Contro i borghi?

Ci dice il Poeta che il giorno di San Martino “per le vie del borgo/ dal ribollir de i tini/ va l’aspro odor dei vini/ l’anime a rallegrar” e descrive in modo assai colorito (“gira su’ ceppi accesi/ lo spiedo scoppiettando”) l’animazione collettiva di un piccolo agglomerato in occasione della festività dell’11 novembre, secondo una tradizione popolare assai antica.

Da tempo, ormai, simili tradizioni si sono perse e i piccoli centri, i borghi periferici, agricoli e montani, i piccoli comuni si stanno spegnendo a causa del loro spopolamento. Molti di essi addirittura sono stati abbandonati del tutto. Per ragioni storiche legate alle dinamiche sociali, economiche e culturali della modernità le nuove generazioni (ma anche parte della vecchia) tendono infatti a scegliere la città, o il comune più vicino più grosso, o addirittura una sistemazione all’estero, e così il nostro Belpaese, particolarmente nel Sud, si sta impoverendo di energie fresche diventando sempre più un paese di vecchi.

L’allarme ormai è generale e a tutti i livelli si stanno mettendo in atto varie strategie di difesa. Scartata quella della “fusione”, dimostratasi una esperienza palesemente fallimentare, si sta tentando di rendere appetibile il trasferimento nel borgo letteralmente regalando abitazioni con la sola condizione di effettuarne un dignitoso recupero. Gli amministratori di un borgo salentino sono giunti a dichiararsi disponibili a offrire a chi vi si trasferisce addirittura trenta mila euro a fondo perduto. C’è poi chi i borghi li ha riempiti di B&B, chi ha puntato sull’ “albergo diffuso”, nella logica di offrire al “cittadino” stressato una parentesi di riposo e di relax. Tra i bandi del Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) c’è quello, “Attrattività dei borghi”, che destina 1020 (milleventi) milioni di euro al recupero e valorizzazione dei borghi storici (valorizzazione turistica, delle eccellenze artigianali e gastronomiche, recupero dei monumenti storici ecc.). Si aggiunga poi che questo rilancio dei borghi è sostenuto anche da una specie di battage pubblicitario per il tramite di alcuni programmi della Rai.

Però, di tutto questo il recente libro, curato da F. Barbera, D. Cersosimo e A. De Rossi, “Contro i borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi” (Donzelli editore, pagg. XVIII- 181), parla assai male. Vede nelle strategie pubbliche (e private) attivate per il recupero dei piccoli centri colpiti dallo spopolamento, delle aree interne montane e rurali, l’assenza di un’“anima”, dello “spirito dei luoghi”. Scritto a più mani, tutte queste mani ci vedono una operazione fredda, artificiale, una borgomania patinata: borghi “Billionaire” colpiti da una asettica gentrificazione simile, per fare un esempio, all’algida condizione di una “Milano 2”. Mancando, secondo gli autori, qualsiasi connessione tra presente e passato, il borgo diventa “un luogo senza contesto, senza abitanti, senza relazioni umane”, paesino della solitudine animato a tratti da una “turisticizzazione” superficiale, con musei senza visitatori, castelli senza castellani, chiese senza parrocchiani. Al più, sarebbero la “cartolina illustrata” dell’Italia, non l’Italia vera he è invece “un Paese fatto di paesi” e non di borghi patinati. Anzi: “l’Italia è un paese bellissimo fatto, per la maggior parte, di paesi brutti” ma “carichi di senso”, proprio grazie al quale vivi rimangono anche la nostalgia del luogo in chi va via, lo spirito di “rientranza” e di “restanza”. E’ il carico di storia che dà loro “senso”, mentre il borgo è luogo anonimo, privo del fluire della storia, semplice “entità iconografica e figurativa”.

A questo punto il libro non nasconde la gravità che attribuisce alla perdita dell’Italia rurale con l’industrializzazione, alla perdita di ciò che ritiene essere stato un patrimonio positivo di valori, solidarietà, tradizione e, perfino, dialetti. L’idea radicale di totale rinuncia ai borghi porta a una piena rivalutazione della civiltà contadina con tutte le sue arretratezze, superstizioni, povertà, miserie. In un mondo pieno di dinamismo, come l’attuale, dove ciò che di stabile hai è sempre più quello che ti porti nella testa, c’è il rimpianto del bel piccolo mondo antico quando “fondare una casa significa(va) fondare un’esistenza” e impegnare l’intera vita. C’è perfino la valorizzazione del mondo magico e leggendario che l’arretratezza e povertà contadina si portavano dietro, come, per esempio, l’appendere le corna di un toro allo stipite della porta per ricevere protezione contro gli “spiriti maligni” o poggiare, per la stessa ragione, una scopa di saggina sull’uscio. Una storia, dunque, di superstizione e di miseria che secondo gli autori costruiva comunque una comunità di senso.

Ma di quale senso? E’ qui che il libro si perde e non riesce a chiudere il cerchio. Davanti all’alternativa: o un borgo agghindato dalla vita senza storia o il vecchio luogo con una storia ma senza vita, opta decisamente per quest’ultimo. Con qualche apprezzabile eccezione, in verità, che tenta, come è giusto e necessario, di trovare una sintesi fra le due scelte. Solo due interventi (Clemente e Lanzani) presentano la necessità di recuperare entrambe le prospettive. Uno afferma chiaramente che, nonostante molti limiti, comunque “la rete dei borghi più belli ha rappresentato una fase di sviluppo della società civile locale, del porre il centro in periferia, del costruire buone pratiche, comunità dal basso”. L’altro ci dice più problematicamente che se il radicamento borghigiano non deve essere scartato è necessario però inserirlo “dentro visioni di futuro e forme d’azione parziali e differenziate”.

Superfluo è aggiungere che per la “salvezza” dei borghi proprio questa è la sfida da affrontare e che essa riguarda l’intera comunità nazionale.

Egidio ZACHEO

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