La meraviglia della scienza e della letteratura nel libro di Jan McEwan

Tra tutti i libri di Jan McEwan, “Invito alla meraviglia. Per un incontro ravvicinato con la scienza” (Einaudi) è quello che più direttamente ed esplicitamente fa riflettere sul grande tema del rapporto tra letteratura e scienza. Specialmente nella nostra tradizione culturale, per lo più astrattamente umanistica, c’è chi, non vedendo il legame stretto fra tutte le dimensioni del sapere e della conoscenza, teme che lo sviluppo tecnico-scientifico possa inaridire la nostra umanità. E così si affretta a ribadire l’ovvio: che solo lo scrittore, e non la macchina, potrà, anche in futuro, scrivere un romanzo; che solo la letteratura può “dare la parola al non detto”, all’inconscio individuale e sociale; che solo la creazione artistica, la scrittura può scovare il disagio negli angoli più remoti della nostra condizione. E’ necessario dire che questa concezione dualistica, questa contrapposizione fra scienza e letteratura, è del tutto sbagliata. Scienza e letteratura sono più “amiche” di quanto siamo portati a credere. E’ solo il vecchio umanesimo che spinge a ridurre l’arte e la letteratura a una specie -come è stato detto da qualcuno- di “ingegneria psicologica” priva di effettive funzioni conoscitive. La letteratura, invece, come la scienza, è anche una efficace forma di conoscenza, una rappresentazione del reale mediante un suo specifico linguaggio. Poiché non esiste una letteratura metastorica, essa è parte integrante del mondo e, per questo, strumento di analisi della realtà. Come ha ben scritto U. Cerroni, la letteratura ha <<sue proprie capacità e istanze di conoscenza e rappresentazione critica>> e, dunque, una <<capacità storica di formulare in forme d’arte gli schemi della vita>>. E’ proprio la letteratura che ci dice quale sia la qualità della nostra esistenza o la profondità della nostra sofferenza. La scienza poi riflette anche su quello che ci dice la letteratura: per capirne le ragioni, per coglierne le cause e, se necessario, per cercare di rimuoverle. Perfino in ciò che rivela l’inconscio la scienza è necessaria e perfino la stessa analisi dell’inconscio diventa scienza. Dice Roland Barthes che <<la letteratura, così come l’arte, opera negli interstizi della scienza: nei suoi confronti essa è sempre in anticipo o in ritardo>>. Non c’è dunque un primato dell’una sull’altra ma un procedere di entrambe nella stessa direzione. E’ questo camminare insieme che costruisce un umanesimo vero, non retorico, che consente a Dante di poter dire che <<la scienza è l’ultima perfezione della nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitate>> e ad un poeta contemporaneo come Allen Ginsberg di scrivere, riferendosi soprattutto ad Einstein, che <<solo lo scienziato è vero poeta egli ci regala la luna/ ci promette le stelle ci farà un nuovo universo se necessario>>. Come diceva il mio maestro: sia la letteratura che la scienza cercano il nuovo e l’uomo cerca il nuovo perché cerca la bellezza della vita. Nel libro di McEwan sono presenti molti di questi temi (ed altro ancora). Nei cinque agili saggi che lo compongono l’autore dichiaratamente si propone di indicare i punti di convergenza tra <<due nobili e distinte forme di indagine sulla nostra condizione umana>>: la letteratura e la scienza, appunto, dalla cultura diffusa ritenute invece tra loro lontane e incompatibili. C’è da dire che non sempre il ragionamento è lineare, ma l’obiettivo comunque non viene mai perso di vista. Il primo saggio è il più organico, il più completo, e meglio esprime la convinzione del rapporto stretto fra letteratura e scienza. Qualche rapidissima incursione nel campo della psicologia cognitiva serve a meglio sostenere la tesi della storicità della creazione artistica, della inconsistenza di un dualismo metafisico che contrappone storia e natura, natura e società, cultura e natura. Con ciò l’autore non intende certo escludere la specificità dell’approccio conoscitivo nei vari campi e quella del rapporto tra fruitore e prodotto artistico e scientifico. Mentre con lo scrittore di un romanzo, infatti, si parte per così dire alla pari, nel senso che possiamo immergerci nel suo lavoro e godere subito della sua creazione artistica, col lavoro di uno scienziato abbiamo bisogno invece di un minimo di conoscenze pregresse nel suo campo poiché, in generale, le opere scientifiche <<ci tengono a distanza, infestate come sono di dettagli complicati>>. Anche questo, però, non vuol dire che non vi siano scritti scientifici leggibili come un romanzo. Tra i tanti, McEwan ne indica uno: i “Taccuini” di Charles Darwin, proprio <<abbordabili quasi quanto un romanzo>>. Per l’autore, da un lato, la letteratura dà sempre voce a quel che ci lega (<<ed è questa universalità che le scienze biologiche, oggi sulla soglia di un’altra fase esaltante, dovranno ulteriormente indagare>>); dall’altro, la scienza è un <<tripudio di curiosità organizzata, un sublime trionfo della creatività umana>>. Nell’ultimo saggio, dal titolo assai esplicativo: ”L’Io”, il lettore è investito dalla riflessione -del tutto eccentrica nella produzione letteraria- su un aspetto proprio soltanto dell’età moderna: quello di <<un’indagine sistematica dell’io>>. Non che prima, si affretta a precisare l’autore, l’io non esistesse. Tracce dell’io le troviamo in molti grandi del passato, <<in Omero, Platone, Marco Aurelio, Virgilio, Catullo, Lucrezio, Dante>>, ma non era ancora ritenuto un soggetto adatto all’esplorazione diffusa, un soggetto adatto alla letteratura>>. E’ qui rintracciabile la consapevolezza della distanza storica tra mondo antico ed età moderna nell’organizzazione della coscienza individuale. Senza dirlo esplicitamente, McEwan ci fa capire che mentre prima l’io non poteva avere una autonomia totale perché parte integrante di un contesto naturale-sociale e ad esso subordinato, oggi, con la disintegrazione dell’organicismo premoderno, l’indipendenza dell’io si è potenziata a tal punto da diventare specifico campo di indagine sia della letteratura che della scienza e a dar vita, addirittura, ad una disciplina autonoma, la psicanalisi, costruita secondo i criteri propri della scienza. Lo stesso suo fondatore, quasi ad esergo del progetto disciplinare, ha voluto esplicitamente dichiarare che <<sarebbe illusione credere di trovare altrove quello che la scienza non può darci>>(S. Freud). Così, proprio nella dimensione umanistica per eccellenza, quella dell’io personale, individuale, prende evidenza plastica la smentita dell’esistenza di una separazione fra attività umanistica e attività scientifica.

Egidio ZACHEO

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