Idealismo e Materialismo nella Storia contemporanea

V

Quasi al termine del ragionamento che sto cercando di fare sin dalla prima parte del presente ciclo di riflessioni (quando ho preso a ragionare su “Marx, la religione e l’oppio dei popoli”), sorgono due questioni: una relativa al rapporto tra una visione materialistica integrale e la moralità nella storia; l’altra relativa ai tempi di decadenza in cui viviamo.

Materialismo, Idealismo e morale sociale

Procediamo dal rapporto tra materialismo e morale. Naturalmente l’idea che l’ateo non possa essere morale quanto o più del credente è un’idiozia allo stato puro. La moralità – persino per Hegel, che pure la sussumeva all’eticità (cioè al bene pubblico dal punto di vista dello Stato)[1] – è individuale. E già nel remoto 1963 io pubblicai, grazie a Pietro Lazagna, che era mio più maturo amico, un articolo sull’ateismo, cui ero allora molto favorevole, su un autorevole mensile cattolico di sinistra, “Il gallo” di Genova; comparve in un numero in cui il tema ricorrente era quello della religiosità (possibile) degli atei e dell’irreligiosità (possibile) dei credenti.[2] Posto ciò che è vero o falso a livello individuale – in cui il tasso di moralità dipende dalla capacità del singolo di attenersi a norme ritenute razionalmente valide per tutti, nonché dall’educazione, e dai casi della vita – va però approfondito il discorso da un punto di vista storico-sociale, o sociologico storico. Infatti noi possiamo ragionare di morale “alla Kant”, o anche alla Rawls, per stabilire “che cos’è morale” per un singolo, isolato come se fosse Robinson Crusoe (avrebbe detto con sarcasmo Marx), e compiere una ricerca rigorosa sulle condizioni razionali dell’esplicarsi della moralità per un singolo anonimamente considerato in una società astrattamente concepita: e allora la moralità prescinde, e addirittura deve prescindere, dalla religiosità, oltre che dalle religioni, il cui ineliminabile tasso d’irrazionalità, persino a fin di bene, può persino limitare l’esercizio di una moralità per ragioni puramente razionali[3].

Ma se parliamo di morale come stile di vita sociale, ossia in termini sociologico politici o socioculturali, un nesso tra religiosità e moralità c’è. Persino le persone vissute per decine di migliaia di anni con le loro credenze animistiche, quando le perdano si snaturano. La fine di una religione – ad esempio dell’animismo magico per l’uomo delle culture arcaiche, o del paganesimo per l’uomo tardo antico, o di “Dio” nel mondo dei tre monoteismi, o del “divino”, persino immanente nella mente e nella natura, nell’idealismo romantico, dopo il 1848 (o già alcuni anni prima), e poi sempre più in Occidente – è un elemento importante di perdita dell’identità collettiva (alias di morte dell’anima).

Talora la sintesi tra multisecolari credenze religiose e morali e un diverso mondo, quantunque sia sempre drammatica, riesce, come tra neoplatonismo e cristianesimo, all’ombra dello Stato e con la fede non interferente con la politica, nell’Impero romano d’Oriente, con la sua Ortodossia, durato dal IV secolo d.C. al 1453, quando i turchi travolsero definitivamente tale millenario assetto, pur da secoli in decadenza: un’Ortodossia per molti versi affascinante anche oggi, col suo Cristo pantocratore, pantòs kràtor, “energia del tutto”, non tanto diverso dall’Uno e Tutto di Plotino o Proclo[4]; ma il più delle volte lo scasso morale provocato dalla morte dei propri dèi o di Dio provoca catastrofi della civiltà. Spesso, tuttavia, per fortuna “il divino” – dalla cui realtà “per ora” prescindo, ragionando sugli effetti storici – rinasce dalle ceneri, agendo come un potente fermento vivificatore nella vita dei popoli, come il protestantesimo nel Nord Europa e negli Stati Uniti.[5]

Comunque pure la morale cristiana che c’era nelle zone rurali, ma anche cittadine, della Valle Padana è stata – lo ribadisco – un dato importante.

Ma così è oggi (ossia un dato decisivo), ad Occidente, anche la scristianizzazione, la “morte di Dio”, che secondo me ha un ruolo importante nella decadenza morale e spirituale dell’Occidente, esattamente come la perdita dello specifico animismo nelle culture arcaiche, o quella degli dèi, che il Virgilio di Dante diceva “falsi e bugiardi”[6], alla fine del mondo antico.

Se fosse stato possibile evitare la fine del mondo religioso che moriva o muoia sarebbe stato e sarebbe meglio; ma mi pare evidente che avrebbe potuto e potrebbe venir fatto solo rinnovandolo profondamente, con vantaggio per la morale sociale. Ma non sempre si è riusciti a farlo o lo si è fatto. In contesti di crisi di tutta una fede tradizionale – che quando decade, decade per molti buoni motivi – s’imporrebbe o una rivoluzione religiosa oppure una Riforma, che tiri fuori dalla tomba il Lazzaro che “sembrava morto”, o rivitalizzi con felice innesto la pianta quasi isterilita. Ma se ciò risulti impossibile, o non riesca, per me la decadenza morale, e per ciò anche politico sociale del “mondo” in cui accade, è irreversibile. Come nel 476 a Occidente. Si tratta di una questione da noi all’ordine del giorno da molto tempo. Persino l’attuale e apprezzabile tentativo di papa Francesco è un tentativo di “piccola Riforma”, che vorrebbe almeno realizzare a fondo la linea del Concilio Vaticano II in tutte le sue implicazioni, trovando – benché non basterebbe neppure – però resistenze smisurate, che forse preludono a nuove, controproducenti, forme di restaurazione (e, ancora una volta, crepi l’astrologo, cioè chi scrive: ma non tanto presto).

Ma torniamo al grande tema della “morte di Dio” in Occidente. Si sa che Nietzsche era un ateo militante radicale, oltre che un grande filosofo della morte di Dio; ma egli sapeva anche che la perdita di Dio – cifra rivelativa pure della perdita di un Vero in qualche modo universale (che è poi il dato che conta di più) – sarebbe stata fonte non già di nichilismo “gaio” (come l’ha detto il per altro molto acuto, e suo maggior studioso italiano, Gianni Vattimo[7]), ma di un nichilismo tragico[8].

Dopo aver sperimentato molte cure del cancro della modernità capitalistica, risultate cure “Di Bella” (per noi il socialcomunismo, per altri un diverso finalismo), oggi a mio parere siamo precipitati nel più puro nichilismo (per la cui comprensione rinvio al bel libro di Franco Volpi[9]). È il nostro “crepuscolo degli dèi”, connotato da forte nichilismo, per me preludio o di una profonda rinascita del dio morente o morto (Cristo), o di un nuovo senso del divino, dell’infinito e dell’eterno in noi e nella natura; oppure di catastrofi, già evidenti oltre che possibili in forme peggiori, legate a una sorta di impazzimento morale, appunto ad una sorta di morte dell’anima, la cui “cifra” si può eventualmente chiamare “nichilismo”. Questo nuovo modo di essere viene pure detto “pensiero liquido”[10], ma non importano i nomi. Io credo che questo non sia il destino senza dio dell’Occidente moderno, ossia l’avvento fatale dell’era del “disincanto” (come pensava Weber)[11], ma una fase della storia in cammino. Secondo me verrà superata, come sempre, ma non possiamo sapere né quando né, soprattutto, a quale prezzo. Questo prezzo potrebbe essere, a lungo andare, spropositato.

Tutto ciò può piacere o dispiacere. Si può pure sperare che il cristianesimo mezzo morto dell’Occidente si rianimi (presumibilmente con una nuova Riforma che per ora serpeggia, forse dall’idealismo romantico, e soprattutto da Schelling e Hegel in poi, ma che è una Riforma poi non cresciuta su larga scala, tanto che “il piccolo” invece di rinascere in una mangiatoia, o altrove, è abortito; ma “la mamma” Storia non è sterile). Infatti, per ora, la grande crisi del cristianesimo appare galoppante, anche se una sua ulteriore “renovatio”, che in fondo era in cima alle intenzioni profonde di Hegel (ma già di Fichte e Schelling, per non dir di Goethe, Schiller, Lessing e Hölderlin), non è da escludere. E tutto ciò costituisce un aspetto non unico, ma importante, della grande crisi che semplificando ho detto appunto nichilistica (in cui siamo).

Certo possiamo pure autoconvincerci che viviamo nel “migliore dei mondi possibili”, come diceva il filosofo Pangloss di Lipsia nel Candido di Voltaire, che canzonava Leibniz, però sottovalutandone le forti argomentazioni filosofiche[12]. Potremmo benissimo fare l’apologia dei tanti Pangloss dei nostri tempi. Potremmo benissimo concordare, cioè, con chi mette in luce i tanti lati buoni del nostro mondo globalizzato: dall’abbondanza dei beni di consumo alla continua espansione delle democrazie (che già l’ultimo Bobbio sottolineava). Potremmo pure aggiungere la sconfitta di tanta mortalità infantile nei paesi da molti secoli alla fame, e che stanno meglio nel contesto della globalizzazione, anche se questo gran bene prelude a migrazioni dall’Africa verso l’Occidente che pare che, nei prossimi cinquant’anni, data la crescita demografica prevista nel continente nero, saranno di centinaia di milioni di persone.

Certo il progresso che c’è stato nel mondo “globalizzato” è notevole. Potremmo persino giungere a dare a tutti il minimo vitale, a livello planetario, a prescindere dal lavoro, magari tra cento anni, o persino meno. Non è affatto escluso. Ma chi insiste su tali lati buoni, non vede il rovescio della medaglia (quel che rovina la bella festa delle “magnifiche sorti e progressive”, che pure ci sono).

Viviamo, infatti, in un mondo che non ha più l’ordine mondiale, come la vecchia Europa dei grandi imperi l’aveva avuto dal 1871 al 1914; e come il mondo dei fratelli-coltelli russo-americano l’aveva avuto dal 1945 al 1991 (anche se tutto scricchiolava dal 1968). Il nostro papa Francesco parla di una “terza guerra mondiale a pezzi”. E siccome il meccanismo del capitalismo resta dai tempi di Marx quello simboleggiato nel simbolo DMD’ (denaro accumulato – merce – più denaro), implicante un’espansione continua (senza di cui non ci sarebbe profitto), devastiamo il pianeta senza poterci fermare, con rischi di catastrofe ecologica sempre più gravi. Siccome i patti senza potenza costrittiva che li faccia rispettare, negli Stati come tra gli Stati, sono sempre stati delle “grida” di manzoniana memoria, ci vorrebbe una legislazione universale col potere d’imporla; ma non c’è affatto, e per molto tempo non ci sarà, anche se io, per ragioni già abbozzate da Kant in Per la pace perpetua (1795)[13], non dubito del fatto che tra cent’anni sarà proprio così. Avremo lo Stato mondiale. Ma che potrà accadere “prima”?

Nel frattempo assistiamo a due fenomeni che trovo o preoccupanti o terribili, anzi assolutamente terribili. Da un lato siccome né gli Stati né – tantomeno – i cittadini possono accettare di perdere il controllo almeno rilevante dell’economia interna – quintessenza di ogni Stato moderno dall’inizio della sua nascita, tra il XIV e XVI secolo, dove arrivò – assistiamo ad una vera RESTAURAZIONE MONDIALE, che vede il mix tra nazionalismo e populismo al potere in quasi tutti gli Stati minimamente importanti del mondo. Il nazional-populismo dilaga a livello planetario. L’umanità, provando a reagire ai grandi guai – oltre che ai benefici – della globalizzazione e della rivoluzione elettronica, non riuscendo a fare di meglio nelle aree “più o meno” capitalisticamente avanzate, sta provando a tornare indietro. Credo – come sempre in tali casi – invano. E – parallelamente a ciò – dilaga appunto un nichilismo senza precedenti, in cui tutto sembra uguale.

L’Italia: un grande e democratico Paese sempre in cammino, pure contro il “Coronavirus”, ma con uno Stato in decadenza

L’Italia, come sempre, è un bel laboratorio, nel “bene” e nel “male”, in Occidente. Ciò posto, che vediamo oggi?

Qui abbiamo un ceto politico che non ha avuto uguali, in termini di pochezza dei “capi”, negli ultimi trecento anni: sempre più inadeguato, incompetente e con scarso senso dello Stato e del bene pubblico di prospettiva (o “sempre più” così): tanto che quando arriva un leader veramente capace sembra Cavour o Mussolini o De Gasperi mentre è Matteo Renzi o addirittura Giuseppe Conte, o domani Matteo Salvini. Manca poco che Giorgia Meloni, che certo è una politica in gamba, in “questo” contesto, sembri Rosa Luxemburg o, dati i suoi gusti, Margareth Thatcher.

Anche la recente epidemia di Coronavirus non è certo esplosa per colpa del governo, e la società civile l’ha fronteggiata in modo nell’insieme notevole, ma la classe politica, pur avendo cercato di dare il meglio di sé, ha pure evidenziato la sua storica, e abbastanza trasversale, debolezza, l’incertezza tra poteri dello Stato e soprattutto i limiti del bislacco regionalismo concorrente con il potere centrale, in base a un’innovazione costituzionale che pur essendo venuta da sinistra io non ho votato nel referendum confermativo di parecchi anni fa. Ma il ceto politico che ci troviamo non è un’eccezione “decadente” dell’Occidente, ma lo specchio del suo “tramonto” o decadenza. L’Italia è sempre uno straordinario laboratorio di quel che bolle in pentola, nel “bene” e, ahinoi, anche nel “male”.

Il punto è che tutta questa nostra crisi politica italiana è anche di identità socioculturale. Abbiamo gente che può dire tutto e il contrario di tutto, nel più puro trasformismo. Qui Agostino Depretis, che nel 1876 “inventò” il trasformismo, verrebbe preso per un idealista. Uno può fare la campagna elettorale giurando che non governerà mai con questo o quel partito e un mese dopo farlo in un senso, e poi pure nel senso opposto. Non ci si fa neanche più caso: “così fan tutte”. Un premier può governare con l’estrema destra e l’anno dopo con la sinistra, e persino con la pretesa estrema sinistra, e domani chissà. Uno può essere prima l’eroe del maggioritario e della governabilità, e poi accettare la proporzionale pura. Uno può fare il forcaiolo in combutta con un ministro degli Interni di destra e poi cercare di mandarlo in galera perché l’ha fatto se abbia rotto con lui. Uno può confondere il Cile di Pinochet con l’Argentina e non sapere come si chiama il presidente della Cina o dialogare con i “gilet gialli” di Parigi, e poi fare il ministro degli esteri. E viceversa. Abbiamo ridotto il passato a piccola retorica, mentre i bambini profughi della guerra in Siria, “liberati” dai “campi” turchi, tra Turchia e Grecia cercano di suicidarsi. Tutti vogliono l’onestà, ma cominciando dagli altri (persino i tassati, che mentre evadono ogni giorno l’IVA da soli o in combutta col loro commercialista, sono furibondi con gli evasori, naturalmente “grandi”). Abbiamo come primo partito in parlamento, dal 2018, i dilettanti più dilettanti degli ultimi secoli. Ma non ci sono solo loro. Abbiamo persino avuto una maestra d’asilo sullo scranno da ministro dell’Istruzione su cui aveva seduto Giovanni Gentile. Non è difficile capire come finirà.

Sembra cucina italiana, ma noi siamo l’avanguardia (in quest’Europa, o Occidente, della decadenza, o del Basso Impero).

Una crisi innanzitutto spirituale della civiltà occidentale

Il punto chiave, che è l’origine pratica del mio anti-materialismo teorico, è che solo un mutamento di mentalità di proporzioni inter-soggettive potrà far cambiare strada a questo pazzo pazzo mondo, di cui l’Italia ovviamente è solo un pezzetto, per quanto molto importante nell’equilibrio o squilibrio dell’Europa (la quale qualcosa, nonostante tutto, nel mondo conta). Ma un tale mutamento implica una conversione (non nel senso di un Credo, ma nell’approccio alla realtà, nella mentalità profonda). Con la mera dinamica dell’economia e degli Stati, che tendono alla sregolatezza e all’entropia, non se ne esce. Per quella strada secondo me, nonostante i mille progressi di cui si è detto, andiamo tutti a sbattere: infatti accumuliamo sì benefici per tutti, ma anche fattori di crisi sempre più numerosi e gravi fuor di controllo. Balliamo sulla tolda del Titanic. Siamo i “sonnambuli” prima del 1914[14]. Questo è ciò che temo io, ovviamente sperando con tutto il cuore di sbagliarmi o, come si suol dire, di “vedere nero” (ma non lo credo, ché anzi la mia attitudine caratteriale, come pure ideale-culturale, è sempre stata “prospettica” e “progressiva”, niente affatto pessimistica). Che cosa se ne evince, sul piano dei “massimi sistemi”, creduti astratti, ma necessari a navigare, cioè a orientarsi politicamente, come le costellazioni in cielo per gli antichi naviganti?

Per me non è risultato vero che la coscienza dipenda dall’essere sociale (come pensò Marx, con tanti altri, dal 1845), ma è anzi vero proprio l’opposto. E se non fosse così – se la mente fosse “tabula rasa”; se in noi a priori non fosse latente niente che vada al di là dello spazio e del tempo; se prima dell’esperienza o al di là di essa, almeno latentemente, come un interruttore in attesa di essere acceso, o un “tesoro nascosto”, o “perla nel mare” avrebbe detto Cristo, o come archetipo dell’infinito avrebbe detto Jung[15] – non ci fosse niente; se non ci fosse una scaturigine di incessante creatività, allora saremmo costretti, come humanitas, ad andare tutti “a fare in culo” (come diceva anni fa Beppe Grillo): perché per la strada del mutamento socio-politico i tentativi di “mutar strada” sono falliti tutti negli ultimi centosettant’anni, sicché gli elementi autodistruttivi – pur in mezzo ai progressi straordinari – sono progrediti a dismisura. Se non sarà possibile superare il capitalismo, che vuole sempre più denaro, e per ciò “più” sviluppo, anche devastando il pianeta; e se non sarà possibile superare la “logica” di pura potenza degli Stati in competizione nuovamente sregolata, mutando la mentalità, che per me li sorregge entrambi, e che sinora li ha resi come sono sempre stati, potrà arrivare – come ho detto estremizzando per farmi capire – una catastrofe come quella del 476, quando crollò l’impero romano d’Occidente. Secondo me se seguiteremo così accadrà, o sarà ben possibile che accada, entro una cinquantina d’anni, come ho sostenuto nel 2014 nel mio romanzo d’idee e distopico Kali Yuga. Il crepuscolo del nostro mondo.[16] Certo oggi ne siamo ben distanti. Ma se al tempo degli ultimi imperatori qualcuno avesse detto a un intellettuale di quei tempi che tutto avrebbe potuto crollare entro un secolo o due, forse quello avrebbe risposto che a Roma, e pure in Italia, non erano mai affluite tante ricchezze, e che c’era un diritto romano che governava il mondo e che estendeva sempre di più la cittadinanza ai popoli che riuniva. Senza capire che si stava seduti su un vulcano da cui fuoriusciva già lava in gran quantità.

Dovremmo convertirci comprendendo la nostra fratellanza ontologica, superando la nichilistica volontà di potenza dell’Occidente, arrivata allo zenith, e comprendere di essere esseri nell’Essere. Non è certo facile, ma nella storia della civiltà mutamenti del genere ci sono pur stati: in grande stile nel passaggio dal Neolitico alla “Storia”, ma in modo meno forte, e però cospicuo, tramite rivoluzioni religiose, come ha spiegato Hegel anche nella sua filosofia della storia, oltre che nelle lezioni di filosofia della religione[17]. Ciò si chiama “Riforma”, oggi necessariamente al di là del dualismo dei tre monoteismi, ritrovando dio (o “Dio”), o l’infinito ed eterno, nella mente che è in noi e nella natura tutta, come Schelling e Hegel (e Schelling forse persino più di Hegel) sapevano, ma senza che essi fossero, o potessero trovare, un Lutero o Calvino capace di socializzare i loro ideali “neo-religiosi” (perché di questo e solo di questo sto parlando). Ci vorrebbe un Lutero o Calvino dell’immanenza dell’infinito ed eterno, nel nome di Cristo o di non so chi o che, nella nostra mente e nella natura, Vivente “della” e “nella” vita.

Su questo ci sono pagine molto interessanti, ma alla fine non convincenti, del Gramsci dei Quaderni del carcere. Gramsci paragonava il rapporto tra Erasmo da Rotterdam e Lutero a quello tra Hegel e Croce e Gentile (da un lato) e Marx e Lenin, e forse lui stesso (dall’altro). Paragonava la relazione tra i due gruppi a quella tra chiesa di Cristo e chiesa di Paolo e compagni, in riferimento alla religione secolarizzata e atea del comunismo. Il più grande intellettuale del Rinascimento, Erasmo, aveva spianato la strada a Lutero e Calvino (pur contraddicendo la Riforma), e Hegel l’avrebbe positivamente spianata a Marx e Lenin (pur essendo un conservatore e non certo un rivoluzionario). Ma Gramsci, nel suo accanimento nell’affermare una fede redentiva senza Dio, cioè nel suo assoluto laicismo, sottovalutava proprio il punto chiave: il lato neoreligioso “in senso forte” della faccenda nell’idealismo romantico culminato in Hegel. Infatti Gramsci – rimuovendo proprio lo Spirito Assoluto, come già avevano fatto la sinistra hegeliana e il marxismo – pensava ad una Riforma solo politico-sociale, in cui l’elemento spirituale, “mitico”, “ideale”, fosse appena un senso di viva partecipazione militante (in sostanza “il Partito”, il “Nuovo Principe”, vero idolo dei comunisti). Hegel, e comunque i suoi continuatori neoidealisti contemporanei, aveva posto la questione di uno Stato che realizzasse il bene comune, l’eticità; ma secondo Gramsci, come secondo Marx e compagni, l’aveva fatto da interprete del mondo, da filosofo, da sapiente più o meno lontano dalla prassi, cioè alla Erasmo da Rotterdam, precursore della Riforma eppure al dunque contro Lutero. In pratica, per Gramsci, Erasmo stava a Lutero come Hegel-Croce-Gentile stavano a Marx, Lenin e pure Gramsci. L’ideale dell’eticità intesa come bene comune, Stato di tutti e di ciascuno, posto dalla nuova Riforma in cammino (da Hegel), avrebbe potuto realizzarsi solo in un nuovo Stato dei lavoratori-cittadini, su cui Gramsci riversava, al pari del marxismo, l’ansia redentiva, spostata dal Sacro alla politica. In pratica Marx e Lenin teorizzavano e venivano realizzando l’eticità, però in senso orizzontale e non solo verticale[18]. Lo Stato proletario realizzava lo Stato come bene comune, lo Stato etico, “per” e soprattutto “di” tutti, avvalorando l’idea del proletariato “erede della filosofia classica tedesca”, realizzatore dell’intersoggettività, di cui aveva parlato Engels nel 1888[19]. Ma è stato così? La “nuova Riforma” senza Dio e in cui lo Stato è il lavoratore-cittadino collettivo, è stata realizzata?

Io assumo il sottilissimo ragionamento gramsciano e lo svolgo in maniera un poco diversa. Prendo atto del fatto che la Riforma di Marx e Lenin è fallita, prima tramite la rivoluzione autoritaria di Lenin e poi attraverso la rivoluzione contro la rivoluzione di Stalin, implosa nel 1991 in Russia e in tutto l’impero sovietico, e comunque prendo atto delle disfatte continue della rivoluzione proletaria in Occidente per centosettant’anni consecutivi. E mi chiedo il perché.

Ci sono state tante ragioni materiali. Ma trovo che abbia pesato molto un’ottica incentrata sull’annientamento del Nemico, polemologica invece che progettuale e costruttiva. M’interrogo sulle cause da cui è emersa l’ottica che affidava all’abbattimento del “Nemico” (qui il capitalismo: “la borghesia”), il superamento dei mali nel mondo. Opino che questa visione, che affidava il mondo nuovo da fare alla distruzione del passato, o ad un’antitesi illimitata col mondo vecchio, sia venuta dalla sinistra hegeliana e da Marx: in specie da una visione “senza dio”, cioè senza una dimensione “d’essere”, in cui il divino o “Assoluto” ci sia, in modo tale da accomunare a monte e a valle tutto il processo storico, tutti i soggetti, anche necessariamente contendenti, come “armonia dei contrari, come quella dell’arco e della lira” avrebbe detto Eraclito. In sostanza nel materialismo – marxista e non marxista – in ciò e forse solo in ciò incompatibile col trio idealistico Fichte Schelling e Hegel – veniva a cadere “in partenza” il Logos, che i cristiani avevano detto essersi fatto uomo (scoprendo per tal via, secondo Hegel, la divino-umanità dell’uomo); ma senza questo “Spirito infinito” quantomeno immanente in noi come nella Natura, e sentito comunemente così, l’umanismo è un’illusione e l’uomo è destinato a essere – come avrebbe detto poi Sartre – un “dio mancato”, ma anche un nichilista sempre in agguato, qual era lo stesso Sartre persino quando era comunista o libertario di sinistra[20]. Se invece un tal dio – alias la coscienza di una divino-umanità comune (seppure diversa – per me – in ciascuno) – resta dove ha da essere (nella nostra mente e inconsciamente in ogni altra specie vivente, cioè come radicale della vita, pure inconscio, ma in noi anche svelabile nella coscienza), allora la competizione si fa fraterna, eventualmente persino quando sia estrema, come per Omero la lotta tra Achei e Troiani nell’Iliade; e l’uomo può anche arrivare a capire – in fondo come quei primitivi cari a Rousseau e all’antropologo Morgan[21], ma al più alto livello di sviluppo – che c’è un divino così decisivo da riempire la vita di ogni uomo, rispondendo a problemi come la morte e il senso del vivere: un infinito eterno al di là dello spazio e tempo, in tutti noi, che è il solo che potrebbe indurci – come già faceva e fa, ma al più basso livello, nelle culture arcaiche – a credere che ci sono cose più rilevanti, importanti, belle e buone, del voler fare sempre più soldi, e quindi più merci, per un consumo, bulimico, che distrugge addirittura l’habitat umano e innumerevoli specie al giorno (oppure più importante del potere, detto “meglio del fottere”, ma dalla criminalità organizzata).

L’uomo può convertirsi. E applicandosi alla politica l’uomo che “al di fuori della politica”, in una sfera tutta sua ma che vale per ciascuno, abbia compreso il deus interior – l’infinito immanente, l’umano-divinità e natura-divinità – può giungere a comprendere che il modo per rivoluzionare il mondo consiste nel fare progetti realizzabili, e nel battersi anche per una vita per realizzarli davvero, tanto a livello di società che a livello di Stato; e che la relazione che porta da un sistema all’altro non è la distruzione dell’altro da sé, ma la costruzione (per quanto audace possa essere). Non potrebbe neanche passargli per la testa che per far trionfare la propria causa si debbano sterminare gli avversari (persino senza “farli fuori” fisicamente), se non in condizioni razionalmente spiacevolissime, che di tanto in tanto possono imporsi, ma che sarebbe meglio evitare, e far finire più presto che si possa: sicché se durano a guerra vinta – non per giorni ma per mesi o anni – sono assassinii ingiustificabili; e che l’idea del fare la libertà attraverso l’autoritarismo è un’assurdità assoluta, a meno che non sia una parentesi storica da far durare il meno possibile, come la guerra (sicché chiunque renda stabile l’autoritarismo, per qualunque ragione al mondo, è un nemico della libertà, e non ci son santi per dire il contrario, e dirlo va anzi visto come prova di idiozia allo stato puro, salvo i rari casi, cui talora Togliatti indulgeva per “ragion di Partito”, in cui sia detto mentendo sapendo di mentire).

L’idea socialista nel XXI secolo

Ma per comprendere la falsità dell’idea che il cosiddetto bene venga non dal fare cose buone, ma dal distruggere quelle cattive e dunque “i cattivi” (diciamo pure “i nemici”, per non scadere nel moralismo vano), bisogna persuadersi non solo del fatto che siamo tutti esseri umani – il che è molto, e però di per sé non basta – ma che non siamo affatto solo un mucchietto di atomi: perché c’è dio in noi, che è poi la mente umana nella sua infinità, cui a modo proprio tutti partecipiamo. Ciascuno di noi “la è”[22], ma non più come mente “aggiunta”, o che “abita” in noi come Dio che ci trascende (come diceva Agostino[23]), ma come mente latentemente infinita in tutti e in ciascuno: coscienza/inconscio di tipo infinito, che certo in noi è emersa dal mondo animale, che in modo inconscio, e in parte forse come nostro inconscio, c’è pure nei viventi: sicché tra umani – per la mente infinita che ci accomuna – siamo un solo essere “amabile”, siamo fratelli e sorelle; e siamo cugini con le altre specie, dalle più affini alle più lontane, per l’inconscio collettivo che ci accomuna; e di tutti, e tutto, dobbiamo farci carico, nella grande interdipendenza dell’essere vivente, Uno-Tutto e anzi Uno-Tutti.

A me sembra di intravedere, per tale via, anche i tratti di un nuovo socialismo in cammino: 1) spirituale; 2) rosso-verde; 3) di realizzazione dell’inter-soggettività in ogni soggettività individuale, prima e oltre che nell’intersoggettività; 4) ecologico; 5) fondato sulla liberale divisione e interdipendenza, ma anche sulla governabilità, a livello di Stato; 6) e volto a fare “Stati di Stati” nei continenti e tra i continenti, garantendo così la sana vivibilità nel pianeta e la pace nel mondo.

Tutto questo però dovrà essere dimostrato e argomentato filosoficamente e politologicamente punto per punto. Andiamo avanti.

di Franco Livorsi

  1. G. W. F. HEGEL in Lineamenti di filosofia del diritto (1821), a cura di G. Marini, Laterza, 1987, distingue tra diritto, moralità ed eticità, come fasi dello “spirito oggettivo”, ossia del Logos esternato nelle istituzioni. La famiglia vi è intesa come istituzione naturale, basata sull’amore tra i membri; la moralità come conformità al bene di tipo individuale, e l’eticità come il bene collettivo, per lui impersonato dallo Stato, che comprende, ma sussume, gli altri due livelli.
  2. F. LIVORSI, Ateismo etico storico e problema dei cattolici, “Il gallo”, a. XVII, n. 12, dicembre 1963, pp. 13/16.
  3. I. KANT, Critica della ragion pratica (1788), cit.
  4. Si veda ad esempio: P. EVDOKIMOV, L’Ortodossia, Edizioni Dehoniane Bologna, 1981. Sarà il caso di ricordare che questa era la fede cristiana di Dostoevskij.
  5. J. RAWLS, Una teoria della giustizia (1971, e poi 1999), Feltrinelli, 2008.
  6. DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia: Inferno, canto I, v. 70.
  7. G. VATTIMO, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione umana, Bompiani, Milano, 1994; Dialogo con Nietzsche. Saggi 1961-2000, Garzanti, Milano, 2000.
  8. F. NIETZSCHE, Gaia scienza (1881-1882), cit.
  9. F. VOLPI, Il nichilismo, Laterza, Roma-Bari, 1996 e poi 2004. Ma si confronti con: S. GIVONE, Storia del nulla, ivi, 1995 e poi 2003.
  10. Z. BAUMANN, Modernità liquida, Laterza, 2006; Vita liquida, ivi, 2006.
  11. M. WEBER, Sociologia delle religioni (1920/1922), a cura di A. Sebastiani, UTET, 2008.
  12. VOLTAIRE, Candido (1750), trad. di R. Bacchelli, Mondadori, Milano, 1953.
  13. I. KANT, Per la pace perpetua (1795), a cura di N. Merker e con Prefazione di N. Bobbio, Editori Riuniti, Roma, 1968.
  14. H. BROCH, I sonnambuli (1931/1932), Mimesis, Roma, 2017.
  15. MATTEO, 13, 42-52.
  16. F. LIVORSI, Kali Yuga. Il crepuscolo del nostro mondo, Moretti & Vitali, Bergamo, 2014.Nel ritenere possibile, non fatale (credo io), un esito catastrofico sono in buona compagnia, sol che si vada: C. LÉVI-STRAUSS, L’uomo nudo, Il Saggiatore, Milano, 1974. Ora da confrontare con: S. D’ONOFRIO, Lévi-Strauss e la catastrofe. Nulla è perduto, possiamo riprenderci tutto. Mimesis, Milano, 2020. Su ciò Elisabetta Moro in: Lévi-Strauss, il realista: l’uomo non è buono, “Corriere della Sera – La lettura”, 9 febbraio 2020, notava “che l’autore di Tristi tropici”, di cui L’uomo nudo era l’ultimo volume, “non credeva nella bontà dell’uomo ed era convinto che gli errori e gli orrori dell’umanità avrebbero finito per far estinguere la nostra specie. Al punto che nel finale de L’uomo nudo pronostica che la Terra continuerà la sua traiettoria nel tempo senza più esseri umani a bordo. Ma questo pessimismo non gli impediva di avere una grande fiducia nelle potenzialità dell’intelligenza umana.”
  17. Fortemente compreso dell’idea che il cristianesimo ruoti attorno all’idea della scoperta dell’uomo come composto indissolubile tra infinità e finitezza (poi sviluppata dal IV Vangelo a lui stesso), ossia della divino-umanità dell’uomo (a partire dalla doppia natura di Gesù Cristo “vero Dio e vero uomo”, culminante nella scoperta, che egli attribuiva soprattutto a se stesso, del Logos o Ragione assoluta, infinita, immanente in noi, e discendente in noi nei sensi e sentimenti come nell’intelletto astraente (anche se si scopre “dopo”, ma essendo al lavoro in noi “ab ovo”), Hegel era persuaso che il divenire della visione del divino scandisca e determini la storia umana. Le vere svolte nella storia umana sarebbero quelle “religiose”, culminate nel protestantesimo, e, per così dire, nel suo protestantesimo immanentizzato. Tale concezione è chiarissima, e ampiamente svolta, in G. F. W.. HEGEL, in: Lezioni sulla filosofia della religione, svolte tutti gli anni a Berlino dal 1821 al 1831, ed edite in forma rigorosa una prima volta nel 1925, a cura di G. Lasson, in testo tradotto in italiano a cura di E. Oberti e G. Borruso, Laterza, 1983, in tre volumi: ora però da confrontare, con l’edizione filologicamente più rigorosa, a cura di W. Jaeschke del 1983, col titolo Lezioni di filosofia della religione, in it. a cura di R. Garaventa e S. Achella, Guida, Napoli, 2008, due voll. Ma la stessa visione ha pure riscontro nelle lezioni sulla filosofia della storia di HEGEL, riproposte infine in base alla versione meglio messa a punto, del 1822-1823, Filosofia della storia universale, a cura di K. H. Ilting, K. Brehmer, H, N, Seelmann e con Introduzione di S. Dellavalle, Einaudi, 2001, ove a un certo punto dice espressamente: “… senza cambiamento della religione non può avvenire alcun vero cambiamento politico, non può avvenire alcuna rivoluzione” (p. 532).
  18. Per Hegel lo Stato è l’incarnazione della volontà generale dei cittadini, il Bene per tutti e ciascuno, l’eticità, ma in senso verticale, ossia in una visione gerarchica, in cui il punto di sintesi supremo era il monarca, il capo dello Stato (“visione verticale”); il marxismo, da Marx a Gramsci, mirava allo Stato intersoggettivo allo stesso modo, ma con esercizio effettivo della sovranità da parte dei lavoratori-cittadini (visione “orizzontale”).
  19. A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, edizione dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, einaudi, 1975, quattro volumi. Si vedano in particolare: Quad. 7 (VII), 1930-1932. Appunti di filosofia, vol. 2, pp. 852-853, Q. 10 (XXXIII), 1932-1935. La filosofia di B. Croce, vol. II, pp. 1293-1294, e altri luoghi.
  20. Il tema dell’uomo come “dio mancato” è in: J.-P. SARTRE, L’essere e il nulla (1943), a cura di C. Del Bo, Mondadori, Milano, 1964.
  21. J.-J. ROUSSEAU, Discorso sulle scienze e le arti (1750) e Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini (1754), in: “Scritti politici”, a cura di P. Alatri, UTET, Torino, 1969, pp. 207-370. Si confronti con: L. H. MORGAN, La società antica. Le linee del progresso umano dallo stato selvaggio alla civiltà (1877), Feltrinelli, 1970. Da Morgan deriva poi: F. ENGELS, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884), Editori Riuniti, 1973.
  22. Il tema “tu lo sei”, nel senso di “Tu sei dio”, “Tu sei l’Atman”, che è il tuo Sé, è tipico dell’induismo e in specie delle Upanişad, la parte più dottrinaria dei Veda. Su ciò si veda pure: F. LIVORSI, Il Sé dalle Upanişad a Jung, “Il Ponte”, a. LXXIII, n. 4, 2017, pp. 93-106.
  23. AGOSTINO, La vera religione (387/396), con testo latino a fronte, a cura di M. Vannini, Mursia, Milano, 1987.

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