Breve storia delle Società Operaie

L’origine delle prime forme associative nelle quali si potrebbe ravvisare un modello storico di riferimento per le Società di Mutuo Soccorso, può essere ricondotta alle Eterìe greche e ai Collegia Opificum di epoca romana.

Nel mondo ellenico l’attività associativa fu notevole ed ebbe rapporto sia con la vita politica ed amministrativa che con quella religiosa e professionale. Le Eterìe avevano il carattere di associazioni private, ed avevano notevole influenza nel determinare decisioni giudiziarie, oltre che occuparsi di onoranze funerarie e manifestazioni di culto. Furono presenti prevalentemente ad Atene, anche se esistono testimonianze della loro esistenza nei centri ionici dell’Asia Minore, fin dal VII sec. a.C..

I Collegia Opificum (o Corpora), artigiani raggruppati in corporazioni di cui si ha notizia sicura già alla fine del IV secolo a.C., con lo scopo iniziale di celebrare il culto che riuniva i membri della corporazione. La tradizione fa addirittura risalire la loro fondazione all’epoca del re Numa come flautisti, orafi carpentieri, tintori, calzolai, vasai. I Collegia potevano prender forma di società di mutuo soccorso, per fronteggiare malattie, invalidità, guerre povertà, vecchiaia, e assicurare una sepoltura decente ai loro membri, costituendo una protezione per diverse categorie professionali.

E’ curioso annotare che Cesare, dopo la sua vittoria, abolì tutte le associazioni professionali sotto il pretesto che potevano servire da rifugio ai nemici dell’ordine stabilito. Ricompaiono in epoca imperiale come corporazioni di mestiere incaricate di regolare in modo rigido l’esercizio di questa o quella professione.

Ritroveremo con il fiorire dell’Età Comunale le Arti o Corporazioni create da artigiani e commercianti a difesa degli interessi delle loro categorie. Attraverso gli statuti si stabilivano delle regole per il commercio, per fissare i prezzi, il compenso salariale, l’orario di lavoro, la qualità del prodotto, la difesa dalla concorrenza.

Delle Arti facevano parte solo i datori di lavoro e gli eventuali collaboratori (soci) che avevano gli stessi diritti e doveri del proprietario. I Consoli, che erano a capo delle Arti, avevano il compito di far rispettare gli statuti della Corporazione a tutti gli associati.

Nel XVI sec. Si assiste alla diffusione di ospedali, ricoveri, ospizi per pellegrini, prevalentemente gestiti da religiosi : il soccorso agli altri era vissuto come parte della sfera morale di ciascuno, facendo dell’atto in sé il mezzo per conseguire l’espiazione dei peccati, indipendentemente da chi ne traeva beneficio.

Fu ad opera delle chiese riformate – e con la chiusura dei monasteri – che il soccorso iniziò a laicizzarsi. Per Martin Lutero, l’uomo esteriore deve adattarsi alla pratica del bene non per acquisire merito, ma per contribuire al perfezionamento della vita associata: il campo delle opere della fede è il mondo sociale, alla cui vita ognuno deve contribuire con tutte le sue possibilità. La vita sociale, e il compito che ognuno vi esercita dentro, è l’unico servizio divino, l’unica opera in cui il cristiano dà testimonianza delle sua fede interiore. Contemporaneamente le teorie del Giusnaturalismo, staccando il discorso assistenziale da ogni legame morale e religioso, affermavano il diritto naturale del povero ad essere mantenuto, seppure in termini minimi, dalla comunità. Si rafforzò la tendenza a svuotare l’assistenza delle sue motivazioni religiose, a favore di una laicizzazione dell’azione solidale.

Il Giusnaturalismo, che affonda le proprie radici nella filosofia di Aristotele e nella giurisprudenza del Diritto romano, s’impose in Europa particolarmente ad opera del giurista olandese Ugo Grozio (1583 – 1645), considerato il fondatore della moderna teoria del diritto naturale : la sua definizione di diritto naturale, come corpus di norme che è possibile scoprire valendosi della sola ragione, è tradizionale, ma l’ipotesi secondo cui la legge sarebbe valida anche se non esistesse alcun Dio o nel caso in cui Dio non interferisse nelle faccende umane, gli fa ripudiare il presupposto teologico e preparare il terreno alle teorie razionaliste dei secoli XVII e XVIII.

I primi segni storici di un’economia sociale nascono come iniziative di una certa borghesia illuminata verso la fine del 1700, dando luogo sporadicamente alla costituzione di casse alimentate dai contributi dei datori di lavoro o dei lavoratori stessi, anche se vi furono realtà antecedenti. Infatti la prima Società di Mutuo Soccorso della quale si hanno notizie sicure fu, forse, la “Società degli Orefici della città di Torino”, che già esisteva nel 1708; ad essa possiamo affiancare altre antiche associazioni torinesi, come l’ “Unione Pio Tipografica di Sant’Agostino” (si hanno notizie dal 1710), o il “Pio Istituto dei Cappellai” (1736).

A Torino (1778), fu significativo il Concorso indetto dall’Accademia delle Scienze sul modo di provvedere agli operai delle seterie quando si verificasse la penuria di materie prime, pervenendo alla scelta conclusiva di costituire una cassa per i lavoratori in caso di crisi.

Ed è in questo periodo che le Società di mutuo soccorso assumono finalità e contenuti che le caratterizzano in senso generale. Tali Società erano associazioni volontarie nate con lo scopo di migliorare le condizioni morali e materiali dei lavoratori. Si fondavano sulla mutualità, sulla solidarietà, attraverso l’unione delle forze per conseguire obiettivi di promozione economica e sociale; sulla responsabilità di gruppo nei confronti del comune destino di lavoro, ricevendo impulso dalla presa di coscienza di una condizione di sfruttamento, solitudine e precarietà, che si poteva in parte fronteggiare solo attraverso l’unione delle forze dei lavoratori stessi, prima che nelle istituzioni politiche.

La “Società Reciproca Assistenza fra i Cappellai” fondata nel 1826 ad Alessandria e la “Società Italiana degli Operai e Agricoltori” (1833) nel sobborgo di Cantalupo, risultano essere le più antiche in provincia, secondo il ponderoso studio sulle Società piemontesi “Cent’anni di solidarietà”- Censimento Storico regionale delle Società di Mutuo Soccorso.

Ma è verso la metà del 1800 che si assiste ad un proliferare delle Società di Mutuo Soccorso per iniziativa dei lavoratori urbani che si riuniscono nel ricordo passato delle corporazioni d’arte e di mestiere. Già nel 1844, accanto alla posizione dello stesso re Carlo Alberto che sosteneva la necessità di casse di beneficenza e carità fra gli operai (sostenute con i loro contributi), coesistevano atteggiamenti favorevoli ad un diretto intervento statuale sulle questioni sociali. Anche la borghesia vedeva nella mutualità e nel volontariato un modo per affrontare i problemi sociali del paese, e la promulgazione dello Statuto Albertino (4 marzo 1848), ove si affermava il diritto all’inviolabilità del domicilio, “il diritto ad adunarsi pacificamente e senz’armi”, nonché l’abrogazione degli articoli del Codice penale limitanti la libertà d’associazione, costituì un fattore incoraggiante al diffondersi dell’associazionismo.

Né dobbiamo dimenticare l’importanza che il Manifesto del Partito Comunista di Marx (1848) rivestì nel formare una coscienza dei diritti nei lavoratori, delle dure condizioni di lavoro che erano costretti a subire, e della necessità di unirsi nella lotta.

Le trasformazioni economiche ed il nuovo sviluppo industriale misero in crisi i lavori e i mestieri tradizionali, rendendo più evidente la carenza di una legislazione sociale.

In Piemonte, dove perduravano i privilegi del clero tra cui il controllo delle opere di beneficenza, furono le Leggi Siccardi del 1850 (ministero D’Azeglio) a ridimensionare il potere ecclesiastico, in un quadro più generale d’interventi amministrativi che dessero al paese una struttura più moderna. E’ di questo periodo la nascita della “Società Generale degli Operai di Torino” (la prima società generale fu costituita in Pinerolo nell’ottobre 1848), promossa da borghesi illuminati come Giovanni Botero, alla quale facevano riferimento le altre Società piemontesi. Ciò non comporterà, comunque, la fine delle società professionali, all’interno delle quali i lavoratori continueranno a spartire, in un contesto gestionale facilitato da un numero meno vasto di associati, problemi e necessità della loro categoria, consentendo talvolta l’ingresso a lavoratori di mestieri diversi.

Più generalmente, si assiste all’evolversi di un atteggiamento che determinò la scomparsa di alcuni tratti tipici della fase mutualistica corporativa, in cui erano presenti elementi caritativi, per avviarsi verso il superamento del particolarismo di mestiere e della figura del socio protettore: alla mutualità, alla solidarietà fra i lavoratori, all’autogestione dei fondi sociali e alle questioni di moralità (in molti statuti ritroviamo, ad esempio, il divieto di elargizione per i bevitori ed i giocatori), si affiancano l’istruzione e la previdenza. Così ecco crearsi gabinetti di lettura (Oneglia), scuole serali e domenicali (Sanremo e Asti), e sentire l’urgenza di rivolgere petizioni al Governo per estendere l’istruzione elementare, non disgiunte da incentivi per facilitare la frequenza dei figli dei soci.

Alcune Società disponevano di vere e proprie tabelle sulla frequenza delle malattie; la mutua si basava sul principio della comunione dei rischi possibili (malattia, invalidità, infortunio, disoccupazione), o futuri (vecchiaia o morte). Gli oneri inerenti gli eventuali bisogni dei singoli venivano ripartiti fra tutti gli associati, e il diritto alle prestazioni sorgeva quando ne ricorressero o se ne accertassero la condizioni.

Nelle Corporazioni, formalmente abolite nel Regno di Sardegna soltanto nel 1844, non c’era l’obbligo contributivo fisso in rapporto alle prestazioni obbligatorie, né un diritto autonomo al soccorso; le somme erano distribuite in relazione alla capacità del fondo e a valutazioni discrezionali e mancava una riserva finanziaria. Le somme raccolte annualmente venivano spese e distribuite ai soci.

Il modello mutualistico, invece, prevedeva l’obbligo di un contributo fisso, un fondo autonomo, ed aveva un suo schema: ripartizione per malattie, capitalizzazione per sussidi d’invalidità e vecchiaia. Nelle Società di mutuo soccorso della metà del 1800 si tendeva ad escludere la carità e, fin dove possibile, l’elargizione filantropica.

La Legge Statale del 30 sett.1859, sulla rendita vitalizia per la vecchiaia su base volontaria, e la Legge del 20 nov.1859 sugli istituti di beneficenza, restringevano le ipotesi d’intervento caritativo nelle Società di mutuo soccorso, favorendo da parte di queste il proporsi di altri scopi negli statuti: sostegno creditizio, fornitura di materie prime, vendita ai soci di prodotti di prima necessità a prezzo di costo, costituzione di magazzini sociali. Sempre a Torino, per iniziativa dell’ “Associazione Generale degli Operai”, si costituiva la prima cooperativa di consumo, sotto forma di un comitato di previdenza.

Due anni dopo, nel 1856, nasceva a Savona la prima cooperativa di produzione tra i lavoratori dell’arte vetraria, che dette vita ad una Società dei lavoratori vetrai.

Sul piano del credito, al Congresso delle Società di mutuo soccorso di Novi (1859), si discuteva della valutazione del lavoro come proprietà e sulla possibilità di costruire Casse di risparmio, per concedere denaro a basso costo e per costituire rendite per la vecchiaia.

E’ da ricordare, tra gli eventi di questo decennio, il primo congresso tenutosi ad Asti (1853), in cui le Società operaie piemontesi riuscirono a darsi un’organizzazione unitaria e, nei sette congressi che seguirono, si considerò il problema delle abitazioni, dell’istruzione elementare e professionale, oltre alla normativa del lavoro (orario, problemi del lavoro femminile e infantile,ecc.).

Pur con atteggiamento improntato ad un illuminato paternalismo con il quale si trattavano le questioni che più assillavano i lavoratori (è da considerare che fino all’Unità era la borghesia liberale che patrocinava, di fatto, il mutualismo), si sperimentò per la prima volta l’unità delle Società operaie e maturarono nuovi quadri dirigenti. Il Regolamento Generale che esse si diedero al Congresso di Genova (1855), fu una tappa importante perché coincise con il sopravvento di una direzione borghese progressista sulle correnti più retrive.

Dopo l’Unificazione (1860), le Società liguri e piemontesi vennero a contatto con le altre diffusesi, nel frattempo, nelle altre regioni d’Italia: Mazzini, che controllava una notevole rete di Società nel Genovesato, si adoperò per allargare la sua influenza sulle masse lavoratrici italiane, conseguendo il risultato qualificante di consolidare la coscienza associativa e di affrontare la questione sociale sulla base di un programma politico nazionale e repubblicano. In questo modo aprì la strada alla politicizzazione delle Società operaie, al di fuori degli schemi della lotta di classe.

A Milano si svolse l’VIII Congresso delle Società Operaie, il primo a carattere nazionale (1860), ove si fecero sentire gli effetti della propaganda democratica nell’approvare l’allargamento del diritto elettorale, su cui furono messi in minoranza i moderatissimi delegati piemontesi, i quali tuttavia furono abbastanza forti da imporre il loro punto di vista sull’immoralità e sulla condanna degli scioperi.

La scissione tra la componente moderata e i democratici mazziniani avvenne l’anno seguente a Firenze, a proposito della lotta per il suffragio universale e dell’affermazione riguardante la non estraneità della politica, rispetto alle competenze del movimento organizzato. Le Società di Mutuo Soccorso che si rifacevano al movimento mazziniano, assunsero più nettamente un atteggiamento fuori da ogni compromesso nei confronti dei gravi problemi sociali e politici dell’epoca, ravvisando nell’unità e nell’indipendenza le premesse necessarie risolvere efficacemente il futuro assetto sociale.

Se nel Piemonte moderato e sabaudo erano nella quasi totalità emanazioni paternalistiche, sorte con l’appoggio delle autorità o di esponenti borghesi estranei al mondo del lavoro e ad ogni rivendicazione politica, quelle liguri manifestarono subito un chiaro interesse per la politica del governo, e rappresentarono una forza per l’organizzazione democratica e per tutti coloro che vedevano la soluzione del problema nazionale nell’iniziativa popolare.

Nel 1864 al Congresso delle Società Operaie riunito a Napoli si approvò un documento programmatico di Mazzini, noto con il titolo di Atto di fratellanza, sul quale egli aveva pensato di fondare gli statuti delle nuove Associazioni Internazionali dei lavoratori, in occasione del congresso costituente che si tenne a Londra nel 1864. Ma il testo, in seguito all’intervento di Karl Marx, risultò infine assai diverso da quello mazziniano.

In Italia Michail Bakunin, che avrebbe dovuto guadagnare le Società italiane al socialismo internazionalista secondo le intenzioni di Marx, finì per agire autonomamente con lo scopo di affermare il suo socialismo libertario, riuscendo ad affiliare molti proseliti all’anarchismo internazionale.

Il movimento operaio italiano si trovò, in pochi mesi, coinvolto nella lotta ideologica tra Mazzini, Marx e Bakunin, come dire tra democratismo, socialismo e anarchismo. Questa situazione ebbe il merito di fornire elementi di dibattito e di crescita culturale attraverso la circolazione di idee politiche e sociali di respiro europeo, ma originò una proliferazione di gruppi e correnti assai difficilmente recuperabili in una organizzazione unitaria. La crisi politica ed economica che colpì il paese dopo la guerra del 1866 e le tensioni sociali che ne seguirono, iniziarono a decretare il declino del programma d’azione del mazzinianesimo, di cui si avvertivano i limiti. La definitiva legittimazione dello Stato monarchico, con la conquista di Roma capitale, resero superato il contenuto più suggestivo del pensiero mazziniano, il suo ideale repubblicano, carico di una valenza istituzionale e sociale. Con la defezione di molti dei democratici verso l’Internazionale e con la morte di Mazzini (1872), le Società affratellate di sua ispirazione, pur numerose, si avviavano ad una progressiva sterilità sia politica che sindacale.

Entrando negli anni ottanta, con l’inizio della seconda rivoluzione industriale, si crearono anche in Italia le condizioni propizie allo sviluppo dell’industria e del proletariato moderno. Se da un lato l’industrializzazione continuò ad avanzare con il sacrificio dell’economia agraria (specie meridionale), che spinse all’emigrazione in altri paesi le masse contadine, per la classe operaia si aprì l’opportunità di realizzare alcune fondamentali conquiste nel campo dei diritti civili e politici, utilizzando gli stessi strumenti legali offerti dal sistema borghese (elezioni, parlamento, amministrazioni comunali). Il movimento mutualistico ebbe una vigorosa ripresa contemporaneamente al peso che il proletariato di fabbrica andava via via assumendo, diventando una forza capace di sollecitare lo Stato e gli ambienti economici più evoluti ad avanzare concreti programmi di riforme sociali.

Tra le riforme nelle quali possiamo ravvisare l’azione di stimolo delle Società di Mutuo Soccorso ricordiamo l’istituzione dell’istruzione obbligatoria (1877); la Cassa Nazionale di Assicurazione contro gli infortuni (1883); l’assicurazione obbligatoria per gli operai (1898), che segnò il passaggio dello Stato sociale ad una fase più matura, poiché si riconosceva implicitamente che la salute del lavoratore era un patrimonio per la collettività, ed andava perciò tutelato. Garantendo prestazioni standardizzate fondate sui diritti individuali, tali norme rivoluzionarono i criteri dell’assistenza e della beneficenza tradizionali, facendo sì che i compiti propri delle Società di Mutuo Soccorso fossero a poco a poco recepiti dalla legislazione come elementi caratterizzanti dell’attenzione ai problemi sociali.

Nel 1899 nasceva la Cassa Nazionale di Previdenza per l’invalidità e la vecchiaia, a cui le Società di Mutuo Soccorso poterono attingere per un’integrazione ai sussidi che riconoscevano ai soci, assicurazione che divenne obbligatoria nel 1914.

L’intervento dello Stato, pur incidendo in contenuti e finalità programmatiche dell’associazionismo mutualistico, contribuì alla sua evoluzione in una realtà nella quale maturò una forte spinta aggregativa tra le varie correnti e organizzazioni. Nasce a Milano il Partito Operaio Italiano (1882), che raccolse tutto il patrimonio di lotta delle Società di mutuo soccorso, impegnandosi a trasformarle in Leghe di resistenza. Le Società rimaste fedeli alla norma dell’astensionismo politico e ai vecchi programmi mutualistici e cooperativi continuarono ad avere un loro spazio. Con l’avvicinarsi del nuovo secolo, il ruolo di ponte che le Società svolsero fra beneficenza, mutualismo volontario e Stato sociale, andò sempre più accorciandosi: esse lasciarono ai Sindacati, alle Camere del Lavoro e ai partiti politici, di cui erano state le matrici, la continuazione della loro opera di promozione, ma mantennero un ruolo importante che si estendeva dalle associazioni volontarie, alle funzioni amicali, al potenziamento delle iniziative di cooperazione, da cui ebbero origine realtà autonome estremamente rilevanti per l’economia e la società italiana.

Nel 1900 le Società di mutuo soccorso erano oltre 8000, con più di un milione di soci e un patrimonio di cento milioni di lire; nel 1901 si riunirono in Federazione e il Congresso ne indicò le linee principali.

Negli anni successivi assistiamo ad uno sviluppo e ad una diversificazione del movimento associativo con la costituzione di circoli ricreativi, culturali, e sportivi. Nascono in questo periodo le Case del Popolo, con particolare diffusione in Toscana, destinate non solo all’organizzazione politica ma anche a luogo di ricreazione e cultura, dove i lavoratori potevano trascorrere il tempo libero.

Nel periodo della Grande Guerra si verificò un inevitabile rallentamento di questo sviluppo, ma la funzione rimase importantissima: in sinergia con le Case del Popolo e i circoli culturali, sono impegnate in una campagna contro la guerra e nel promuovere aiuti e assistenza alla popolazione, ai soldati e alle loro famiglie.

Gli anni del Fascismo

L’azione generalizzata, che ebbe come scopo la distruzione di tutti i movimenti di libero associazionismo, comportò la perdita delle sedi politiche e sindacali e delle organizzazioni dei lavoratori, e la chiusura o la trasformazione in Case del Fascio di quasi tutte le Società di Mutuo Soccorso, fino a giungere ad un decreto di scioglimento delle medesime (1924). Il colpo decisivo venne inferto nel 1926 con le Leggi Speciali e la costituzione dell’ Opera Nazionale Dopolavoro, organo che assorbiva tutte le forme di associazionismo della struttura fascista.

Il dopoguerra

A partire dagli anni 1950-60 in poi, si assiste nuovamente a questa forma di espansione dell’associazionismo: alcune sedi non furono più riaperte, molte hanno ripreso la loro attività ed altre sono sorte ex novo.

Nel corso del tempo si sono rese necessarie modifiche sul piano legislativo per seguire l’evoluzione della funzione delle Società di Mutuo Soccorso, così legate al contesto sociale ed economico nel quale operano.

Se confrontiamo la Legge n. 3818 del 1886, che definiva i principi guida ai quali dovevano ispirarsi le Società di Mutuo Soccorso (e dove si assicura ai soci un sussidio in caso di malattia, di impotenza al lavoro,di vecchiaia; aiuto alle famiglie dei soci defunti; cooperazione all’educazione dei soci e delle loro famiglie; aiuto per acquisire gli attrezzi necessari al loro mestiere; vantaggi fiscali alle SOMS registrate, tra cui l’esenzione di sequestro e pignoramento dei sussidi dovuti dalle Società ai Soci), con le leggi proposte a partire dalla n. 2924 del 1961, ci accorgiamo ad esempio che l’attenzione va sempre più spostandosi verso spazi d’intervento rivolti all’assistenza integrativa, pur mantenendo la attività tradizionali di tipo culturale e ricreativo, che trovano riscontro nella prima legge.

Le proposte contengono un allargamento dei settori di attività e nuove figure professionali, col preciso obbligo di ispirarsi ai principi di solidarietà sociale espressi dalla Costituzione italiana. Cambia il Ministero di riferimento, non più dell’Agricoltura Industria e Commercio, ma del Lavoro, presso cui dovrebbe essere istituita una Commissione di Vigilanza per la mutualità volontaria. La Regione Piemonte, con la Legge n. 24 del 9.4.1990. e con la seguente L.R. n. 82 del 15.11.1996, “Tutela e promozione del patrimonio e dei valori storici, sociali e culturali delle Società di Mutuo Soccorso”, dà effettiva dimostrazione di come le Società di Mutuo Soccorso siano vitali e all’attenzione delle Istituzioni.

Le Società Operaie cattoliche

Nel luglio 1854 nasce a Genova la prima società operaia cattolica italiana, la “Compagnia di San Giovanni Battista”. Alcuni esponenti del mondo clericale più illuminato, si erano resi conto della necessità di riunire i lavoratori cattolici in proprie Società di Mutuo Soccorso per colmare un vuoto che rischiava di essere assorbito dalle associazioni laiche, e per rispondere in modo più adeguato alle trasformazioni sociali che si ravvisavano in quegli anni. Lo statuto, di 48 articoli, ad opera dei sacerdoti Luigi Radiff e Luigi Sturla (con l’approvazione dell’Arcivescovo), costituirà il testo base per le successive associazioni operaie cattoliche: “Fine della Compagnia è di soccorrere le famiglie della classe operaia, non solamente per sollevare le infermità corporali, ma per rendere anche morigerati i membri, solleciti nell’adempimento dei loro doveri verso Dio e verso il prossimo”, in cui si ravvisava il ruolo preminente dell’educazione religiosa e lo stretto collegamento con l’autorità ecclesiastica.

In Piemonte, l’estendersi delle Società operaie laiche convinse i vescovi, riunitisi in un incontro svoltosi a Torino nel maggio 1872, che convenisse adoperarsi per favorire istituzioni di Società operaie cattoliche, per far rivivere nelle Confraternite esistenti lo spirito per cui furono istituite, introducendo nei loro regolamenti la beneficenza e il reciproco soccorso.

Particolarmente attivo fu Leonardo Murialdo, sacerdote e collaboratore di Don Bosco, che già in anni precedenti aveva lanciato l’idea di un’ unione degli operai cattolici, convinto della necessità di costituire un vero e proprio movimento operaio cristiano di dimensione nazionale: il 1° luglio 1871 vede la luce l’ “Unione di Operai Cattolici in Torino”. Nel proprio regolamento (15.10.1871), l’Unione professava “un’incrollabile attaccamento al Capo della Chiesa, il Romano Pontefice, ed il più grande rispetto alle legittime Autorità ecclesiastiche, civili e politiche”.

Suo scopo era “di dare appoggio ai cattolici operai, industriali, artisti e negozianti, mantenendo vivo in ciascuno il sentimento religioso e promovendo quelle opere che meglio concorrono all’uopo, e specialmente al mutuo soccorso”. Importante fu una delle prime iniziative dell’Unione: il sostegno che espresse a favore del riposo domenicale, a cui si attribuiva un significato religioso, oltre che sociale ed economico.

Questo avvio fu visto con sospetto non solo dalle Istituzioni e dalla stampa laica, che ravvisavano in esso “lo strumento del clericalismo più intransigente con finalità antinazionali” se non addirittura “associazioni ostili allo Stato (Prefetto di Torino), o “cellule papiste e clericali” (“La Gazzetta del Popolo”, sostenitrice delle Società laiche, in particolare dell’importante Società Generale degli Operai di Torino (1850), a cui facevano riferimento le altre). Anche gli ambienti ecclesiastici conservatori e quella parte dell’aristocrazia e della borghesia più sensibili alle prospettive del potere temporale che alle prospettive del cattolicesimo sociale, dimostravano poca comprensione fino ad aperta diffidenza. Un avvio non facile, probabilmente da ravvisarsi nell’incapacità di compiere un’analisi realistica della questione operaia, identificando la miseria dei lavoratori con la povertà tradizionale e secolare, senza comprendere l’aspetto di novità legato ala rivoluzione industriale.

L’opera di Padre Leonardo Murialdo fu instancabile: nel lavoro che, assieme a Don Bosco, aveva svolto con gli adolescenti e i giovani operai delle periferie, aveva intuito l’urgenza e la necessità di associazioni specifiche per i giovani operai e per i lavoratori adulti che si proponessero di risolvere il problema della loro formazione cristiana e della loro perseveranza nelle istituzioni cattoliche.

L’anno trascorso a Parigi e i contatti successivi con le organizzazioni sociali francesi, all’avanguardia in Europa, nonché i suoi viaggi in Svizzera, Germania, Belgio, Inghilterra, gli fornirono una conoscenza approfondita delle istituzioni per la gioventù operaia e per la classe lavoratrice , nonché della formazione del clero e dei laici militanti per l’apostolato delle masse, da cui trasse ispirazione per organizzare un movimento operaio cristiano nazionale.

Torino appare come il centro d’irradiazione del movimento associativo operaio cattolico dal compimento dell’unità d’Italia, alla promulgazione della Rerum Novarum di Papa Leone XIII (1891).

Questo fu il primo documento ufficiale nel quale la Chiesa si esprimeva sulla questione sociale: dopo aver analizzato la soluzione socialista ed averla confutata ribadendo la condanna della lotta di classe, esamina la soluzione cristiana in riferimento alle funzioni spettanti alla Chiesa, allo Stato e alle associazioni professionali; riconosce come legittime le rivendicazioni operaie, poiché la funzione sociale non involge soltanto i postulati di carità, ma anche quelli della giustizia; auspica la creazione di istituti di assistenza , di rappresentanza e di tutela degli interessi professionali; prevale l’ideale del corporativismo, anche se è esplicito in tutto il documento il riconoscimento del diritto per i lavoratori di associarsi a scopi previdenziali, assistenziali, ma anche sindacali; definisce il diritto di proprietà sacrosanto perché è di natura e, di conseguenza, auspica un salario che debba consentire una vita dignitosa per esercitare il diritto naturale alla proprietà; lascia autonomia agli interessati e rinuncia a stabilire norme e criteri, per non intralciare lo spontaneo sviluppo dell’associazionismo professionale con azioni coercitive; ammonisce lo Stato a non intervenire nell’organizzazione e nella disciplina delle associazioni; afferma “naturale” l’esistenza di sperequazione tra ricchi e poveri, pur legittimando la ricerca di un tollerabile minimo di vita: la soluzione è che si stipuli un contratto equo tra lavoratore e padrone attraverso le associazioni. Papa Leone XIII colmava in questo modo l’assenza della Chiesa nel campo delle lotte sindacali.

La Rerum Novarum divenne un punto di riferimento per i cristiani desiderosi di d’impegnarsi nel mondo del lavoro e nella società, favorendo la costituzione di sindacati di tendenza cattolica non solo in Italia, ma anche nel resto d’Europa. E’ significativo che proprio nello stesso anno avesse origine a Milano la prima Camera del Lavoro, sotto la spinta del movimento socialista che si proponeva di emancipare i lavoratori attraverso il miglioramento delle loro condizioni di vita e di lavoro, e la socializzazione di mezzi di produzione e di distribuzione. Con la funzione primaria di intermediazione tra l’offerta e la domanda di lavoro, si affermava il proprio carattere apolitico: “Non si può tenere nella Camera del Lavoro alcuna riunione di carattere politico o religioso” (dichiarazione presente in molti statuti per ovviare al rischio di fornire pretesti al governo e alle autorità locali, troppo inclini a sciogliere le organizzazioni operaie).

Allo stesso modo, per fornire risposte adeguate a bisogni analoghi degli operai cattolici, viene fondato, sempre a Torino, un Segretariato del Popolo con annessa cassa per la pigione degli operai, nel quale veniva fornita tutela giuridica in merito ad arbitrati, istanze, interessi legali, corrispondenze, ed anche un’importante attività di collocamento dei disoccupati. Dal Segretariato del Popolo avrà origine, nel 1900, la “Lega Cattolica del Lavoro”, centro di organizzazione del movimento sindacale cristiano in Torino.

Società operaie laiche e Società operaie cattoliche

In senso assai generico, nelle Società operaie laiche l’autonomia morale, il far da sé, il lavoro, vengono contrapposti al fatalismo e alla rassegnazione inculcati dalla religione tradizionale ma, pur nelle differenze di natura politica e culturale, non bisogna dimenticare che molti iscritti alle Società laiche si sentivano cattolici e lo volevano essere, e che il rapporto con le Società cattoliche si diversificava in relazione alle situazioni particolari e agli orientamenti delle Società che, come abbiamo visto, non erano omogenei.

Le une e le altre erano impegnate sul terreno morale, ma le società cattoliche , pur rientrando all’interno di un’ideologia corporativa, dovevano anch’esse dare risposte alle esigenze degli operai, intervenendo sul terreno economico se volevano essere concorrenziali. All’obiezione da molte parti sollevata all’interno degli ambienti cattolici dell’epoca, che la missione della Chiesa e del sacerdote era soprattutto spirituale, Murialdo rispondeva che non bisognava essere più mistici di nostro Signore che moltiplicava i pesci, guariva gli ammalati, e si occupava delle necessità materiali del prossimo che ogni giorno ci fa domandare il pane nel Pater Noster.

“Con le opere sociali, che la giustizia e la carità cristiana ispirano e fecondano, noi contribuiremo al bene della società, all’armonia tra le classi, e porteremo più facilmente le anime a Dio”: quindi una chiara consapevolezza del ruolo economico e sociale delle Società cattoliche, anche se ciò non significa che non ci fossero difficoltà e ritardi. Esse dovevano dare risposte ai bisogni materiali e mantenere in questo modo gli operai in contatto con la Chiesa ; attraverso queste risposte dovevano anche realizzare la soluzione cristiana della questione operaia, in opposizione alle spinte socialiste.

Ne “La voce dell’operaio”, il socialismo “è un tradimento ed un tranello per gli operai perché poggiandosi sull’ateismo e sul materialismo, strappa al povero lavoratore il prezioso tesoro della fede e della speranza…” (1.8.1896). Facendosi interprete delle istanze più urgenti, lo stesso giornale (20.6.1897) informava che era stata approvata la proposta di vietare il lavoro notturno ai ragazzi fino ai quindici anni di età, e alle donne fino ai ventuno. Questo fu il primo successo rivendicativo dell’Unione Torinese a conclusione di una battaglia combattuta indipendentemente, ma condivisa dal sindacalismo socialista e dal pre-sindacalismo cattolico, come avvio ad un processo lungo che vedrà elementi di condivisione , pur da basi ideologiche diverse.

La presenza femminile nelle Società di Mutuo Soccorso

Nonostante si fosse registrata una progressiva richiesta di manodopera femminile (e minorile), che segnava un elevato margine di risparmio per i datori di lavoro e una maggiore facilità di imporre la disciplina di fabbrica, la presenza femminile nelle Società di Mutuo Soccorso risultava, fin dall’inizio, problematica, sia per la difficoltà di sostenere con un salario più basso la quota mensile, sia perché assai faticosa si presentava la via dell’emancipazione. Inoltre le donne erano maggiormente soggette alle malattie che derivavano da debilitazione e logoramento: ambienti malsani dovuti alla tipologia di lavoro nel quale erano impiegate più frequentemente, insieme alle bambine, come la filatura della lana, della seta, del cotone, in stanzoni bassi, umidi, maleodoranti, caldissimi d’estate e saturi di pulviscolo, o assiepate con turni massacranti nei laboratori di sartoria. La tisi o altre affezioni polmonari, deviazioni della colonna vertebrale, anemia, malattie della pelle e degli occhi erano le più comunemente diffuse tra le operaie del settore tessile. In più, il carico delle attività domestiche e delle maternità, e il pesantissimo orario di lavoro, contribuivano a predisporre alle malattie organismi resi fragili al punto che le mutue avevano difficoltà a stabilire quando un’iscritta fosse da considerarsi ammalata, e l’ammissione alle Società era condizionata da un certificato che attestasse una costituzione sana. La situazione non doveva essere di molto migliorata se nel 1906 il Ministro del Tesoro Luigi Luzzatti invitava il neo costituito Ispettorato del Lavoro torinese ad affrontare con urgenza la questione del lavoro femminile nei laboratori di sartoria, e a prendere provvedimenti per far cessare la violazione della legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli.

Per questi motivi molte Società maschili preferirono, inizialmente, promuovere una mutua femminile con amministrazione separata, piuttosto che accettare l’iscrizione delle lavoratrici, stabilendo criteri differenti che spesso si risolvevano nell’elargizione di un contributo una tantum nell’incertezza, ad esempio, di stabilire se il parto fosse da considerarsi una malattia con diritto al sussidio, o un evento fisiologico.

Ne conseguì che le Società femminili incontrarono gravi difficoltà finanziarie, tali da costringerle ad accettare oblazioni da dame nobili o borghesi e la dipendenza rispetto alle deliberazioni delle maschili a cui corrispondevano, che le sostenevano economicamente. L’assenza di dibattito politico e l’impronta di perbenismo dettata dalla generosità distratta delle benefattrici, erano la connotazione conseguente, nonostante casi sporadici di autonomia decisionale. Un’eccezione, questa, rispetto alle costrizioni dovute al ruolo femminile e alle regole sociali che, di fatto, rendevano assai difficoltosa la frequentazione delle attività ricreative e culturali, e l’accesso all’istruzione. Nei verbali dell’ “Unione di Operaie Cattoliche di Torino”, fondata nel 1872 e conseguente all’omonima società maschile, non si accenna mai alla cultura che una donna doveva conseguire per affrontare la sua missione, problema che aveva invece acceso il dibattito all’interno del movimento di emancipazione femminile, al suo sorgere. Allo stesso modo non risulta che le iscritte si siano occupate di problematiche sociali o socio-politiche nelle loro adunanze, se non in un’adunanza del febbraio 1911, in cui si parlò esplicitamente della necessità di collegare le donne italiane nel proposito di riaffermarsi nella professione della fede cattolica; nell’adempimento dei doveri individuali; nel conseguimento di una cultura adatta alla missione cristiana della donna; nel rendere più efficaci e rispondenti alle necessità dei tempi le opere alle quali la donna si dedica nel campo della religione, della carità e dell’azione solidale. Ma non è da credere che le associazioni laiche usassero maggiori riguardi nei confronti del problema femminile, soprattutto in Piemonte. L’impressione che se ne ricava è che il lavoro femminile, come l’istruzione, fossero considerati un male necessario, il primo per necessità di sopravvivenza, la seconda come requisito minimo per assolvere il proprio compito. Si dovrà dunque attendere il ‘900 per scorgere un po’ più di attenzione nel considerare il problema con iniziative da parte laica e cattolica: a Milano veniva fondata L’ “Unione Femminile Nazionale” (1900), che nell’aprile 1901 fece uscire il giornale “L’Unione Femminile”. Il Partito Socialista esprimeva una sua “Lega per gli interessi femminili”(1906). In campo cattolico, la rivista “L’Azione Muliebre” (1901), costituiva la prima manifestazione di femminismo cattolico, che doveva rispondere all’esigenza di aggiornare i comportamenti femminili secondo un modello di donna nuova, in grado di operare la rigenerazione morale e materiale della società.

A Torino Cesarina Astesana avviò un importante progetto di recupero morale e materiale delle lavoratrici dell’ago che, partendo dalla costituzione di un sodalizio mutualistico aperto anche a chi fosse sensibile al problema del loro sfruttamento, promosse un’ intensa azione di apostolato sociale, volto al superamento dei confini angusti della carità mondana in cui si fossilizzava la beneficenza borghese, pur nei limiti di un modello paternalistico clerico – moderato.

La “Società di Patronato e Mutuo Soccorso per le Giovani Operaie”, affermava nel suo statuto (1902), la tutela dei diritti di categoria, il collocamento delle socie disoccupate, la composizione delle vertenze tra capitale e lavoro, oltre al miglioramento economico mediante il mutuo soccorso e l’elevazione morale ad opera delle patronesse. L’esigua entità dei contributi mensili rispetto a quanto mediamente fissato dalle altre associazioni, favoriva indubbiamente le adesioni; il soccorso terapeutico assicurato attraverso una rete di ambulatori, compiva un’importante azione preventiva nei confronti delle malattie più comuni dovute all’ambiente di lavoro, sostenuta dall’istituzione di colonie montane e marine; una “Casa famiglia” garantiva pasti adeguati e asilo alle giovani lontane da casa; un vero e proprio ufficio di collocamento esercitava, oltre alla propria funzione intrinseca, un controllo sull’osservanza delle norme di garanzia da parte dei datori di lavoro.

Rilevante fu l’opera del Patronato nel campo dell’istruzione: un nutrito numero di corsi rivolti alla formazione professionale delle giovani associate, a cui si affiancavano corsi di lingua italiana e francese, aritmetica, computisteria, musica, ginnastica; un corso commerciale triennale, collegato ai programmi ministeriali, per consentire l’accesso a nuovi sbocchi professionali; una scuola della buona massaia.

Le sedi del Patronato si diffusero a livello nazionale e, in Piemonte, a Saluzzo, Savigliano, Fossano, Vercelli, Asti, Alesssandria, a testimoniare un impegno che andava oltre le intenzioni di migliorare le condizioni di vita delle iscritte, contribuendo a formare una coscienza dei propri diritti e della propria forza, pur nei limiti di un’educata rivendicazione.

Da questa realtà esemplare ad una più circoscritta, ma emblematica: secondo i dati contenuti nel censimento storico e rilevazione Società esistenti (Cent’anni di solidarietà, Reg. Piemonte 1990), in provincia di Alessandria, su 621 Società, solo 13 erano femminili o miste. Ciò conferma come l’associazionismo femminile risentisse delle difficoltà d’inserimento e permanenza nel mondo del lavoro, che giustificano anche il numero limitato delle iscrizioni dovuto all’esiguità dei salari e alla precarietà : la perdita del posto di lavoro era frequente in caso di matrimonio, riduzione del personale, e per il prevalere del ruolo familiare attribuito alla donna, moglie e madre prima di tutto. A ciò si aggiunse la legge del 1902 sul divieto di lavoro notturno e la tutela delle lavoratrici madri, che aveva comportato un abbattimento delle percentuali di occupazione femminile: da una rilevazione compiuta nel 1903, Statistica industriale, la manodopera femminile risultava essere scesa al 27%, dal 48,6% del 1861, impiegata soprattutto nel tessile e nell’abbigliamento, mentre la manodopera minorile era al 17%.

Tra le Società femminili si distingue, ad Alessandria, la “Società di Mutuo soccorso delle Operaie” (1855), sostenuta economicamente dalla “Società degli Operai”, che sotto la denominazione “Società di Mutuo Soccorso fra Artiste ed Operaie”, partecipò ai Congressi di Genova (1855), Vigevano (1856), Voghera (1857), Vercelli (1858), Novi Ligure (1859), Milano (1860), Firenze (1861), Asti (1861), dando un segnale confortante di presenza femminile là dove si svolgeva il dibattito ideologico.

Tra le curiosità, la “Società di Mutuo Soccorso dei veterani del 1848/49”, contava una socia nell’anno 1875.

La maggior parte delle Società dell’Alessandrino non aveva richiesto il riconoscimento giuridico. Così recita, ad esempio, la “Società degli Operai Uniti” di Alessandria: “non è disponibile a farsi riconoscere perché tale legge vincola l’azione delle Società operaie e restringe il diritto di associazione, sanzionato dallo Statuto Albertino” (Archivio di Stato di Alessandria – Archivio Storico del Comune di Alessandria, Serie III – Cat. XII – bb. 1825 – 1827). Tale Società, fondata nel 1863 dal socio Camillo Pastore, è citata da Giantommaso Beccarla nella Storia delle Società di Mutuo Soccorso d’Europa (Torino 1866, Tipogr. Editrice Fratelli Civalleri, c/o Biblioteca Federiciana, Fano) come “… una delle più celebri e patriottiche Società che possa vantare la nostra Italia, la quale sarebbe ben fortunata se potesse averne una di simile almeno in ognuna della sue cento città. Noi la proponiamo a modello di tante altre”.

Ancora nel 1904, anno dell’ultima statistica sistematica, su 6535 Società italiane censite, soltanto 1548 risultavano riconosciute, una scelta sicuramente emersa dal dibattito interno, che denota diffidenza verso lo Stato nel timore di essere sottoposti a controlli rigidi e perdere parte della propria autonomia.

A proposito del comune destino che portò alla chiusura di gran parte delle Società operaie, la “Società di Mutuo Soccorso fra gli operai” di Mirabello Monferrato reca chiaramente, alla voce “estinzione”: “Venne sciolta dal fascismo perché considerata ricetto alle organizzazioni democratiche dei lavoratori; fu poi ricostituita dai soci superstiti”. (Notizie fornite dalle biblioteche civiche piemontesi, a seguito di Circolare 1978, inviata dal Servizio Beni Librari della Regione Piemonte).

Marina Elettra Maranetto

I riferimenti storici riportati derivano dalla consultazione delle seguenti fonti:

Giuliano Procacci: Storia degli Italiani. Laterza, 1975.

Giuliano Procacci: La lotta di classe in Italia agli inizi del XX Secolo. Editori Riuniti, 1970.

Luigi Salvatorelli: Storia del Novecento. Mondatori, 1957.

Adrian Lyttelton:La conquista del potere – il fascismo dal 1919 al 1929, Laterza Ed.,1974.

Dora Marucco: I Sindacati nella società contemporanea, Documenti della Storia. Loecher Ed.,1974.

Nicola Abbagnano: Storia della Filosofia, Unione Tipografica Editrice Torinese, 1958.

Nino Valeri: Storia d’Italia, UTET, 1964, vol.5°.

Storia d’Italia Einaudi. Fabbri Editori, 1985, vol. 4°.

Sito Web Mutuo Soccorso . it

Bianca Gera – Diego Robotti: Cent’anni di Solidarietà, Le Società di Mutuo Soccorso Piemontesi dalle origini, Censimento Storico e Rilevazione Statistica delle Associazioni Esistenti. Regione Piemonte, 1990.

Maria Bellocchio: Aghi e cuori, Sartine e patronesse nella Torino d’inizio secolo. Centro Studi Piemontesi, Torino, 2000.

Emilio Costa: Le origini delle Società Operaie di Mutuo Soccorso in Piemonte 1848 – 1870. “URBS” rivista trimestrale, Accademia Urbense – Ovada, Dicembre 1995.

Paolo Bavazzano: Giacomo Costa e l’Ovada della seconda metà del sec. XIX. Ovada, Memorie dell’Accademia Urbense, n.23, 1997.

Giancarlo Subbrero: Trasformazioni economiche e sviluppo Urbano – Ovada da metà Ottocento a oggi. Comune di Ovada – I S R A, 1998.

Mario Silvano: Emeroteca Ovadese, Accademia Urbense – Ovada, Atti del Convegno Internazionale San Quintino di Spigno, Acqui Terme e Ovada: un millenario,(Giornate Ovadesi, 27 – 28 Aprile 1991). Biblioteca della Società di Storia, Arte e Archeologia, Accademia degli Immobili, n.30,1995, Alessandria.

Giantommaso Beccarla: Storia delle Società di Mutuo Soccorso d’Europa, dalla loro origine ai tempi nostri. Tip.Editrice dei Fratelli Civalleri. Torino, 1866, vol.1° (c/o Biblioteca Federiciana, Fano,19 R VII, 249).

Sac.Giovanni Lanza: Del glorioso martire San Pancrazio e del suo culto in Italia. Tipografia e libreria S.Giuseppe, Torino 1877.

Can. Vincenzo Legè: Silvano d’Orba e la sua Pieve. Tipografia Raimondo Cerri, Casteggio 1910 (concesso da Giovanni Chiappino).

G.B.Rossi: Ovada e dintorni- Guida storica, amministrativa e commerciale. Ed. L’Italia Industriale e artistica, Roma,1908 (concesso da Giovanni Chiappino).

L’ Emancipazione”, settimanale socialista , 1920/22, c/o Accademia Urbense di Ovada.

“Il Corriere delle Valli Stura e Orba”, c/o Accademia Urbense di Ovada e Biblioteca Civica di Ovada.

“Bollettino dell’Organizzazione Civile”, c/o Accademia Urbense di Ovada.

“L’Alto Monferrato”, c/o Accademia Urbense di Ovada.

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