“La Laguna? Possiamo ancora salvarla”.

Nel suo recente “SOS Laguna” l’illustre studioso d’idraulica sostiene, fin dal sottotitolo, che la città e la sua laguna, per avere un futuro, vanno sottratte agli appetiti e al controllo di “predatori ingordi” e “tecnici e politici senz’anima”.  (*)

Gli stessi tecnici e politici senz’anima che dovette fronteggiare l’ing. D’Alpaos quando, nel lontano 1995, redasse e consegno’ (come perizia ordinata dal procuratore della Repubblica dott. Brusco) l’analisi di quanto successe sull’asta del tanaro nel novembre 1994, con conseguente grave alluvione. Ancora il 6 novembre di quest’anno, nella cornice dell’Università UniPO, è riecheggiato il suo nome e per due volte ci si è lamentati della mancanza di “aree di laminazione controllata” a monte della città di Alessandria, così come caldeggiò allora (ed in altre occasioni) Luigi D’Alpaos.  Un’attenzione ai fiumi, al buon senso e al corretto uso dei fondi pubblici e privati, ne hanno sempre caratterizzato l’attività ed è per questo che il presente  “editoriale ad honorem” è tutto suo.

Professor D’Alpaos, nella prospettiva d’innalzamento del medio mare e nella non scontata ipotesi che poi effettivamente funzioni, che senso ha per la città di Venezia il MOSE?
L’innalzamento del livello medio del mare era cosa conosciuta già prima che il MOSE cominciasse a essere costruito. Nel 2006 fu presa la decisione di finanziarne la realizzazione, dopo gli anni in cui a esserlo erano stati gli studi, nonostante le obiezioni avanzate su alcuni punti importanti. Volendo dire la verità, molti erano schierati a favore della realizzazione. Molti tecnici, molti politici…

Ma perché tutta questa gente era favorevole alla sua realizzazione? Non le pare che in quella vicenda ci sia l’apoteosi del partito industrialista che ha tanti seguaci in Italia? In altre parole, non è quel genere di cultura che alla fine ha prevalso a scapito delle critiche e degli allarmi sul progetto?
Personalmente ritengo che la politica debba prendere le decisioni opportune assumendosene però le responsabilità. In questo caso specifico, credo che tutto l’arco costituzionale non abbia saputo resistere alle pressioni dei portatori d’interesse, di quelli che io nel libro chiamo i “prenditori”.

A chi si riferisce col termine di prenditori?
Mi riferisco a quegli imprenditori che hanno perso il senso e il significato della loro azione. È evidente che si devono guadagnare dei soldi, ma ciò deve essere finalizzato all’ottenimento di obiettivi con certezza, efficaci ed efficienti rispetto alle necessità. Ora, questa seconda parte da molti è dimenticata, mentre si guarda solo all’obiettivo di fare soldi. Le cose si possono fare, ma nel migliore dei modi. Nel caso specifico di questa grande opera, che non è ancora conclusa, penso che bisognasse riflettere con maggiore attenzione su quelle che avrebbero potuto essere le conseguenze, e anche sulle condizioni che avrebbero potuto rivelarsi differenti rispetto al momento in cui si è partiti. Tutto questo è stato evidenziato chiaramente da molte persone. Faccio solo due esempi con riferimento al MOSE. Da una parte quella considerazione che ha portato a dire che nell’arco del secolo avremmo avuto un incremento del livello medio del mare pari a ventidue centimetri quando le previsioni dell’IPCC davano un aumento come minimo di cinquanta. Questa differenza così inaccettabile dal punto di vista tecnico non ha fatto minimamente riflettere, e questi signori sono andati avanti per la loro strada finendo dove ora sono.

L’altro aspetto era quello dei costi, della gestione e della manutenzione, allora calcolati, cosa incredibile dato che queste stime venivano dalle bocche d’ingegneri, in dieci quindi milioni di euro. Già allora si riteneva questo valore non credibile, tanto è vero che adesso parliamo di una cifra di cento, centoventi milioni di euro all’anno. E questa non è una lievitazione di costi dovuti all’effetto della svalutazione, ma il risultato della mancata analisi con metodi attendibili dei costi che poteva avere un’opera di tale natura. Non si è nemmeno riflettuto sul fatto che gli olandesi avevano già realizzato un’opera di sbarramento analoga nelle funzioni nel canale di Rotterdam, che li aveva portati a scartare la soluzione pensata dal MOSE. L’avevano considerata improponibile proprio per i costi di gestione. Nonostante questo fatto fosse stato evidenziato, non è successo nulla, e negli incontri romani si è verificata una situazione incredibile, dove tutti erano schierati dalla stessa parte: controllati, controllori, tutti consenzienti a quest’iniziativa. La quale probabilmente si doveva certo intraprendere, ma con modalità e soluzioni diverse, che erano anche state allora proposte ma che non andavano nella direzione che questi signori avevano deciso.

Parla del Consorzio Venezia Nuova e del gruppo di prenditori che gli stava alle spalle?
Parlo pure dei politici di tutti i tipi che erano attaccati al carro. Quelli che avevano sponsorizzato coscientemente o incoscientemente questa soluzione, che erano parecchi.

Lei nel suo libro sostiene che a questo punto il MOSE va finito.
Va finito ma non basta, e avrà dei problemi che devono essere affrontati da subito, perché l’innalzamento del livello medio del mare di cui si parla e che è in qualche modo confermato dalle registrazioni degli ultimi trent’anni dei livelli di marea a Venezia, che non è quindi un’isola felice rispetto a questo fenomeno, comporterà che il numero degli interventi alle bocche di porto e la durata delle chiusure diventerà impressionante. Sarà incompatibile da una parte con le evidenze ambientali della laguna, e dall’altra con la stessa navigabilità, e quindi con l’attività portuale. Quindi, due cardini tanto sbandierati in quegli anni crollano di fronte a questo fenomeno che pure allora, come ho detto, era evidente.

Professore, mi permetta. Ora, come lei sa, sulle Navi Grandi si sta pensando di portarle a Marghera, qualcuno indica Fusina, mentre l’ex ministro Toninelli pensava a una portualità diffusa. Che senso ha investire ora fior di denari se tra qualche anno ci troveremo ad avere un MOSE sempre chiuso?
Premesso che sono contrario allo scavo di nuovi canali, l’ho scritto e anche detto dal 1979 al Magistrato alle Acque, attirandomi le contrarietà del Porto e del Magistrato stesso, il problema dello scavo di altri canali non si dovrebbe nemmeno porre per il disastro già fatto da quel maledetto canale che fu scavato tra il 1966 e il ’70, che porta il nome di Canale dei Petroli. È inutile che il sindaco di Venezia si azzuffi con il ministro, perché il primo vuol portare il porto turistico da una parte, il secondo da un’altra. Qualsiasi approdo si faccia all’interno della laguna saremo spiazzati dal fenomeno dell’innalzamento del livello medio del mare. E succederà, come ho anche dimostrato nel libro, che proprio le navi da crociera patiranno questo problema, perché le attuali maree più spinte, diventeranno maree di acqua alta comportando la necessità di chiudere le dighe, se vogliamo difendere i centri storici dall’allagamento. L’alternativa è lasciare che si allaghino Venezia, Murano e Chioggia dando attenzione al porto. C’è da prestare attenzione anche alla questione ambientale, dal momento che ci sono i biologi che dicono che quando si superano le ventiquattro/quarantotto ore di chiusura si va verso un processo di anossia all’interno della laguna che la trasformerà in qualcosa di diverso rispetto a quella che noi abbiamo conosciuto. Quindi non c’è il minimo dubbio che la soluzione anche per le Navi Grandi deve essere un porto esterno, come una soluzione per la portualità commerciale veneziana non può che essere un approdo esterno.

Suppongo che le sia noto che, per giustificare nuovi interventi di scavo di canali, sono in molti a ricordare quanto in passato è stato fatto dai veneziani, che secondo loro ne avrebbero fatte di cotte e di crude in laguna. E ciononostante sono riusciti a mantenere un ambiente naturale.
Questi hanno letto male le storie del passato o le azioni fatte in laguna dalla Repubblica, la quale, è vero, ha scavato dei piccoli canali ai limiti della laguna stessa…

Ha pure deviato fiumi.
Il cui scavo stiamo ancora scontando oggi, e la gente ancora non si rende conto. Comunque una cosa è agire all’esterno della laguna, altro paio di maniche al suo interno. L’allontanamento del Brenta e del Bacchiglione ha di sicuro creato un grosso problema alla laguna perché l’ha privata dell’apporto di sedimenti e di acqua dolce, cosa di cui oggi ci accorgiamo in modo evidente. Anche se queste opere hanno pure salvato la laguna, perché altrimenti in Piazza San Marco oggi coltiveremmo il granturco. A chi dice, e tra questi pure al primo cittadino di Venezia, che gli antenati hanno sempre scavato, bisognerebbe chiedere quali canali hanno scavato e dove. L’unico grande canale scavato dai veneziani è un allacciante tra il bacino di Lido e quello di Malamocco che si chiama Canale di Santo Spirito. Ed è scavato in una zona di partiacque, cioè dal punto di vista idrodinamico fondamentalmente neutra. Venendo ai tempi moderni è stato scavato un altro canale, il Vittorio Emanuele che ha prodotto degli effetti che sono stati ripetutamente evidenziati ma che, tutto sommato, s’inseriva in una zona molto marginale della laguna, idrodinamicamente poco attiva. Non così si può dire del Canale dei Petroli, che è sbagliato da tutti i punti di vista, perché a un certo punto assume una direzione che è assolutamente ortogonale alla direzione dei canali naturali. Poi, diventando navigabile da grandi navi fa il disastro che tutti possiamo constatare. Ed è ridicolo che a causa della gente che, stando con la barca sui bassifondi vicino al canale, si è rovesciata per le onde prodotte dal passaggio di quelle navi, i responsabili delle istituzioni non abbiano pensato di imporre un’andatura più lenta o di non passare proprio. La scelta è stata invece di impedire alle barchette di andare in quelle zone. Dobbiamo rimpiangere i vecchi personaggi della Repubblica, che governavano dal punto di vista idraulico non disponendo degli strumenti odierni, ma con molto buon senso e grande acume perché erano degli incredibili osservatori della realtà lagunare. Tra tutti cito Cristoforo Sabbadino che nei suoi scritti ha manifestato delle idee per le quali ancor oggi noi dobbiamo restare ammirati. Il quale per raggiungere alle sue considerazioni disponeva solo della sua esperienza, quello che vedeva, i fenomeni che osservava. Dai quali era capace di trarre un’interpretazione di grande valore ancora oggi.

Ci sono delle previsioni che dicono che tra circa un’ottantina di anni, il mare arriverà a Padova.
Non arriverà a Padova, perché anche oggi tutte le zone vicine al mare nel Veneto sono sostanzialmente aree di bonifica. Io credo che tutti questi argini, salvo qualche posizione, sono tutti a quota superiore a due metri e cinquanta, tre metri sul livello medio del mare. Quindi non si dovrà far altro che chiudere quei varchi che sono aperti e che potrebbero essere dominati dal livello del mare e potenziare quelle difese. In realtà diventerà problematica la situazione degli ambienti costieri, cioè degli specchi d’acqua costieri e nel caso specifico la laguna di Venezia, e quella di Marano e Grado, con tutte le lagune del delta del Po.

A quel punto il MOSE sarà ancora più inadeguato.
Di soldi ne abbiamo messi tanti e sussiste ancora il grande punto di domanda se riusciremo mai a farlo funzionare. Sono passati cinque anni dalla fine del sistema, da quel 4 giugno 2014. Chi è venuto dopo e ha ereditato quest’opera non ha fatto un’operazione fondamentale. Tirare una linea, analizzare esattamente la situazione della costruzione, che nessuno conosceva. Non la conosceva il controllore, e forse nemmeno il controllato che andava avanti così, navigando a vista. Bisognava tirare una linea e dire: i problemi sono questi, i costi da sopportare per finire i lavori sono questi altri. E andiamo avanti un giorno sì e un giorno no scoprendo una magagna, senza sapere dove andremo a finire. Che è poi il problema vero. Supponiamo che l’esito sia positivo. Quell’opera non potrà avere una vita significativa se non viene accompagnata da interventi minori che permettano di non farla entrare in funzione quando i livelli di marea sono relativamente contenuti. Interventi in buona sostanza tesi a neutralizzare l’innalzamento medio del mare che sicuramente avremo.

A quali tipi d’interventi minori pensa?
Un tipo d’intervento era già stato proposto quando ancora il Consorzio Venezia Nuova era in auge, e prevedeva la realizzazione del progetto delle insulae, cioè dei perimetri a quota sufficientemente elevata per poter proteggere quegli abitati o quelle zone degli abitati dalle maree di un metro e venti o un metro e trenta. Se si fa questo, si riduce drasticamente la frequenza delle operazioni alle bocche di porto. Quando fu presentato questo progetto, pensato da un gruppo d’ingegneri veneziani, non fu nemmeno preso in considerazione. Allora vivevamo in tempi in cui non bisognava disturbare il manovratore, il cui fine era di consumare quei soldi seguendo la propria idea, solo la sua, e buttando a mare tutte le altre. Io credo che sia necessario riprendere in mano quel progetto e analizzare se non sia possibile realizzare il sistema delle insulae portandolo a quota centotrenta centimetri. In questo modo il MOSE potrà anche diventare più compatibile dal punto di vista ambientale e non penalizzerà in modo drammatico la portualità. La quale in prospettiva è morta, checché ne possa pensare il suo presidente che va di qua e di là e dice cose che probabilmente richiederebbero una maggiore riflessione.

In “SOS Laguna” lei dà grande spazio al problema del moto ondoso.
Quella è un’indecenza assoluta, perché è un problema affrontato da subito dopo la grande alluvione del ’66. In occasione del ventennale dell’Acqua Granda fu organizzata una giornata all’Istituto Veneto dall’allora presidente professor Ghetti in cui si parlò del moto ondoso e dei danni provocati alle strutture naturali e artificiali veneziane. Dopo quel convegno, il Comune di Venezia istituì una commissione che, anche attraverso prove sperimentali condotte in laguna e nella vasca navale di Trieste, arrivò a evidenziare la necessità di porre un limite al moto ondoso. Dalla pubblicazione di quei risultati, nei primi anni ’90, secondo lei è stato fatto qualcosa?

Professore io appartengo al popolo delle barchette, e le posso giurare su quello che ho più caro al mondo che sempre più, specialmente in alcune zone particolari della laguna, onosciutissime alle forze di polizia, rischio ogni volta di affondare, e temo parecchio pure per la mia incolumità fisica.
La settimana scorsa ero nella laguna nord, e ho visto barche viaggiare a velocità incredibili. Non oso immaginare cosa accadrebbe se andassero a sbattere contro qualcuno.

I morti per incidente sono sempre più frequenti in laguna, vanno in cronaca dei giornali un paio di giorni, il tempo di esprimere lacrime e cordoglio delle autorità, e poi tutto continua come prima. The show must go on. Vorrei chiederle che ne pensa sulla richiesta di nominare un Commissario.
Io penso che di Commissari in Italia ne abbiamo avuti troppi. Tra l’altro, la sua figura dovrebbe essere momentanea con il compito di riportare rapidamente la situazione alla normalità. Noi invece abbiamo nominato nel 2014 i Commissari per il MOSE che nel frattempo sono diventati vecchi e si sono fatti la pensione. Ha capito? Non ci si rende conto che non è con i Commissari che si risolvono i problemi. Oltretutto, sul moto ondoso ci sono tutti i dati per agire. Conosciamo perfettamente quale onda produce un certo tipo di barca a una certa velocità rispetto a un’altra. Quindi sappiamo anche determinare il limite di velocità.

E perché non lo si applica?
Per mancanza di volontà politica. Perché dietro a tutte queste cose ci sono voti. Questa è l’amara verità. Lei se la sentirebbe di scontrarsi con i motoscafisti? Non se la sentono e non se la sono sentita i sindaci che dal ’92 ad oggi si sono alternati in carica. Oggi siamo in grado di controllare la velocità in qualsiasi momento di chiunque se solo rendessimo obbligatoria l’installazione sul natante di un GPS. Riuscendo anche a sanzionare chi supera i limiti di velocità consentita. Per farle un esempio, nella laguna nord i limiti sono cinque/sette chilometri orari. Hai voglia se vanno a quella velocità!

Nel suo libro lei si è iscritto al partito degli idioti. Di quelli che appaiono passatisti e difendono le ragioni della tutela e degli equilibri ambientali. Non le sembra di essere contro il progresso?
Mi sono sentito in dovere di dichiarare di appartenere a quel partito, e non mi percepisco assolutamente contro il progresso, perché esso deve tener anche conto di come possiamo agire in funzione dell’ambiente in cui operiamo. Se noi vogliamo che Venezia non muoia, che la laguna non muoia, dobbiamo necessariamente tenere comportamenti che non possono essere quelli che teniamo a Padova o in mare aperto. Ma devono essere consoni all’ambiente in cui ci troviamo. L’altra grande questione è che se si parla di Venezia, si parla contemporaneamente di laguna e viceversa, le due cose sono legate. Io non sono pertanto contro il progresso. Contro il progresso è chi non mette in atto i corretti comportamenti, perché così facendo sottrae a chi verrà dopo di noi un bene che in realtà ci è stato imprestato, che noi dovremmo conservare come un buon padre di famiglia. Conservazione non significa ingessare, ma mantenere efficienti le funzioni che quell’ambiente, nel caso specifico la laguna, ha sempre avuto nel tempo.

Ma per molti il progresso è velocità, mobilità. Come si conciliano le ragioni del vivere odierno con le tutele di cui lei parla?
Il progresso non è velocità, è riflessione. Quando ero bambino, nel mio paese natale nel bellunese, c’era un vecchio minatore che era fuoriuscito al tempo del fascismo da cui era perseguitato. Spesso partecipava alle chiacchierate che si facevano in paese e se ne usciva dicendo che “el progreso l’è un regreso”. Io che ascoltavo gli adulti seduto accanto, non potevo evidentemente parlare e mi stupivo di quello che diceva. Da molti anni ormai penso che quel minatore avesse ragione. Perché il progresso porta con sé tantissime cose positive, ma ne porta anche di negative. E su queste cose nessuno presta attenzione. Di positivo vedo che rispetto ad anni addietro è cresciuta l’attenzione della gente nei confronti dei problemi che ho affrontato nel libro. In chi prende le decisioni permane tuttavia un atteggiamento che non è sempre ben ispirato. Chi ha la responsabilità di decidere dovrebbe conoscere i problemi. Non può parlare con tanta superficialità.
Nel caso di Venezia, noi dobbiamo uscire da un simile vicolo cieco. Altrimenti diciamo che di questa città non ci importa più nulla e lasciamola andare al suo destino. Spesso poi chi deve decidere non ha nemmeno il coraggio delle proprie azioni, perché quando, per dare forza alle sue posizioni, invoca le questioni economiche, si dimentica di un fatto fondamentale. Quando tu fai un ragionamento economico che riguarda un’attività che si deve svolgere dentro Venezia o la sua laguna, tu devi necessariamente mettere in conto qual è il valore dei beni che perdi per arrivare a soddisfare le tue esigenze. Vuoi scavare un canale navigabile? Vuoi mettere sul piatto della bilancia la magnificenza della redditività delle azioni crocieristiche? Bene, dall’altra parte devi metterci però quanto di laguna tu distruggi, e quanto bene, che ha un valore, vai a perdere.
Il bene ambientale ha un valore, e tutte queste persone si dimenticano di questo. Poiché non penso che siano degli sprovveduti, non è che si dimenticano. È che proprio non vogliono considerarlo, e pensano che quel bene sia nella loro disponibilità. Mentre al contrario quello è un bene indisponibile per chiunque.

Però la sensibilità ambientale sta crescendo a livello mondiale. Forse una possibilità che ce la si faccia si sta facendo più concreta.
Io spero sempre che venga un pianificatore che, riguardo a Venezia e allo sviluppo economico, visto che nessuna città può vivere se attorno non c’è un’economia che funziona, lasciasse perdere gli schemi del passato e pensasse a quello che avverrà nel futuro. Invece noi stiamo ancora a ragionare come se fossimo nei primi anni del Novecento. Dobbiamo potenziare questo e quell’altro, dobbiamo fare questo piuttosto che quell’altro, agendo come hanno fatto i nostri bisnonni cento anni fa. Non è più così, perché le condizioni del contorno sono cambiate. E non si può affrontare un problema senza tener conto dalla realtà costituita dalle condizioni del contorno. Che sono quelle poi che determinano i risultati che si ottengono. Io spero che vengano persone che siano in grado di far ragionare chi deve decidere, e che questi agiscano con umiltà, e non con arroganza, che è di certo frutto dell’ignoranza delle questioni che sono chiamati a risolvere.

Intervista a cura della Redazione di “ytali.com”  –  pubblicata il 27 settembre 2019

 

 

 

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