Dioniso tra Oriente e Occidente

Pubblico di seguito il testo - che trasformerò in seguito - della relazione da me tenuta il 10 novembre 2018, per il Centro Italiano di Psicologia Analitica, al Centro Sereno Regis di Torino. Il tema della sacralità della Natura, di cui Dioniso è stato mito e simbolo, va oltre i cultori degli antichi miti, e oltre gli psicologi junghiani che cercano in essi gli archetipi dell’inconscio collettivo. Può interessare, infatti, ogni amico della rinascita della e nella Natura. Per questo lo ripropongo qui. (F.L.)

Le vicende relative al dio Dioniso sono estremamente controverse, narrate non solo da Euripide – che per uno dei paradossi della storia pur essendo il più razionalistico, e per ciò “antidionisiaco”, tra i tre grandi tragici greci è stato, con la tragedia “Le baccanti”, il maggior testimone del dio nella Grecia classica – ma anche da tanti altri autori, da Omero ed Esiodo a Ovidio e infine a Nonno di Panopoli, nel V secolo d.C., autore greco-egizio del vastissimo poema “Dionisiache” (a cura di Daria Gigli Piccardi, con testo greco a fronte, BUR, 2003, due volumi), opera vastissima in versi – ora riproposta in nuova traduzione anche da Adelphi – che conclude la civiltà ellenistica e qua e là pagana, in una fase in cui il cristianesimo aveva trionfato (siamo al tempo e dalle parti di Sant’Agostino).

 Negli ultimi anni ho letto tanto su Dioniso, in base a certi miei progetti “futuribili”, ma dal grande e interessantissimo magma mi piace estrarre solo qualche tratto sul mito e qualche riflessione mirata relativa all’età contemporanea da Nietzsche a oggi (e domani).

  Intanto Dioniso è generato in modo alquanto originale. Zeus – dopo aver fatto all’amore con la donna (o in altra versione dea) amata – nasconde l’embrione nella coscia, che lui stesso s’incide con arte. E qui direi che c’è una perfetta simmetria con un’altra nascita “da Zeus”: quella di Atena, la grande dea della sapienza e anche dell’ordine familiare-politico di Atene (e prima, nella Grecia arcaica, grande dea vergine e guerriera degli Achei, e specialmente di Ulisse, suo eroe preferito: il re saggio, pio, astuto e risoluto, cantato nell’Odissea di Omero, che stermina i pretendenti al trono, e a sua moglie Penelope, essendo tornato nella sua Itaca dopo vent’anni). Atena nasce dalla testa di Zeus (o Giove), che se la fa spaccare da Vulcano quando gli vengono le doglie nel capo; Dioniso nasce dalla coscia, che certo è al polo opposto della testa, molto prossima al pene. Come a dire “ragione” sacralizzata da una parte (Atena) e “eros” sacralizzato dall’altra (Dioniso).

  Inoltre Dioniso nasce due volte. Infatti in un mito Dioniso è un semidio. Zeus, sempre in fregola, a dispetto della gelosissima moglie e sorella Era, s’invaghisce di Semele, la bellissima figlia di Cadmo, re di Tebe. I due si amano. Ma Era, in odio al nascituro, convince Semele – prendendo le sembianze di una nutrice – che colui che si presenta, in forma umana, come Zeus, non lo è affatto, e che lei dovrebbe pretendere di farsi amare da lui nella sua forma divina (per essere sicura che sia il primo dio, come lui dice, e godere “divinamente”). Avendo giurato di esaurire i desideri della donna amata, Zeus deve amarla nella sua forma propria, che è inseparabile dal fulmine, sicché Semele muore incenerita. Il dio salva l’embrione e lo fa appunto crescere in una sua coscia, da cui nascerà a tempo debito. Poi lo fa allevare in una grotta, nutrito con latte di capra. Ma Era fa impazzire il bimbo semidivino. Lo salverà e guarirà Gaia, la Terra. Dioniso scoprirà la vite e avrà i suoi misteri, come li ha Demetra, che è – pure lei – la dea Grande Madre Terra (un altro nome di Gaia). Demetra ha insegnato a coltivare il grano e Dioniso la vite.

  La seconda versione del mito, specie della nascita, e morte, di Dioniso è quella dell’orfismo. E infatti nei misteri più tardivi, di Orfeo, più ascetici e legati all’Egitto, al pitagorismo e alla fede nella metempsicosi, Dioniso era centrale. Lo era molto anche nell’Italia meridionale greca, dalla Sicilia alla Campania e Puglia, come mostrano da un lato gli studi sui riti dei tarantolati in opere di Ernesto De Martino come “Terre del rimorso” (Il Saggiatore, 1961), e dall’altro il ritrovamento della villa dei misteri a Pompei.

   Nei riti orfici Dioniso era il dio centrale. Pare che il centro quasi originario o originario del culto fosse stato Creta, che avrebbe fatto da ponte tra mondo egizio e mondo minoico (per Karl Kerényi, “Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile”, 1976, ma Adelphi, 1992, p. 81). Spesso in tali misteri orfici l’accoppiamento divino immaginato per generare Dioniso era tra Zeus e Persefone, poi dea dell’Averno (accoppiata con un Plutone o Ade identificato con Dioniso). Il piccolo – secondo i miti orfici – sarebbe nato nel modo anzidetto. Ma i titani, giganti da sempre in lotta contro gli dei (tra cui sarà pure il “buon” Prometeo), avrebbero catturato il piccolo Dioniso e l’avrebbero fatto a pezzi, messo a bollire e in gran parte mangiato. Nel santuario di Delfi, di cui anni fa ho religiosamente visitato i resti, si pretendeva ci fosse la tomba di Dioniso, che veniva indicata ai pellegrini. Lì era conciliato con Apollo, tanto che il tempio fondamentale portava nella parte anteriore la statua di Apollo e nella posteriore quella di Dioniso. Il secondo era un dio risorto da morte.  Infatti il cuore di Dioniso era stato sottratto ai titani da Atena, e da esso Zeus avrebbe “ricreato” il dio Dioniso. Poi Zeus avrebbe fulminato i titani, e dalle ceneri, che contenevano però anche frammenti di Dioniso, sarebbero nati gli esseri umani, per ciò insieme cattivi e buoni (segnati dall’”arroganza” dei titani e dalle buone qualità di Dioniso, presenti nelle loro ceneri). Per parte sua Dioniso, oltre che dio della vite e vita, sarebbe diventato Ade (come in Egitto Osiride, che secondo Plutarco i Greci identificavano con Dioniso), un nuovo Dioniso in cui eros e thanatos, amore e morte, come sempre si congiungevano; dio della vita che procede dalla morte, creatore e distruttore danzante dei mondi.

  I misteri, nascosti in modo quasi perfetto dagli iniziati (anche a noi), avevano la caratteristica comune di far acquisire un contatto diretto col divino, e quindi di dare la certezza di una vita dell’anima dopo la morte e in un’altra dimensione (percepite però indubitabilmente). L’anima in estasi ricordava pure le proprie vite anteriori (a conferma della metempsicosi, cara a orfici e pitagorici). Tra gli orfici il superare la materialità era la via, in un contesto molto spiritualista (oltre che – diremmo oggi – spiritista). C’era pure – sia nel nome di Dioniso che di Orfeo – l’uso di un beveraggio certo con vino drogato, ad Eleusi detto ciceone, che dava allucinazioni”religiose” intimamente sconvolgenti: però solo a persone spirituali e iniziate. Anche nell’Asino d’oro di Apuleio, nel quadro dei misteri di Iside (e di Osiride), si accenna, con parole molto importanti, a tale esperienza. Su ciò è pure da rilevare quanto scrive lo scopritore dell’LSD, lo svizzero tedesco Albert Hofman, in un volumetto di cui è coautore con R. Gordon Wasson e Carl. A. P. Ruck, “Alla scoperta dei misteri eleusini” (1978), Urra, Milano, 1996. Si tratta dei misteri orfico-dionisiaci, in cui tramite la droga si avevano visioni che anche oggi sembrano soprannaturali, e che naturalmente oltre due millenni fa erano percepite dagli iniziati come indubitabilmente tali.

  La caratteristica dell’esperienza estatica dionisiaca era, però, che il contatto col dio non era realizzato reprimendo le pulsioni (ad esempio con digiuni), ma portandole sino allo spasimo, tramite danze scatenate sino allo sfinimento, flauti, tamburelli, invocazioni e certo vino (forse drogato), in cortei tra i boschi e sui monti, cui partecipavano quasi esclusivamente donne (le baccanti, o menadi). Per tal via le persone partecipi, quasi esclusivamente donne, superavano l’Ego, che noi diremmo “da svegli” o empirico; entravano in trance e vedevano e sentivano il dio. Nella selvaggia danza, al suo culmine, a un certo punto si sacrificavano, sgozzandoli puramente e semplicemente, capretti, consumandone la carne calda e cruda immediatamente, credendo di introiettare e di vedere appunto il dio Dioniso. (Ecco l’anticipazione dell’”agnello di Dio che toglie i peccati dal mondo” nella nostra messa, ma lì non certo con approccio “da pentiti”).

  Si capisce che tali culti di scatenamento istintuale sacro fossero malvisti dal potere, tanto più se autoritario, in Beozia (Licurgo) come a Tebe (il Penteo delle “Baccanti”) e nella Roma repubblicana (come ci dice Tito Livio).

  Invece i Greci avevano accolto Dioniso dandogli un ruolo decisivo sia a Delfi che nelle feste annuali e soprattutto nei misteri, orfici e dionisiaci. Forse tenevano conto del fatto che a questi misteri partecipavano piccole élites tenute a un segreto assoluto. Ma c’era certo una qualche affinità elettiva più profonda.

  Ad Atene Dioniso era diventato il dio della tragedia, cui è dedicato il teatro sull’acropoli, che ancora si vede (e ho visto), in un contesto che teneva insieme, la più totale gioia di vivere e la tristezza per la cieca sofferenza che la permea, eros e thànatos, amore e morte, cupo pessimismo esistenziale e immenso amore per la vita naturale e umana, francamente divinizzata.

  Molti studiosi hanno pensato che – nonostante alcuni cenni a Dioniso che “dà gioia ai mortali” nell’Iliade di Omero, e uno specifico vasto testo negli Inni omerici – Dioniso sia stato un dio importato in Grecia tardivamente. Egli sarebbe stato un dio straniero, orientale, tracio e frigio (in Tracia chiamato Sabazio), adottato tardivamente dai greci. Lo credeva anche Erodoto, ma non Omero.

Tuttavia i ritrovamenti archeologici hanno dimostrato – secondo l’opera di Kerenyi che ho citato – che Dioniso era adorato a Creta e a Pilo quasi duemila anni prima di Cristo (p. 14 e p. 46).

  A questo punto possiamo fare un balzo nell’epoca contemporanea. Andiamo alla prima grande opera di Nietzsche:  “La nascita della tragedia” (1872): testo che tra i tanti meriti ha pure quello – pur con alcune anticipazioni nella poesia di Hölderlin, che per altro egli amava moltissimo – di aver posto in pienissima luce, nella cultura contemporanea, un dio della vita indistruttibile quasi dimenticato, o ridotto semplicemente all’allegro nume della vendemmia e dell’alzare il gomito.

  Nietzsche portava alcune decisive innovazioni rispetto al modo anteriore prevalso sin lì, specie da Winkelmann a Goethe e anche Hegel, di vedere il mondo e soprattutto i Greci antichi, che nel contesto neoclassico (si pensi al nostro splendido Canova), vedeva quel mondo come un mondo “felix”, sereno, armonico. Le innovazioni di Nietzsche in materia sembrano essere state soprattutto le seguenti:

1)  Il primato ontologico – ossia nella visione della realtà in sé e per sé o “essere” – dell’inconscio. Dioniso sarebbe stato indice del prevalere dell’irrazionale, in amore e morte, nel modo di sentire della Grecia arcaica e classica. Su questo punto fondamentale relativo a Dioniso ha scritto pagine bellissime – ma tutto il suo libro lo è – Walter Friedrich Otto, in “Dioniso. Mito e culto” (1933), Melangolo, Genova, 1990. Per Otto, come già per Nietzsche, Dioniso incarna la “divina follia” creatrice, “il fondamento irrazionale del mondo” (come ricorderà anche Kerényi a p. 14).

Ma il primato ontologico dell’inconscio, prima di Nietzsche, era già stato visto benissimo da Schopenhauer (nell’idea della cieca “volontà di vivere” come cosa in sé del mondo, già nel “Mondo come volontà e rappresentazione”, del 1818), ma poi era stato enfatizzato all’estremo da Nietzsche e Wagner. Essi – identificando l’essere con il puro impulso vitalistico – hanno posto le basi della psicoanalisi sin da Freud (il quale riconosceva apertamente il proprio debito verso Schopenhauer e in parte Nietzsche), ed è stato sottolineato ancor più da Jung (che non solo lo riconosceva, ma approfondiva molto, con veri riferimenti perspicui a Schopenhauer e un grande commento in quattro volumi allo “Zarathustra” di Nietzsche). Anzi, io vedrei su tutto ciò una linea di continuità come la seguente: Schopenhauer, Nietzsche, Freud, Jung e, ça va sans dire, Hillman (ma aggiungerei Bergson, come ponte tra Nietzsche e Jung). Da allora il reale in sé e per sé, “l’essere” – superando del tutto la teodicea (“giustizia di Dio”), ossia la visione provvidenziale più o meno ottimistica, che da Leibniz portava, in modo mosso, sino a Hegel – ha smesso di essere il razionale. Il reale non è razionale. E tutti gli autori citati – da Schopenhauer e Nietzsche a Jung – ce l’hanno fatto capire. Quel che chiamiamo razionale è solo una razionalizzazione (anche bene e male). Il reale è l’opposto della “rappresentazione”, sempre umana troppo umana. Il reale puro e semplice ci si presenta come àisthesis, sensibilità (per cui dovremmo assumere la “vita estetica” come originaria), passione, impulso, volontà: in una parola “inconscio”. Dapprima per Freud il reale fu tutto eros (sano o distorto), ma dopo la grande guerra – e pare per influsso di Sabina Spielrein, che l’avrebbe appreso in analisi, e anche tra le lenzuola, da Jung – l’inconscio emerse pure come thànatos. Insomma, il reale, la volontà di vita, è amore-morte infinitizzato.

2)  L’idea che la volontà di vivere, che da Schopenhauer è il noumeno svelato, nella sua infinità “personificata” sia “Dioniso”, che giustamente – addirittura nel sottotitolo della sua opera – Kerényi dice “dio della vita indistruttibile”. Il tema del dio della vita indistruttibile in Nietzsche non si fa “teologico”, ma resta “in gran parte simbolico” perché Nietzsche, operando nell’età del positivismo (cui pure contemporaneamente “reagiva”), e volendo sbarazzarsi del Dio cristiano, come si sa divenne il maggior filosofo della “morte di Dio” (specie a partire da “La gaia scienza”, del 1882 e infine 1887), alias il maggior precursore dell’attuale età della secolarizzazione. Ma poi il simbolico già in Nietzsche tende a farsi ontologico, cioè a diventare divino in senso forte, come ciascuno può vedere sia in alcune bellissime poesie, sia nel gruppo di poesie intitolato “Ditirambi di Dioniso”, sia nel vero capitolo conclusivo del Così parlò Zarathustra, che è il penultimo, “L’ebbra canzone”, vero e proprio stupendo ditirambo “filosofico”, e sia infine, last but not least, nei biglietti della follia. Lì, in questa sorta di conturbante – credo pure per gli psichiatri – terra desolata dell’inizio della follia, Nietzsche s’identificava, con poche straordinarie parole, con Dioniso. Per la verità in quegli straordinari “biglietti” introduceva pure una grossa novità – anticipata dal suo amato Hölderlin – rispetto all’idea espressa ancora – da Nietzsche – nella sua autobiografia idealizzata, “Ecce homo” (1888, ma postumo 1907), che si era conclusa con le parole: “Sono stato capito? Dioniso contro Gesù Cristo”. Invece nei “biglietti della follia” i due dei (Dioniso e Cristo) erano identificati apertamente, ora congiunti e ora meno: il che secondo me ha un’importanza filosofica, da non esagerare, ma da tenere presente.

3)  La cieca volontà infinita, divina, Dioniso, che è eros-thanatos, è amore e distruttività, fusi e confusi. I greci – secondo quel che Nietzsche diceva sin dal 1872 in “La nascita della tragedia” -avrebbero sentito ciò in sommo grado, con un intreccio tra amore  e morte, e persino sapienza e follia, che forse nel Sud studiato da Ernesto De Martino (ne “Le terre del rimorso”), o in certe novelle di Pirandello (come Ciaula scopre la luna), e persino in certe pagine di Tomasi di Lampedusa sui siciliani che sentono la morte accanto e si sentono dei (Il gattopardo, Feltrinelli, 1958), possiamo cogliere ancora. Ma la passione assoluta per lo scatenamento vitalistico e al tempo stesso la percezione della totale caducità e sofferenza del vivere avrebbero esposto l’uomo del genere – dionisiaco, primordiale – a furori incontrollabili. (Su ciò è da vedere il Dodds de “I greci e l’irrazionale”, 1952, e BUR, 2009). Perciò il Greco antico avrebbe inventato pure degli dei armonizzatori del caos naturale-divino, come Apollo (lo “spirito apollineo”), che è pur esso ambiguo, ma che a parere di Nietzsche armonizzava i contrari, dando norme e canali solidi all’espressione dell’irrazionale: cetra contro flauto selvaggio del satiro Marsia; dei dell’ordine che mantengono, ma bilanciano, il disordine, la “follia divina”, lo scatenamento estatico, ossia il pericoloso misticismo selvaggio.

  Per Nietzsche la centralità di Dioniso, che è immenso amore per la vita nella gioia e nel dolore, era la vera natura umano-divina da ritrovare. Ma i pretesi nietzscheani nazisti non la pensavano affatto così. Stavano semmai contro l’autoritarismo antico nemico di Dioniso. Tanto che Alfred Rosenberg per innumerevoli pagine condanna i culti di Dioniso come corpo estraneo, cultoo asiatico e barbarico, entrati di soppiatto nell’ordine armonico e autoritario della grande civiltà greca. Lo si nota bene ne “Il mito del XX secolo” (1930). Per contro, e in contrasto con Rosenberg, Dioniso è ritenuto un simbolo fondamentale da Wilhelm Reich in “Psicologia di massa del fascismo” (1933 e 1946). Dioniso piaceva dunque al comunismo libertario.

   Ci si può però chiedere che senso socioculturale e universalmente umano abbia avuto riscoprire tutto ciò in forma di volontà di vita cieca e infinita come noumeno del mondo (Schopenhauer, 1818); come volontà di affermazione di sé, di “ogni” vivente, all’infinito, o volontà di potenza (o “Dioniso”), in Nietzsche (1872/1889); o come inconscio libidico, e poi anche “tanatologico”, in Freud (1899/1938): come Sé o divino interiore comprensivo di tutti gli opposti in Jung (specie dal 1912 al 1961) e in Hillman (specie dal 1970 alla morte).

  Bisogna partire dalla seguente situazione problematica. Nell’uomo c’è un’irrimediabile frattura, notata da moltissimi secoli: i Greci l’avevano chiamata hybris, ossia “arroganza”, che è poi l’arroganza dell’Io, come l’”ira di Achille” al centro dell’”Iliade”, o anche l’Io un tantino inflazionato di Edipo, che vincendo la Sfinge si ritrova suo malgrado nel letto di sua madre come marito di lei, e quindi fratello dei suoi figli e figlie; gli ebrei e cristiani l’hanno chiamata “peccato  originale”, status per cui per Pascal siamo “canna pensante”, e per Maritain siamo dislogati per natura, sospesi come siamo tra due opposti inconciliabili come la bestia e il dio. C’è una parola per chiamare tutto ciò. Si chiama dualismo: Materia contro spirito; bene contro il male; senso di colpa contro santità, eccetera. Un certo “modus vivendi”, instabile ma efficace, tra gli opposti richiamati, e altri consimili, era stato dato dai tabù delle società tradizionali, e in specie dal Dio dei monoteismi. Ma poi la fede del genere è risultata insostenibile e Dio è risultato “morto”. Insomma, è venuto meno il Dio che governava tali opposti nella visione della vita e nella nostra stessa vita. In realtà “Dio” aveva cominciato a morire sin da quando la materia aveva preso ad essere considerata senz’anima (già da Galileo e poi Newton), ma in senso forte è morto dal trionfo a tutto campo del materialismo scientifico, tecnologico e filosofico, sinché, dopo Feuerbach, Marx proclamò nel 1844 che la religione è l’oppio dei popoli e Nietzsche, nella “Gaia scienza”, e poi nello “Zarathustra”, che “Dio è morto”.

  A quel punto si deve pure superare il dualismo: non solo quello ontologico, ma anche quello etico.

 Si badi che il problema non è affatto quello di dire che non c’è più “la differenza” tra bene e male: il che porta all’amoralismo, al nichilismo e anche al nazismo (per cui posto l’obiettivo di potere veramente storico gradito e ritenuto produttivo, tutto diventa un mezzo possibile, sino ai campi di lavoro forzato e poi di sterminio addirittura di etnie pretese nemiche). Anche se ci sono oscillazioni gravissime persino in Nietzsche sul senso dell’ andare “al di là del bene e del male” – in generale, in Nietzsche – e non solo per lui – ciò  significa non già accedere all’amoralismo, o addirittura all’immoralismo (di qualsivoglia segno o a livello collettivo come individuale), bensì ad un’innocenza nativa. Ecco la vera redenzione: ritrovare l’innocenza del bimbo eracliteo, o del fanciullo “innocenza e oblio”, sincronizzato con la totalità della vita infinita, in cui culminano le tre metamorfosi dello spirito per lo Zarathustra nietzscheano. Quel puer divinus, in cui si perdono le ragioni del “grande disprezzo”, non è altri che Dioniso: l’innocente che accetta sé stesso, la vita che accetta se stessa, il Vivente che accetta se stesso godendo sia la gioia che la morte-rinascita infinitamente (direi come raggomitolato nella propria identità profonda, che già il dionisiaco Nietzsche, e poi molto più argomentatamente Jung, chiamava Sé).

  E che il problema della psicoanalisi fosse questo, e comportasse una sintesi tra Dioniso e Gesù Cristo, tra il dio che danza e il dio buono, Jung lo aveva detto espressamente a Freud in una lettera su cui ho spesso richiamato l’attenzione, del 1909.

  Poi sono capitate tante cose, alcune delle quali spaventarono a morte pure Jung inducendolo più volte a voler tornare all’ovile cristiano (ma sempre in modo ereticale, cioè dionisiaco): lo scatenamento del volontarismo “al di là del bene e del male”, oltre a tutto vezzeggiante molto con Dioniso e Nietzsche, di due guerre mondiali spaventose, specie in riferimento alla Germania, prima guglielmina e poi nazista; poi la statolatria stalinista da un lato e l’americanismo dall’altro (criticati da Jung in “Presente e futuro” nel 1958). E tuttavia il problema del superare la lacerazione che c’è nell’uomo – o in una chiave prima di tutto individuale (Jung) o anche e infine soprattutto psicologico-collettiva (Hillman) – è rimasto; ed è rimasto tale sempre riferito a Dioniso: o in vista di un nuovo Dioniso, che assorba in sé il Cristo, o di un Cristo dionisiaco, su cui Jung dice e documenta cose molto importanti. Si deve insomma superare l’antinomia tra istinti e coscienza, ma anche tra il vivere secondo natura o contro la natura (persino “facendola fuori”).

  Ciò risulta in modo chiarissimo da alcuni indizi.

  Al proposito innanzitutto richiamerei l’intervista-testamento di Heidegger del 1966, ma edita solo – per sua volontà – dopo la morte, nel 1976: “Ormai solo un dio ci può salvare” (Guanda, 2011). Io interpreto il senso generale del testo così. L’Occidente si è lasciato inflazionare dalla volontà di potenza ciecamente intesa (nichilistica in senso regressivo), di cui la tecnica intesa come l’Assoluto – l’esclusivo, Mammona, eccetera – è il culmine, pericolosamente distruttivo e autodistruttivo. Il nazismo è considerato un capitolo di questa lunga storia, e purtroppo non sarà certo l’ultimo. Solo un mutamento di paradigma, cioè di mentalità dominante, potrebbe salvarci da una catastrofe annunciata (quella da me trattata nel mio romanzo d’idee “Kali Yuga. Il crepuscolo del nostro mondo”, Moretti & Vitali, nel 2014). Ma un tal cambiamento chiede una “conversione”, una profonda trasformazione nel modo di pensare, una trasmutazione religiosa dei valori.

Dopo di che richiamo l’attenzione su un libro bellissimo, ma purtroppo passato quasi sotto silenzio, che fa la storia culturale dell’emergere di una figura dell’anima contemporanea, o nell’anima contemporanea, che è (o sarebbe) appunto quella di Dioniso: Manfred Frank, “Il dio a venire. Lezioni sulla nuova mitologia” (1982), con Introduzione di Sergio Givone, Einaudi, 1994. Frank vede proprio in Dioniso l’archetipo del dio in incubazione, dal protoromanticismo ai giorni nostri.

Propongo due ultimi riferimenti: uno più “serio” e l’altra significativo in termini socioculturali.

 Il primo si connette al “Siva e Dioniso. La religione della Natura e dell’Eros. Dalla preistoria all’avvenire” (1979), Ubaldini, 1980, opera di un grande intellettuale diventato sivaita e yogin in India e da taluni, come il filosofo Pasqualotto, ritenuto il migliore nel campo: Alain Daniélou. Ora questi sostiene che Shiva non è niente altri che Dioniso; che i tratti dei due dei ne fanno un unico dio, che secondo lui sarà il dio del futuro: un dio della – e anzi nella – Natura, e impregnato di eros (ma anche di thanatos): un dio che tra l’altro, al pari di Demetra, dea delle messi (mentre lui lo è della vite), implica che proseguendo sulla linea anticipata dal Rinascimento si riscopra la santità della Madre Terra, ma pure di ogni forma di vitalismo creativo e di erotismo, che come nel tantrismo indiano, ma pure tibetano, è “una” delle forme di accesso al Sacro: un Sacro che risulta “vero” solo in stato estatico, come si sa dal tempo degli sciamani, ma anche dei mistici, dai misteri di Orfeo a oggi.

  Va anche notato che ciò ha pure un consistente lato ecologico, in specie in riferimento all’ecologia del profondo, da Arne Naess a Fritjof Capra; ecologia spirituale che integra quella sociale-politica, come ho mostrato nel mio libro del 2000 “Il mito della nuova terra. Cultura, idee e problemi dell’ambientalismo” (Giuffré).

L’ultima indicazione che do è “una piccola provocazione”: va a un romanzetto giallo, che però è stato letto da 85 milioni di persone nel mondo: “Il codice da Vinci” di Dan Brown, in cui si immagina che il cristianesimo storico, in specie cattolico romano, abbia nascosto e rimosso per millenni un cristianesimo primitivo in cui ci si univa a Dio tramite il coito, e in cui Cristo si era accoppiato con la Maddalena, e che sarebbe seguitato segretamente sino ai giorni nostri, mettendo in pericolo col suo erotismo scatenato come via alla salvezza eterna la chiesa ufficiale. Naturalmente è tutto inventato, enfatizzando qualche culto estremista iniziatico, marginale, di tipo tardo antico. Ma è significativo che questo romanzetto “dionisiaco” sia tanto piaciuto.

 Questa religiosità dionisiaca, che sembra in cammino, non è al di là del bene e del male in senso nichilistico, ma vuole conciliare kalòn (bello) e agathòn (buono), eros (amore) e ethos (moralità), vita istintuale e vita della coscienza morale, fondendo i due piani: solo che va ricordato sempre che il punto sintetizzatore infinito, partendo dalla volontà di vita o inconscio come cosa in sé del mondo, non può essere l’ethos (frutto della “coscienza”); che tra i due uguali (inconscio e coscienza), è il secondo, pur necessario, quello meno uguale, L’eros, o il kalòn, l’amore e la bellezza, ossia la riscoperta della santità degli istinti e della loro “grande salute”, abbisognano certo dell’Io vigile (coscienza) e dell’agathòn (bene), ma sono al primo posto nel processo di rinascita.

2 Commenti

  1. Sto intanto leggendo un libro bellissimo appena uscito, che certo La interesserà, caro Agnello: “Negli abissi luminosi. Sciamanesimo, trance ed estasi”, a cura di Angelo Tonelli, Universale Economica Feltrinelli, 2021. Il curatore, oltre che un grande ellenista, è un poeta, per cui le cose di cui parla, in cui “il dionisiaco” è assolutamente centrale, risultano assai accattivanti, oltre che interessanti. Per quel che riguarda me, forse avevo già pubblicato un’altra mia relazione, sempre su “Città Futura”, molti anni fa, ma avevamo altro server. Ci sono però molte pagine su ciò in alcuni miei libri, quali: “Il mito della nuova terra. Cultura, ideee e politica dell’ambientalismo”, Giuffré, Milano, 2000, specie al cap. IV (“Anima e terra nella grande cultura minoritaria dell’Occidente. Il mito del buon selvaggio e la Grecia della ‘Grande Madre’ e di Dioniso”, pp. 85-114); “L’avventura di Jung. Romanzo-verità”, Falsopiano, Alessandria, 2012, pp. 133-137, a proposito di uno scambio su ciò tra Jung e Freud nel 1910 (del mio libro c’é pure versione e-book); il cap. “Il mito della rinascita nella storia. Psicologia del profondo e ecologia profonda”, nel mio libro “Sentieri di rivoluzione. Politica e psicologia dei movimenti rivoluzionari dal XIX al XXI secolo”, Moretti & Vitali, 2010, specie al par. “L’inconscio da Edipo a Dioniso”, pp. 181-186. Buona lettura “eventuale”.

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