrontando i lavori della seconda conferenza episcopale latino-americana del 1968, con i lavori del primo congresso latino americano dei “Cristiani per il socialismo” al quale aveva partecipato, dal 23 al 30 aprile: “A Medellin si cantò spesso il ‘Veni Creator Spiritus’. A Santiago non lo si cantò. Ma a Santiago come a Medellin, lo Spirito Creatore, era presente”. A Bologna, il 23 settembre 1973, Giulio Girardi era maestro e profeta nella nascita del movimento dei “Cristiani per il socialismo” in Italia. Poi la tragedia del golpe fascista nel Cile di Allende fece alzare forte la protesta di Giulio Girardi in un articolo intitolato “Fascismo cileno e infallibilità pontificia”, che fu pubblicato in italiano solo dal settimanale “Com” il 21 ottobre 1973.
Giulio era stato nel frattempo allontanato da Roma, emarginato dalla sua congregazione salesiana prima a Parigi, poi in Belgio. Estromesso dagli ambiti accademici, Giulio centrava la sua riflessione sui movimenti di liberazione in America Latina. Si sono moltiplicate le sue lezioni e le sue ricerche sulla partecipazione dei cristiani alla costruzione di nuovi processi politici in Nicaragua e a Cuba, sulle vicende della teologia della liberazione, sull’emergere dei popoli indigeni. 
È stato membro delle diverse sessioni del Tribunale Russell sui diritti e l’autodeterminazione dei popoli. A Torino ha collaborato con i sindacati sui giovani e la coscienza di classe. Ha insegnato filosofia all’università di Sassari. I suoi articoli, conferenze e libri hanno riempito biblioteche e riviste italiane e straniere. In molti si propongono fin d’ora di raccogliere e ordinare tanta ricchezza intellettuale. Io voglio qui ricordare solo gli ultimi ambiti ai quali si era dedicato con passione e nei quali mi trovai al suo fianco: la nonviolenza, la pace, l’emergere dei popoli indigeni, il sogno dell’amicizia liberatrice del vescovo ecuadoregno Leonidas Proaño. 
Con il libretto di Giulio Girardi “Riscoprire Gandhi – La violenza è l’ultima parola della storia?” iniziò l’attività editoriale del Cipax, nel 2001. In quest’ora triste del suo addio mi piace riportare l’ultima pagina di un suo testamento: “Riconoscere l’attualità di Gandhi significa rilanciare la sfida al fatalismo, scommettere sulla possibilità e sull’urgenza di una vittoria della forza del diritto, della verità, dell’amore. Si tratta di una prospettiva puramente ideale? Sì e no. Sì, perché questo progetto non corrisponde a nessuna realtà esistente. No, perché esso, se adottato, influisce realmente sul presente come un’ipotesi storica feconda, che stimola la creatività intellettuale e l’audacia operativa a rompere le barriere del sistema di morte. Ecco perché la domanda sull’attualità di Gandhi è così impegnativa. Perché è inseparabile dalle scelte di fondo, etiche, politiche, economiche e religiose di ciascuno e di ciascuna. Il significato più profondo e più inquietante dell’incontro con Gandhi è proprio questo: ci obbliga a verificare le nostre scelte e a domandarci se esistano ancora per noi delle ragioni di vivere, di lottare e di sperare” (pag. 43-44). 
In un successivo libretto del Cipax, Giulio Girardi rilanciava l’attualità e la profezia del vescovo Leonidas Proaño (1910-1988), vescovo di Riobamba, in Ecuador, padre della Chiesa indigena latino americana. Si intitolava “Seminando amore come il mais – l’insorgere dei popoli indigeni e il sogno di Leonidas Proaño”(2001). Di fronte al protagonismo dei popoli indigeni dimostrato nelle celebrazioni dei “Cinquecento anni di resistenza”, Giulio rileva che “un impegno della Chiesa nella liberazione dei popoli indigeni annuncia ora la nascita di un nuovo modello di Chiesa, la Chiesa indigena, il cui tratto caratteristico è appunto l’opzione per gli indigeni come soggetti. Solo riscoprendo la scelta evangelica dei poveri e rompendo ogni alleanza con i poteri imperiali, la Chiesa annuncia, con l’insorgere dei popoli indigeni, la resurrezione di Gesù”. Giulio chiudeva questo libretto con una pagina che il 28 febbraio abbiamo riletto nella celebrazione del suo funerale nella comunità di san Paolo: “Ascoltiamo la chiamata di Dio a rivelare la notizia della sua amicizia e a impegnarci perché questa stessa notizia sia il detonatore di una trasformazione del mondo; il detonatore di una storia di amicizia della quale siano protagonisti tutti coloro che soffrono la solitudine dell’emarginazione, della povertà, dell’esclusione; della quale siano protagonisti, nel momento attuale, i popoli indigeni del Paese, del continente e del mondo. Rinnoviamo, in questo clima, il nostro incontro con la persona di Gesù, come rivelazione e segno dell’amicizia trinitaria e come vincolo amoroso tra la comunità divina e la comunità umana. Questa, però, … deve essere anche la riscoperta che… siamo chiamati a svolgere un ruolo da protagonisti, vivendo personalmente e soprattutto comunitariamente un’amicizia liberatrice e contribuendo a trasformarla in un movimento universale. Il nostro ruolo da protagonisti nella Chiesa e nella storia, lo eserciteremo scommettendo sul protagonismo degli oppressi, particolarmente degli indigeni; vale a dire riconoscendo non solo i loro diritti calpestati ma anche la loro forza storica, morale, culturale religiosa e politica, contribuendo con la nostra azione a risvegliare la fiducia degli oppressi in se stessi, a liberare le energie nascoste nella loro anima e nella loro storia”.
La sera del 26 marzo 2006, quando eravamo insieme a Roma, nella sede del Cipax, Giulio Girardi esercitò per l’ultima volta il suo “magistero”. Infatti, nella nostra sede, in un confronto tra le teologie della liberazione latinoamericana, musulmana ed ebraica, in occasione delle celebrazioni romane di Oscar Romero, fu colpito da quel gravissimo malore cerebrale che, inarrestabilmente ha distrutto il suo corpo. Il suo insegnamento e la sua profezia hanno però continuato a far vivere molti. Ne ho avuto una prova commovente nel maggio scorso, a Kingston in Giamaica, alla Convocazione Ecumenica Internazionale sulla Pace Giusta promossa dal Consiglio Ecumenico delle Chiese, quando un folto gruppo di teologi e leaders religiosi soprattutto evangelici dell’intera America Latina mi chiesero di salutare fraternamente Giulio come “padre e maestro” della loro testimonianza di cristiani impegnati nel cambiamento sociale: venivano dal Nicaragua, da Cuba, dall’Ecuador, dalla Bolivia, dal Cile, dalla Colombia, dal Brasile, ecc.. 
Portai a Giulio il messaggio. Il male gli impedì di mostrare segni di comprensione e reazioni. 
Ora siamo certi che Giulio ha incontrato faccia a faccia quel Cristo Liberatore che tanto aveva testimoniato e, accanto a Lui, ha rivisto quei grandi compagni e compagne di strada con cui aveva sempre cercato la costruzione di un mondo più simile al sogno di Dio: Leonidas Proaño,Oscar Romero, Marianella Garcia, Che Guevara, Samuel Ruiz, Mendez Arceo… 
A Roma, il 28 febbraio, nella comunità di base di san Paolo, eravamo in tanti a dare l’estremo saluto al corpo di Giulio Girardi, ma ci sentivamo presenti, in tantissimi di più, nello spazio e nel tempo, compagni di cammino di Giulio, per “mettere a produzione” i semi che in tanti anni aveva seminato tra noi.

.2.http://host.uniroma3.it/docenti/girardi/scritti/Moscati_Maestri%20del%20nostro%20tempo%20Giulio%20Girardi%20una%20cultura%20della%20liberazionea.pdf  .

.3. https://www.ibs.it/marxismo-cristianesimo-libri-vintage-giulio-girardi/e/2560731046268  

.4. http://w2.vatican.va/content/john-xxiii/it/encyclicals/documents/hf_j-xxiii_enc_11041963_pacem.html 

.5. http://w2.vatican.va/content/paul-vi/it/encyclicals/documents/hf_pvi_enc_26031967_populorum.html

.6. Giulio Girardi  La tunica lacerata  Borla. 1987

.7. Vittorio Messori Rapporto sulla fede. A colloquio con Joseph Ratzinger  Milano  1985

.8. Vittorio Messori Rapporto cit. pp. 45-46

.9. Vittorio Messori Rapporto cit. p. 11

.10. Vittorio Messori Rapporto cit. pp. 27-28

.11. Vittorio Messori Rapporto cit. pp. 32-33

.12. Vittorio Messori Rapporto cit. p. 9

.13. Vittorio Messori Rapporto cit. pp. 28

.14. Vittorio Messori Rapporto cit. pp. 27

.15. Vittorio Messori Rapporto cit. p. 33

.16. Vittorio Messori Rapporto cit. p. 15

.17. Vittorio Messori Rapporto cit. p. 159

.18. Vittorio Messori Rapporto cit. pp. 76-77

.19. “Rocca” n 6.2012      

.20. Sulla funzione frenante dei movimenti (in Occidente) di Karol Woytila: https://www.wsws.org/it/2005/apr2005/papa-a16.shtml?fbclid=IwAR0Ywtm3bOo2jEeJVxf474uqJ-M7aUnzpxsYqUOnFiR4gUOuWaIZR8PJNFw

.21. Su Padre Franzoni: www.avvenire.it/agora/pagine/sessantotto-cattolico-chiesa-paolo-vi-don-milani

 

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