La parola Dio – Gabriella Caramore – (Einaudi)

Prende avvio da un aneddoto l’ultimo libro di Gabriella Caramore, dal titolo: La parola Dio (Einaudi). Un giorno, sollecitato da un suo interlocutore, Martin Buber si espresse intorno all’opportunità o meno di far ancora ricorso alla parola Dio, tanto essa è stata fonte di incomprensione tra i popoli e avendo gli uomini combattute così numerose guerre di religione giusto nel suo nome. Colto nel vivo. il filosofo/teologo austriaco rispose che, se a noi non è dato ridonare purezza al termine Dio, possiamo però continuare a pronunciarlo poiché, da sempre invocato, secondo Buber questo nome è proprio di chi: “ascolta, esaudisce, consola”.

Effettivamente in tedesco Dio è chiamato Gott e in inglese God ‒ e con altri termini similari nelle varie lingue germaniche ‒, con voci che traggono origine dall’indoeuropeo ghuto-/ghou, a sua volta derivante dalla radice gheu-, che significa appunto chiamare/invocare. Dio è dunque l’invocato per eccellenza. Mentre il vocabolo italiano Dio, deriva dall’affine latino Deus, proveniente dalla radice indoeuropea div-, che significa: splendere/brillare. Quindi Dio sarebbe luce all’uomo e al mondo. Ma, si/ci chiede Caramore, oggi: “Si può ancora pronunciare la parola «Dio» dandole un significato che vada al di là di una inerte sopravvivenza?”.

Il problema è reso ancor più complesso da fatto che in molte culture, come quella indiana, tale parola è (o è stata) declinabile al plurale, ovvero si pratica il politeismo: la credenza in molte divinità, non già in una sola. Si tratti comunque di uno o di più dèi, questione cruciale per il credente di questa o quella religione, è di affrancarsi da ogni tipo di idolatria e/o dipendenza da improbabili figure consolatorie; in quanto ‒ nota Caramore ‒: “La libertà non sarà mai piena se non ci si libera dagli idoli: non solo dal culto delle immagini, degli idoletti di pietra o di metallo fuso, dei piccoli altarini scaramantici, ma anche, e soprattutto, dalla credulità incantata, dalle facili illusioni, dalla seduzione di visioni fatue e a buon mercato”.

Ciò comporta prendere le distanze da un certo modo tradizionale di intendere la religiosità/spiritualità: costretta a una devozione acritica, dogmatica e confessionale. In riferimento al cristianesimo, Caramore sostiene ‒ sulla scia di molti teologi contemporanei ‒ che: “è necessario, e più proficuo, più esatto forse, pensare Gesù come fratello, che come Signore”. Oltre al fatto di suggerire l’urgenza ormai inderogabile di mettere in questione non solo la parola Dio, ma pure quella che è stata chiamata: la Parola di Dio, ossia le cosiddette Sacre Scritture, le cui formulazioni non è possibile/auspicabile vengano più prese alla lettera ‒ essendo figlie dell’era/cultura in cui sono state redatte ‒ ma ritenute frutto dello Zeitgeist: dello spirito del tempo coevo.

Tuttavia questa opera demitologizzatrice (come peraltro già sosteneva Bultmann) non dovrebbe esser fatta allo scopo di invalidare le narrazioni mitologiche presenti nei testi biblici, bensì al fine di interpretarle, tradurle in messaggi credibili/recepibili. Anche solo in quanto capaci di risultare coinvolgenti, in grado di scuotere le coscienze, di farci interrogare sul significato del nostro esistere, qui ed ora, non già su quanto accadrà o non accadrà dopo la morte. La sensibilità contemporanea, infatti, è sempre maggiormente/giustamente rivolta a problematiche rispetto all’aldiquà più che all’aldilà. Lo aveva già inteso Bonhoeffer, che, rinchiuso nel carcere di Tegel prima di venir giustiziato dai nazisti, sentiva ineludibile l’urgenza ‒ ci ricorda l’autrice ‒ di “rielaborare la responsabilità della fede cristiana verso il mondo e verso gli uomini”. E ciò: Etsi deus non daretur (anche nel caso Dio non esistesse).

Così quella che, dopo ogni lettura evangelica, il celebrante chiama: Parola del Signore, non è più considerabile come un dettato univoco, indiscutibile, vincolante; piuttosto ‒ nota con soave e squisita prosa poetica la nostra autrice ‒: “Quella Parola è mobile come il tramandarsi delle generazioni, incerta come il viaggio dei migranti, instabile come le sabbie del deserto, tumultuosa come il vento, fluida come le acque del mare. E proprio per questo ha valore. Perché è frutto di una sedimentazione lunga e collettiva, di una inesauribile ricerca di un senso da dare all’esistenza”.

Sempre facendo riferimento a Gesù ‒ ritenuto il Figlio di Dio, dai cristiani ‒, come non ricordare l’accenno del Cristo allo spirito, analogo a suo dire al soffio del vento, che: “non sai da dove viene né dove va” (Gv 3,8) e quindi non è racchiudibile entro una formula dogmatica o precettistica. Come parimenti non ricordare il rifiuto da parte del Nazareno delle asfissianti regole formali dell’ebraismo (le quali ad esempio non permettevano attività alcuna durante il sabato), e la sua risposta ai farisei: “Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!” (Mc 2,27).

E, sempre restando all’interno della religione occidentale per antonomasia, come non far propria una delle considerazioni conclusive del saggio di Caramore, che interrogandosi/ci sul significato della buona novella e della sua testimonianza, scrive: “è l’amore che conta, l’essere insieme a condividere vita, fraternità, reciproca responsabilità. (…) Essere uniti nella responsabilità reciproca verso il fratello, il figlio, l’amico, l’amica. Ci può essere indicazione diversa da trarre dai vangeli e da tutte le Scritture? Se il pensiero di Dio non porta a questo, che farsene di Dio?”. Affermazione, ribadisco, a mio avviso condivisibilissima.

Francesco Roat

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*