Massimo Cacciari . La mente inquieta. Saggi sull’Umanesimo

Forse non molti sanno che il termine Humanismus (Umanesimo) fu ideato soltanto all’inizio dell’Ottocento dallo studioso tedesco F.I. Niethammer, grande amico di Hegel, allo scopo prioritario di rivalorizzare le lingue e letterature classiche (greco e latino). Umanesimo, insomma, significava per quell’intellettuale nordico il rilancio dei cosiddetti studia humanitatis (le discipline umanistiche), che, secondo gli umanisti italiani del XV secolo, si riferivano alle secolari/tradizionali attività intellettuali formative e creative ‒ grammatica, retorica, poesia, storia, filosofia e filologia ‒, che essi, nella loro ottica rivalutativa dei testi antichi, vedevano quali privilegiate espressioni letterarie degli esseri umani (humanae litterae), prendendo le distanze da quelle divine (divinae litterae), ossia dai testi sacri, su cui si era incentrato l’interessate di pensatori ed autori durante quasi tutto il medioevo.

Tuttavia ‒ come rimarca Massimo Cacciari all’inizio del libro: La mente inquieta. Saggi sull’Umanesimo (pubblicato di recente da Einaudi) ‒ la tendenza fondamentale, o meglio lo stereotipo, che venne a crearsi intorno a tale fecondissimo periodo, che in parte era già Rinascimento, fu di considerarlo solo all’insegna dell’arte o della rinascita di essa, nonché all’insegna dell’individuo creativo: il poietes, ovvero appunto l’artista. Ma, si/ci domanda Cacciari: “forse che questa grande arte avrebbe mai potuto nascere senza un’implicita filosofia dell’arte? E una concezione poietica del fare umano può non comportare, o addirittura imporre, un’antropologia filosofica?” La risposta non può essere che un deciso e inequivocabile no.

L’Umanesimo storico, anzi, al di là dei suoi ambiti filologici ‒ eppure mai retorici o meramente nostalgici della classicità ‒ e dei suoi celeberrimi/celebratissimi canoni artistici, è per il Nostro soprattutto epoca di crisi, giacché egli evidenzia e mette in luce all’interno di essa un nucleo tragico, costituito da un inesausto, drammatico interrogarsi intorno al presente e al futuro. Riflessione la quale ha ben poco a che spartire con l’idealizzata dimensione armonico-pacificante fatta propria dalla tradizionale/banale concezione dell’Umanesimo-Rinascimento.

La modernità filosofica di tale periodo sta innanzitutto, per Cacciari, in una fondamentale acquisizione/consapevolezza: quella di non considerare più i dati, le cose del mondo come oggetti ma come eventi da noi interpretati attraverso il linguaggio, la parola: “potenza che attraverso il nostro atto di parlare continuamente si esprime, e che pure sempre ci trascende, potenza che proprio nell’immaginazione artistico-poetica perviene al suo culmine”.

Autentica filologia umanistica, allora, è amore per una parola non già morta ma viva, in quanto la pietas nei confronti del passato, della classicità, diviene regressione involutiva, se non è orientata ad un sempre nuovo inizio. E presa d’atto che i filosofi debbano mirare alla eudaimonia, ossia tendere ad una quanto più possibilmente ottimale felicità esistenziale; coscienti però ‒ quali erano i vari Ficino, Pico, Valla, Alberti & C. ‒ che essa non sarà mai completamente raggiungibile, alla pari della piena libertà umana. Coscienti altresì che all’interno dell’uomo alberga un’inestinguibile inquietudine, che, se da un lato spinge a produrre mirabili opere d’ingegno, dall’altro non è e non sarà mai placabile se non pena l’ignavia, la catatonia, la stagnazione depressiva, così efficacemente illustrate nella celebre incisione del Dürer intitolata Melencolia I.

Così davvero l’occhio ‒ noto emblema dell’Alberti ‒, può venir colto quale cifra dell’Umanesimo, che vede i limiti dello sguardo umano e delle sue pur mirabili traduzioni prospettiche in pittura. Alla ricerca com’è non tanto della oggettività ma della misura, di un logos (discorso/parola) capace di guardare sin dentro l’umbratile dimensione enigmatica e distruttiva celata all’interno di ogni individuo. Un occhio capace di stupore/meraviglia, specie quando rivolto all’essere umano che resta ‒ oggi come in antico ‒ il magnum miraculum: il grande miracolo tra tutto ciò che suscita ammirazione; forse giusto perché ‒ dice bene Cacciari ‒ “non possiede un volto proprio né una figura definita”.

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