Anna Karina: icona passata, presente e futura della nouvelle vague e degli anni Sessanta

Non è riuscirà più a vedere e a farsi vedere, come si attendeva e ci si augurava, alla retrospettiva godardiana che la Cinémateque Française ha in programma dall’8 di questo mese al 1° marzo prossimo. Se n’è andata il 14 dicembre, dieci giorni dopo l’inaugurazione milanese dell’atelier (ben successivo alle loro comuni imprese in coppia) di Godard, “Le Studio d’Orphée” alla Fondazione Prada. Avevano appena fatto in tempo, gli amici del Bergamo Film Meeting, a volerla  come ospite d’onore e soggetto presente e parlante della propria retrospettiva nella scorsa edizione, come Cannes a dedicarle il manifesto e Bologna a… cineritrovarla l’anno precedente.

A oltre sessant’anni dalla sua esplosione, il plotone di quanti “fecero” materialmente   la nouvelle vague nel cinema francese si sta progressivamente quanto inesorabilmente congedando. Talora nella tragedia, come con l’incidente fatale a Françoise Dorléac (1967) o col suicidio di Jean Seberg (1979); spesso nel dramma, con le scomparse premature di Truffaut (ì84) e Demy (’90); più di frequente, ovviamente, per naturale uscita dalla vita, come nei casi di Chabrol e Rohmer (2010), Resnais (2014), più di recente Rivette (2016), Jeanne Moreau (2017) e Agnés Varda pochi mesi or sono.

Ma il congedarsi silenzioso di Anna Karina colpisce doppiamente, almeno quanti di noi si sono accostati in prima battuta al cinema proprio in quegli anni inventivi e roventi: più, se possibile, persino della stessa Moreau di Jules e Jim o de La sposa in nero, l’allora Madame Godard è stata il volto stesso, fresco quanto inatteso, sorridente quanto misterioso e irresistibile, di quell’ondata impetuosa, definitiva, incontenibile.

Personalmente, lo ammetto, rispetto all’infinita e presso che incontrollabile galassia godardiana successiva, la mia personale preferenza, forse nostalgica, continua a indirizzarsi alla … classicità postuma del decennio Sessanta, e in particolare alla sua prima metà (che non mi ascolti l’irraggiungibile Alberto Farassino, cui devo molto se non quasi tutto!). La Angela de La donna è donna e la Nanà di Questa è la mia vita potrebbero essere considerate, ancora più della stessa, pur totalmente indimenticabile e inaccantonabile Cathe di Truffaut, appunto, l’essenza visiva del movimento trasposta in personaggi. Una bellezza suprema, insieme esotica e semplice,

Poi la carriera successiva le avrebbe offerto, come a molte, occasioni splendide sulla carta e meno convincenti nei fatti conseguitine, o viceversa. Suzanne Simonin, la religeuse di Diderot portata sullo schermo da Jacques Rivette funzionò alla perfezione, ad esempio, pur affibbiandole un saio e un soggolo.  La Marie Cardona de Lo straniero di Visconti da Camus, sebbene potenziata dallo straordinario vestiario anni Trenta di Piero Tosi, fu invece coinvolta e travolta nel funzionare a scartamento ridotto del film, probabilmente l’unico scacco nella carriera del suo regista.

Dell’esperienze a sua volta registiche rimaste isolate e irripetute di Vivre ensemble e Victoria avrebbe anche potuto fare a meno, forse; i suoi quattro eterogenei libri, usciti tra l’83 e il 2010, che non risultano a tutt’oggi tradotti da noi, andrebbero ovviamente raggiunti per poterne dire.

Ma tutto questo è secondario. Il fatto centrale è che il cinema ha la possibilità non solo virtuale, di tempo in tempo, di fissare delle icone (non necessariamente e solo femminili) destinate a restare, prolungarsi, imporsi: magari a poco a poco e a posteriori, fino in fondo, nella memoria collettiva. La danese Hanne Karin Blarke Bayer, classe 1940, che Coco Chanel volle ribattezzare Anna Karina quando era una sconosciuta diciottenne (mentre Godard e Truffaut, ancora amici, collaboravano alla delizia di Une histoire d’eau) è molto probabile che finirà diventarla. Per quanti ebbero il privilegio di contemplarla in prima visione, via via, anche da Le petit soldat a Bande à part, da Alphaville a Pierrot le fou, e persino da Made in USA a, La chinoise, lo è in primissima battuta da quegli anni, e definitivamente. Le immagini convogliate nel ’96 da Armando Ceste per Anna Karina. Il volto della nouvelle vague possono per i più giovani o per quanti malauguratamente nutrissero in proposito qualche dubbio, confermarlo con perentorietà irrefutabile.

Un amico critico che conosco da quando era ragazzo, e col quale non spesso mi capita di trovarmi d’accordo, Giona A. Nazzaro, ne ha scritto, in uno degli ultimi numeri di «FilmTV», nell’inserto in morte dedicato appunto a Questa è la mia vita, in termini talmente belli e giusti che, invidiandolo, non posso che rubargli per concludere degnamente. Secondo lui, il primo piano del volto di Anna Karina/Nanà che piange vedendo silenziosamente vedendo la Giovanna d’Arco di Dreyer «è quello “più bello” dell’intera storia del cinema. Altri non ce ne sono. Una dichiarazione d’amore assoluta. Come se il cinema fosse stato inventato solo per permettere a Godard di filmare il volto di Anna Karina trasfigurato dalla commozione. […] Come non pensare al Ritratto ovale di Poe citato alla fine del film? “Era una giovinetta veramente d’una rara bellezza […]. E maledetta sia l’ora in cui essa vide il pittore! Si innamorò di lui e infine divenne sua sposa”. Il quadro -l’immagine- diventa la vita. E quando il pittore -il regista- riposa il suo sguardo sull’amata lei è già morta. Crudeltà suprema. Sette film e mezzo. Il cinema non è più stato lo stesso. Ancora una volta ci si chiede come sia il silenzio che ora abita le stanze della casa, a Rolle, di Hanna Karin Blarke Bayer. Tak for skønheden, Anna. Grazie per la bellezza». 

Nuccio Lodato

                                       (in diversa  forma in «Diari di Cineclub», 79,  gennaio 2020)                                                      

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