Il punto di partenza

[La serie di riflessioni che vengo pubblicando qui dal 28 dicembre 2019 – a partire dall’articolo Karl Marx e la religione come “oppio dei popoli” – che l’amico Nicola, d’intesa col direttore (Pier Luigi Cavalchini), non solo “riversa” in questo nostro giornale on-line, ma raccoglie anche in uno spazio speciale intitolato La Filosofia del Socialismo, costituisce un insieme. Nella mia intenzione questi singoli pezzi “semilavorati” costituiscono capitoli di un discorso unitario, come spero alla fine risulterà. Ma con i lavori “in progress” è talora inevitabile tornare indietro. Così ora ho deciso di porre “in capo” ai testi della serie già comparsi, tre, o forse alla fine quattro, articoli che vengono logicamente prima di quelli comparsi, concernendo soprattutto la filosofia idealistica, anteriore a Marx: tanto che se sarà tecnicamente possibile dovrebbero essere riversati – nell’area La filosofia del Socialismo – come primo, secondo, terzo e forse quarto, rispetto a quello comparso per primo il 28 dicembre 2019. Sarà Nicola, redattore di questo giornale on-line, a vedere se si possa fare; e se no, non importa tanto, perché alla fine della serie spiegherò comunque io, in una sorta di indice ragionato finale, quale dovrà essere la successione ideale dell’insieme (f.l.)].

Sin dagli anni della grande crisi del comunismo – crollato da Berlino a Vladivostock tra il 1989 e il1991 – io mi persuasi che quella crisi dovesse essere considerata non solo politico-sociale, ma anche della filosofia connessa al mondo imploso (palesemente al termine di un lungo cammino della corrente di pensiero e politica iniziata nel 1848 con il Manifesto del partito comunista di Marx e Engels[1]). Quella filosofia – che oltre al comunismo aveva alimentato, e forse sotterraneamente ancora alimenta, pure la socialdemocrazia – era, e in parte è, Il materialismo. Persino oggi sussiste, come residuo, quale importante punto debole della tendenza. Allora, per quanto l’avessi amato e lo amassi come marxismo, cantai il mio “De profundis”[2].

Questo materialismo si era espresso ed esprime in una serie di persuasioni diffuse o elaborate, per moltissimi pressoché ovvie, che dal più al meno possiamo riassumere nei seguenti punti: 1) Al di là dello spazio e del tempo non c’è nulla; 2) Ci sono solo corpi che si disfano, e “morto io, sono morti tutti”; 3) Siamo solo un mucchietto di atomi, che si è aggregato e si disgregherà per sempre; 4) Non c’è nulla nella coscienza che prima non sia stato nei sensi, per cui la possiamo ben dire, in sé e per sé. una tabula rasa; 5) Oltre che esseri totalmente condizionati dalla biologia, siamo totalmente condizionati dal nostro essere – o esistenza – sociale (sicché il singolo in quanto singolo è un’astrazione, una velleità e una pretesa), e in particolare siamo totalmente condizionati dal nostro essere economico, per cui “non è la coscienza a determinare l’essere sociale, ma è l’essere sociale a determinare la coscienza”[3]; 6) Chi vuole cambiare le cose deve dunque cambiarle innanzitutto a livello economico sociale, e il resto gli sarà dato in sovrappiù; 7) Bisogna per questo togliere dalla scena sociale gli agenti patogeni che ci fanno star male (i “padroni”), o almeno introdurre buone riforme, magari non risolutive, nella logica riformista per cui è meglio un uovo oggi che una gallina domani.

Tutto questo è semplice e chiaro, e può essere chiamato materialismo, il quale poi assume tante caratteristiche: dal materialismo economico e storico a quello filosofico, giù giù sino alle forme di materialismo morale (detto anche “volgare”), di chi pensa, a sinistra come a destra, che sia del tutto normale fare i propri interessi, se possibile facendo arrivare qualcosa di buono anche agli altri, ma solo dopo essersi ben serviti (tanto in termini economici che di potere personale). Questo modo di pensare è oggi assolutamente diffuso, sino a ingenerare forme di individualismo così elementari e radicali da risolversi persino in nichilismo. Chi contraddica tali “ovvietà”, o pretese ovvietà, rischia persino di passare per stupido: anche se in superficie sembrano prevalere i filistei, che “si fanno persuasi” – come direbbero in Sicilia – di non pensarlo, ossia quelli di cui il Kean di Sartre diceva: “Gli uomini seri hanno bisogno d’illusione; fra una ruberia e l’altra, essi amano credere che si possa vivere e morire per qualcos’altro che non sia il formaggio”[4]. Ma possiamo lasciar stare la gente in malafede persino con se stessa, “truccata per natura”, e prendere atto del fatto che ormai quasi per tutti farsi gli affari propri – e solo ben dopo occuparsi “eventualmente” del prossimo – sembra “normale”.

In proposito io vorrei essere onesto sino in fondo, ammettendo che, per quanto sia triste, potrebbe anche essere vero. Ma se fosse vero, se non ci prendessimo per il bottom da soli dovremmo appendere la durlindana, lo spadone, al chiodo, e dirci che dobbiamo attenerci un po’ malinconicamente a ciò, in attesa della morte, coltivando “il nostro giardino” (come diceva Voltaire nel 1759, alla fine del suo meraviglioso romanzo satirico Candido[5]: tanto più che molti tra noi sono pure diventati veramente vecchi, e in tempo di epidemie, come il Coronavirus, corrono pure il rischio di lasciarci la pelle anzitempo; sicché non c’è più tempo per le piccole furberie).

Può dunque essere che l’opportunismo senza principi sia diventato talmente pervasivo – a parte un vago orientamento “democratico” su cui tutti ormai concordano, o sembrano concordare – da poter essere detto normale. Ma se è così dovremmo rinunciare a qualunque teleologismo, o finalismo, vuoi sociale e vuoi di tipo individuale, e rassegnarci a essere “irredenti” e “irredimibili”, perché la liberazione umana, “l’emancipazione”, è risultata – sarebbe risultata – una “generosa illusione”, un miraggio, il nostro oppio dei popoli “comunista”, come l’aveva detto il grande liberaldemocratico Raymond Aron[6]: droga paradisiaca “laica” su cui non è o non sarebbe più il caso, di insistere, nemmeno provando a ripensare il post-capitalismo e la filosofia della liberazione – di sé, e degli altri – in termini diversi (come in sostanza cerco di fare io). Del resto Eduard Bernstein – nume tutelare di ogni riformismo – preso atto già alla fine del XIX secolo del fatto che il capitalismo non era affatto morituro come avevano creduto e credevano Marx e i rivoluzionari – diceva che bisognava cercare di farsene una ragione, aggiustare in senso sociale quel che si poteva aggiustare, e persuadersi che “per noi il fine è nulla e il movimento è tutto”[7]. Mentre io – nei primi anni grazie ad amici intellettuali socialisti di sinistra alessandrini come Giorgio Canestri, Adelio Ferrero, Giorgio Piccione e il “loro” Lelio Basso, e ben presto grazie soprattutto a Vittorio Foa, Rosa Luxemburg e il Lukàcs “marxista occidentale” – verificati pure operando tra “compagni operai” miei amici, ma poi anche in un assiduo dialogo ventennale con molti stimati e stimabili comunisti[8] – da cinquantacinque anni penso, in modo via via più approfondito, e sempre meno ingenuo, che bisogna sforzarsi – per vivere una vita buona e condurre una lotta miglioristica efficace, anche semplicemente di tipo socialdemocratico – di tenere insieme il fine e il movimento quotidiano: da un lato il télos, lo scopo finale, della società senza sfruttamento e senza autoritarismo, post-capitalistica sia rispetto al capitalismo privatistico che a quello burocratico di stato, alla fine senza classi e senza Stato; e, dall’altro, le istanze pragmatiche del movimento quotidiano, tendenti a realizzare miglioramenti anche minimi, economici e di potere, a favore dei lavoratori e di quanti, di qualunque paese o etnia, vorrebbero lavorare, in modo il più possibile libero e solidale. Si deve sì essere socialisti e democratici, oggi rosso-verdi, ma solo tenendo insieme movimento e fine, perché in caso diverso – sia che si operi per espandere il capitalismo privato che di Stato – il cambiamento diventa ingannevole.

E se per caso – in seguito al trionfo indiscusso ed epocale, psicosociale e socioculturale, della vision materialistica di cui si è detto – si debba ormai ripudiare – e anche questo “al limite” non lo escludo – “il fine” per “il movimento”, la società nuova per un qualche pur limitato miglioramento sociale, allora dovremo riconoscere francamente – a quel che opino io – che siamo al trionfo di quel che Marcuse chiamava “uomo a una dimensione” e Nietzsche “ultimo uomo”: formula – quest’ultima – ripresa dal politologo Fukuyama negli anni Novanta del secolo scorso, in relazione al predetto “ultimo uomo”, che sarebbe poi, dal più al meno, l’americano preteso medio, che si avvierebbe totalmente a diventare l’uomo planetario[9]. Come diceva Totò di “un certo” oscuro oggetto del desiderio discettando con l’onorevole Trombetta: “C’è a chi piace e a chi non piace. A me piace!”. Ma l’uomo a una dimensione o “ultimo uomo” a me non piace: “questo presepe nun me piace” come diceva un personaggio di Eduardo De Filippo[10].

Siccome non mi piace, ne traggo tre conseguenze: una premessa di metodo e due “svolgimenti”.

La premessa di metodo è l’ipotesi di lavoro – però per me d’importanza capitale – che quella serie di punti “materialistici” – ma se li si voglia chiamare in altro modo per me fa lo stesso – siano solo pseudoevidenti. É un poco come nella faccenda della circolazione del sole, che per forse duecentomila anni, dalla comparsa dell’homo sapiens, pareva girasse attorno alla terra, mentre era vero il contrario. In scienza ci sono tante verità controfattuali, cioè che contraddicono quello che all’esperienza immediata sembrerebbe evidente: è per questo che la fisica per molti mortali come me non è comprensibile immediatamente, almeno quando le cose si complichino un poco. Quindi il “materialismo” potrebbe essere “evidente” solo in apparenza, cioè una fede come un’altra: non si sa neanche se la materia esista, a livello microfisico; e che le motivazioni primarie siano economiche non è detto, perché potrebbero pure essere libidico individuali e persino libidico spirituali (come i “residui” in Vilfredo Pareto: motivazioni vere delle azioni anche economiche, afferenti a un inconscio sociale, che si potrebbe pure dire collettivo[11]); e il denaro, come pure il potere, potrebbe essere solo uno pseudodio, cioè un surrogato di Dio, il vitello “d’oro” contro cui si scagliava già Mosè disceso dal Sinai, e che Cristo chiamava Mammona[12]; e l’uomo, nella sua continua e portentosa creatività a getto continuo, unica nella natura, potrebbe essere un essere spirituale, animale e dio in se stesso, “finito” e “infinito” al tempo stesso; e persino l’egoismo, così apparentemente normale, potrebbe essere una specie di malattia sociale, una degenerazione o degradazione della natura sociale dell’uomo. E così via. L’ipotesi che il materialismo, in tutte le sue forme, celi altro (niente affatto “materialistico”, ma un idealismo o spiritualismo degradato), va fatta. Alla fine vedremo se reggerà.

Le conseguenze possono essere due, che per me stanno in un rapporto di “et et” e non di “aut aut”.

La prima è che l’uscita di sicurezza da quel (“questo”) mondaccio e modo di vedere il mondo possa essere soltanto individuale. E si badi che anche questo non lo escludo affatto. Si potrebbe pure ritenere che il sociale, il mondo dell’”on” – del “si dice” (on dit), “si fa” (on fait) – sia proprio, fenomenologicamente – in sé stesso, alla radice necessaria dell’esperienza umana, o della coscienza antropologicamente intesa, nella sua originaria spontaneità – “banalità” e “chiacchiera”, volte a rimuovere la coscienza della morte che incombe, che sarebbe la sola coscienza “autentica”, che per quanto triste ci distacca dalle scemenze (come opinava Heidegger in Essere e tempo, nel 1927[13]).

In tal caso, invece di fermarsi a quel nichilismo heideggeriano “prima maniera”, bisognerebbe vedere se non ci sia tutto un mondo quanto più possibile “nostro e solo nostro” in cui stare (cioè interiore), accedendo – sul terreno post-materialistico ipotizzato – a un’infinità in noi latente: curandoci sì del nostro corpo, ma con la cura con cui un violinista cura il suo violino (sapendo però che è solo il suo “medium”, per quanto preziosissimo e senza il quale non potrebbe suonare), ma aprendoci a tutto quel che per noi sia, o sembri (è da vedere), infinito ed eterno, alla prima radice della mente. Si tratta di un infinito ed eterno che cercano e trovano (o credono di trovare: anche questo è da vedere) i meditanti, gli yogin, i mistici di tutte le fedi, e però anche i cultori della psicologia analitica: altri grandi viaggiatori – questi ultimi – nella psiche profonda, che da quarant’anni m’interessano molto e da più di trenta mi appassionano, e che io considero scopritori e praticanti di una sorta di yoga dell’Occidente, che hanno scoperto una via al Sacro in Occidente, svelando o facendo chiaramente intravedere il nostro più intimo Sé, la personalissima dimensione d’infinito latente in noi; vera, sebbene non unica, risposta possibile alla stessa “morte di Dio”[14], risposta che a quanto pare è possibile, essendo anche per tal via emerso che “Lui”, o “esso”, non era morto bene. Ma la dimensione infinitizzante si fa percepire pure nelle creazioni ed emozioni artistiche più intense, in cui la bellezza, il sapore della vita, si fa sentire in tutto il suo suono, invece che “parola”, “di vita eterna”[15]. Non c’è forse molta percezione dell’infinito nella Nona (1824) di Beethoven, o nella Sinfonia fantastica (1830) di Berlioz, o nella Notte sul monte Calvo (1867/1875) di Musorgskij, tanto per citare i brani che emozionano di più me? E se non ce la trovate, e per voi è solo come sorbire un uovo alla coque, io cosa posso farci?

Ma naturalmente l’infinito va cercato anche nella quotidianità che ci riempia l’anima, se e quando accada: godendo e dialogando nell’amore, o gioendo e ridendo e piangendo tra gli amici e amiche (e “non della ventura” come avrebbe detto Dante nel secondo canto dell’Inferno), e con familiari, figli, fratelli e sorelle – se e quando ci siano cari – e insomma con le persone cui vogliamo bene intensamente, senza se e senza ma; anche se parlare di infinitizzazione per i rapporti interpersonali può essere eccessivo, lo riconosco: ma un “barlume” d’infinità nell’empatia reciproca molto profonda si mostra, e dà una luce immensa, come ha spiegato meglio di tutti Platone nel suo meraviglioso Simposio, nel IV secolo a.C., nel discorso sull’amore che lì Socrate mette in bocca alla filosofa che l’avrebbe formato, Diotima di Mantinea, che mostrava il crescendo dall’eros animale e carnale, che cerca l’eterno tramite l’atto sessuale latentemente riproduttivo (una vita dopo la vita), sino all’eros umano e spirituale, che giunge a percepire ed a vedere l’eterno in sé e per sé, come spirito, e non più in forma traslata[16].

La seconda conseguenza è che la visione e percezione di tipo infinitizzante – del pieno godimento dell’essere infinito ed eterno “in noi”, “oltre di noi” e pure “tra noi” – oltre ad avere una dimensione individuale (quando ce l’abbia), ne ha anche una collettiva. In tal caso – sempre procedendo in senso opposto al materialismo – dovremmo ripensare la visione post-capitalistica, ossia la filosofia o vision del socialismo. Detto così potrebbe pure parere accattivante a più d’uno, ma se invece l’opposto o alternativo a quello che abbiamo convenuto di chiamare “materialismo” fosse impossibile, lo sarebbe pure la rinascita dell’IDEA SOCIALISTA (perché di questo si tratta). Perciò la prima cosa da fare è cercare di capire, tornando ad approfondire “i fondamentali”, se una visione idealistica o neospiritualistica del mondo sia possibile. E, se sì, con quali conseguenze pratiche caratteristiche e imprescindibili.

In proposito io sostengo la linea “et et” nella relazione tra “salvezza” personale e “salvezza” collettiva: perché l’idea che per cambiare la vita si debba attendere quella del cambiamento della società, l’assumo come una delle più grandi scemenze che io abbia creduto e sostenuto in certi periodi della mia vita (e quando talora sento persino dei cattolici democratici sostenerla, come se quel che il grande filosofo cristiano Kierkegaard ha scritto sul singolo[17] non fosse mai stato scritto, mi viene da ridere). Per me la salvezza va da una singola persona (a partire da me stesso) a sette miliardi e mezzo di persone. Non mi lascerò mai più ingannare da “logiche” da “Oggi non si fa credito, domani sì” (in attesa di chissà quale rivoluzione o “sol dell’avvenire”). Se una via di liberazione è vera, deve cominciare a liberarmi e a liberarci “subito”, a poco a poco si capisce, ma comunque in modo percepibile, che ci faccia stare anche intimamente meglio sin dall’inizio, ogni giorno anche solo una briciola in più; se no, è palesemente falsa. Possiamo pure distinguere tra l’individuo o Io “in senso empirico”, oppure in senso universale, come facevano Hegel e Marx[18]; ma se li opponiamo, come se il primo, il singolo nella sua specifica e irripetibile vita, di per sé non avesse una realtà in senso fortissimo, siamo perduti. Lo assumo come un postulato, pur studiandomi di dimostrarlo in corso d’opera. La disalienazione comincia da me stesso: la mia disalienazione – la mia rinascita personale, la mia infinitizzazione e connessa empatia coi viventi tanto più se siano umani – è una condizione necessaria, seppure non sufficiente, della mia liberazione (perché vivo pure nella grande interdipendenza storica, economica, socioculturale e istituzionale); ma la “mia” disalienazione è, comunque, un punto di partenza necessario, sicché se “l’idea” non trasforma subito me, o chi “la creda”, può pure andarsene alla malora (per dire le cose in modo “educato”). Per intanto mi cambia; poi, per viverla in una quotidianità di gruppo o collettiva – anche per profonda e spontanea simpatia, e pure per empatia, per il gruppo o la società o l’umanità – la metto a confronto con gli altri, rendendo il mutamento intervenuto in me un che di sufficiente, o più o meno sufficiente, oltre che necessario, pure per me. Così, se ci riesco, faccio loro bene e accedo pure a un quid che alla mia autorealizzazione puramente personale mancava.

Ma un approccio post-materialistico è sostenibile teoreticamente?

Di lì dobbiamo riprendere la nostra discussione sui “fondamentali”.

di Franco Livorsi

  1. A cura di E. Cantimori Mezzomonti, Einaudi, Torino, 1963 (e nel 1998 con Introduzione di B. Bongiovanni).
  2. F. LIVORSI, Fine del materialismo, “Critica Sociale”, gennaio-febbraio 1992, pp. 22-25. Mi sono laureato a Torino l’11 luglio 1968, con una tesi discussa col compianto filosofo Carlo Mazzantini, sul seguente argomento: Il problema dell’emancipazione nella filosofia politica di Marx.
  3. L’idea, presente in Marx dal 1845 alla morte, viene argomentata con particolare forza in: K. MARX, Prefazione a Critica dell’economia politica (1859), Rinascita, Roma, 1959.
  4. J.-P. SARTRE, Kean (adattamento di un dramma di A. Dumas), Parigi, 1954, citato da: F. JEANSON, Sartre, Enciclopedia Popolare Mondadori, Milano, 1961, p. 75.
  5. VOLTAIRE, Candido, Zadig, Micromega, L’ingenuo, Garzanti, Milano, 1992, pp. 94-95.
  6. R. ARON, L’oppio degli intellettuali (1955), con Introduzione di A. Panebianco, Lindau, Torino, 2017.
  7. E. BERNSTEIN, I presupposti del socialismo e i compiti della democrazia (1899), a cura di L. Colletti, Laterza, Bari, 1968.
  8. Direi che proprio la tensione a tenere coscientemente insieme il movimento quotidiano e lo scopo finale sia stato la specificità dell’idea socialista quale era intesa da Lelio Basso. Il “busillis” del suo marxismo era tutto lì. Così voleva sfuggire, non sempre riuscendoci, ma provandoci costantemente, tanto al settarismo, così fermo al fine da diventare sterile nella prassi, come al riformismo socialdemocratico, dimentico del fine. Foa, che voleva incentrare l’azione politico-sociale sull’azione autonoma, antagonistica, degli operai stessi per una nuova democrazia sui luoghi di lavoro (operaismo marxista), pensava che proprio lì fine e movimento si potessero saldare (direi marxianamente). Su tali cose si vedano: L. BASSO, Il principe senza scettro, Feltrinelli, Milano, 1958 (in cui commenta la Costituzione, di cui era stato uno degli autori, come piattaforma aperta alla democrazia fondata non solo sulla delega, ma sul protagonismo dei cittadini come detentori della “sovranità” e possibili militanti di partiti intesi come articolazione del nuovo Stato democratico); Da Stalin a Kruscev, Edizioni Avanti!, Milano, 1962 (basato sulla tesi, per me poi risultata fallace, sulla rivoluzione sovietica come rivoluzione incompiuta, degenerata per l’isolamento internazionale, ma “di transizione” travagliata al socialismo); Socialismo e rivoluzione, Feltrinelli, Milano, 1980 (che considerava la sua teoria politica); V. FOA, Per una storia del movimento operaio, Einaudi, Torino, 1980; Il Cavallo e la Torre. Riflessioni su una vita, Einaudi, Torino, 1991 (opera d’intensa passione civile e ricchissima di intuizioni teoriche fondamentali); R. LUXEMBURG, Scritti scelti, a cura di L. Amodio, Edizioni Avanti!, Milano, 1963; R. LUXEMBURG, Scritti scelti, a cura di L. Basso, Editori Riuniti, Roma, 1967; G. LUKÀCS, Storia e coscienza di classe (1923), SugarCo, Milano, 1967, che considero l’opera più importante del marxismo del XX secolo; F. LIVORSI, Antifascismo, Resistenza e Costituzione nell’esperienza politica di Lelio Basso, “Quaderno dell’Istituto storico per la Resistenza in Provincia di Alessandria”, a. II, n. 4, 1979, pp. 88-105. Ma si veda pure: Il socialismo italiano. Da Turati a Nenni (1892-1972), a cura di F. Livorsi, Paravia, Torino, 1981.
  9. F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra (1882/1892), a cura di L. Scalero, 1979, pp. 41-43 (per “l’ultimo uomo”, l’opposto dell’oltreuomo); H. MARCUSE, L’uomo a una dimensione (1964), Einaudi, 1967, per la critica del tipo umano ritenuto caratteristico del neocapitalismo: F. FUKUYAMA, La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), Rizzoli, Milano, 1992.
  10. La battuta di Totò è nel film Totò a colori (1952). La battuta sul presepe è nel dramma teatrale di E. DE FILIPPO Natale in casa Cupiello, del 1931.
  11. V. PARETO, Trattato di sociologia generale, Barbera, Firenze, 1916, da confrontare con: Scritti sociologici, a cura di G. Busino, UTET, torino, 1966.
  12. Bibbia di Gerusalemme: Esodo, 32; Matteo, 5, 19-24.
  13. M. HEIDEGGER, Essere e tempo, a cura di P, Chiodi, Bocca, Milano-Roma, 1953.
  14. Su ciò si vedano: C. G. JUNG, tutto il grosso volume XI delle opere, su “Psicologia e religione”, Bollati Boringhieri, Torino, 1979; Il Libro rosso, Liber novus (1913/1928, con un breve poscritto del 1952, ma 2009), Introduzione e cura di S. Shamdasani, Bollati Boringhieri, Torino, 2010; Lo Zarathustra di Nietzsche, Seminario tenuto nel 1934/1939, a cura di L. Jarrett (1988), e a cura di A, Croce, Bollati Boringhieri, Torino, 1911/1912, quattro volumi. Su ciò si veda pure: F. LIVORSI, Un’anima che viene da lontano, Riflessioni su Carl Gustav Jung, “Il Piccolo” mese, 13 gennaio 1982 (che cito come mio primo articolo sul tema); Psiche e storia. Junghismo e mondo contemporaneo, Vallecchi, Firenze, 1991; Morte e rinascita di “Dio” nel Libro rosso di Jung, “Anima e Terra”, Alessandria, a. I, n. 1, aprile 2012, pp. 21-43; Dialogo tra Jung e Nietzsche sul problema dell’individuazione, “Rivista di psicologia analitica”, n. 30, vol. 90, 2014, pp. 193-206; Il filosofo e il suo analista. Sei anni di seminari di Jung sul “Così parlò Zarathustra” di Nietzsche, “l’Ombra”, n. 5, giugno 2015, pp. 9-31.
  15. Bibbia: Giovanni, 6, 68.
  16. PLATONE, Il simposio, tr. di C. Diano e Introduzione e commento di D. Susanetti, Marsilio, Venezia, 1995.
  17. L’opera di S. KIERKEGAARD che fa meglio capire ciò, o almeno che a me l’ha fatto capire di più, è: Timore e tremore. Lirica dialettica di Johannes de Silentio (1843), Comunità, Milano, 1983.
  18. Per questa relativizzazione estrema del ruolo dell’individuo in quanto individuo nella storia, si veda ad esempio: G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito (1807), a cura di E. De Negri, La Nuova Italia, 1933, due volumi, I, pp. 349-350. Si confronti con tutta la polemica con l’individualismo di Max Stirner in: K. MARX – F. ENGELS, L’ideologia tedesca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti (1845/1846, ma 1930), tr. di F. Codino e Introduzione di C. Luporini, Editori Riuniti, Roma, 1969.

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