“Deve marcire in galera….”

   Così si è espresso un Ministro degli interni della Repubblica italiana nonché vice-presidente del Consiglio dei ministri. Un’espressione doppiamente esecrabile, chiunque sia il soggetto cui è rivolta l’imprecazione. Sì, imprecazione, perché l’ “autorevole” augurio è manifestazione di disprezzo e di atteggiamento vendicativo, quasi dicesse: “Devi pagarla nel peggiore dei modi, devi soffrire come hai fatto soffrire altri”.

      Anzitutto, a un ministro non è consentito esprimersi in questo modo, in quanto è garante della legge e della Costituzione su cui ha giurato, le quali non prevedono disprezzo e vendetta, ma l’impersonale condanna del reo in proporzione alla gravità del crimine commesso. Fortunatamente la legge è impersonale, cioè asettica rispetto agli umani e comprensibilissimi sentimenti, opera in certo senso “freddamente”: ben venga questo carattere impersonale che felicemente crea una barriera rispetto a disprezzi e vendette. Di più la legge penale italiana prevede l’eventualità di attenuazione o commutazione della pena a certe condizioni, in funzione anche del ravvedimento del soggetto. Inoltre il significato della pena non è solo di espiazione, ma secondo la filosofia del nostro ordinamento giuridico il significato della pena è altresì a fine rieducativo.

       Questa è la legge italiana nonché lo spirito della nostra legislazione penale. Pertanto un ministro mostra tutta la sua ignoranza, specie con l’aggiunta a quell’imprecazione di un «… fino alla fine dei suoi giorni». Improbabile ma non impossibile un ravvedimento, improbabili ma non impossibili in linea di principio modifiche della pena o del modo di scontarla. Al più poteva esprimere l’augurio che il soggetto scontasse la pena interamente e senza sconti, sconti che a suo avviso – legittima opinione – comunque non meriterebbe, ma tenendosi  per sé i sentimenti personali. Tra i quali soprattutto non doveva permettersi quel «marcire»: proprio la Costituzione (art. 27) prevede che i trattamenti penali non possono essere contrari al senso di umanità.  Neppure l’amaro pensiero per vittime innocenti e l’empatia per le sofferenze dei loro parenti giustificano la crudeltà verso il criminale: la giustizia si metterebbe sullo stesso barbaro piano del carnefice.

       Ma perché il nostro ministro è così decaduto rispetto al comportamento che ci si attenderebbe da un Ministro della Repubblica italiana? Se questo comportamento ha un senso politico, esso appare ancora una volta una manifestazione e una tattica di populismo: esser vicino al popolo, o meglio alla “pancia” del popolo che lui ha in mente, fuori da ogni mediazione di istituzioni e leggi, bensì coltivando le emozioni più primitive di quella parte di popolo. Sono quelle stesse emozioni che, a ben vedere, se difettasse la mediazione del diritto e l’opera dei suoi rappresentanti istituzionali,  porterebbero alle esecuzioni sommarie e ai linciaggi (non accuso di tanto il “nostro” ministro, ma è la china sulla quale ci si mette laddove le passioni non vengano regolate e moderate dalla razionalità e dalle leggi di una società civile).  Così dunque si spiega il camaleontismo – ahinoi fortunato –  del nostro ministro, che cambia casacca ad ogni occasione in cui convenga essere “col popolo” e “tra il popolo”, contravvenendo all’ideale di ogni uomo di Stato che è quello di essere sì col e tra il popolo, ma anche un passo avanti rispetto al popolo.

       C’è un ulteriore motivo, dicevo, che rende esecrabile quell’affermazione: riguarda l’uomo, prima che il ministro, dunque riguarda qualunque uomo si ponga a fronte di un altro essere umano che abbia commesso crimini anche gravissimi e debba scontare la meritata pena. Al proposito introduco nozioni che provengono da un certo concetto di persona, invalso in Occidente e che ha beneficiato dell’influenza del cristianesimo. La condanna riguarda a ben vedere gli atti di quella persona, che di per sé sono “fatti”, cioè atti commessi e dunque incancellabili (il tempo non torna indietro); non riguarda, invece, la persona come tale, perché la persona non si riduce agli atti che ha commesso, ma essa è processualità e divenire, finché vive. Senza questo concetto di persona non capiremmo il senso del perdono, quello personale e anche quello giudiziario: se il crimine commesso non cambia, perché quel che è stato è stato, invece il criminale è suscettibile nel prosieguo di cambiamento. Non sappiamo mai dall’esterno ciò che può esserci e accadere nel foro interiore di ciascuna persona, non sappiamo mai delle sue più intime intenzioni.

       Queste considerazioni conseguono al principio illuminista della libertà interiore, affermato contro ogni assolutismo vecchio e nuovo, il quale finisce col ridurre l’individuo alle leggi dello Stato, nel migliore dei casi, all’arbitrio del sovrano assoluto o del dittatore di turno, nel peggiore dei casi. E’ principio che trova avallo in una norma etica essenziale al cristianesimo, ancorché non di rado violata dalle stesse Chiese cristiane: è la norma per cui la coscienza invincibilmente erronea non pecca. Vale a dire, se nel tuo intimo sei convinto assolutamente del valore di un certo tuo comportamento, per quanto questo comportamento sia condannato dalle autorità, dall’etica condivisa e dal senso comune, non ti si può imputare a peccato quel tuo comportamento. Come istituzione ecclesiastica ti si potrà anche condannare a morte, ma non si potrà mai dire che sei in peccato mortale. Infatti nessuno può giudicare il tuo foro interiore: te la vedrai tu coram Deo, cioè a fronte di Dio. E’ uno straordinario principio di libertà di coscienza, reso possibile dall’idea che il senso dell’umano non si esaurisce nelle leggi per quanto buone della polis, tanto meno nelle leggi di una società intesa come un collettivo sovraindividuale, sia esso “il popolo”, “lo Stato”, “la classe (operaia)”, “la Chiesa-istituzione”.

      L’auspicio è dunque che il “nostro” criminale di turno espii interamente e puramente secondo la legge italiana, senza tanti inutili e controproducenti schiamazzi che rischiano di farlo diventare un eroe negativo. Ma ad un tempo il mio auspicio, memore della rivoluzione interiore dell’Innominato di manzoniana memoria, responsabile di crimini non meno esecrandi, coincide con un sogno: che la dura reclusione del “nostro” sia occasione di ravvedimento e di espiazione interiore, preludio di una sincera invocazione di perdono.

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