La terra desolata (sulle elezioni inglesi)*

“Più che Boris Johnson, ha vinto la Brexit”, si può dire. O, all’inverso, possiamo girare la frase affermando che “Non è tanto Jeremy Corbyn ad aver perso, è la voglia di Brexit ad aver vinto”. Ma il risultato non cambia: nelle elezioni politiche del Regno Unito (forse le ultime nelle quali sia rimasto “Unito”), la geopolitica ha prevalso su qualunque altro aspetto, fosse esso il programma sociale dei partiti, la questione dei diritti o l’articolazione spaziale delle culture politiche. Nel Paese in cui il cleavage sociale (la frattura “capitale/lavoro”, “possidenti/dipendenti”) aveva, pressoché da sempre, “regolato il traffico” dei flussi elettorali, per la prima volta nella storia lo spartiacque è stato al contrario una classica questione identitaria che ha tagliato orizzontalmente le diverse classi sociali e le stesse appartenenze politiche riducendo ancora una volta, come nel referendum del 2016, il campo all’alternativa secca tra Leave e Remain. E’ come se il fantasma di quella consultazione finita con un esito in ampia parte inaspettato, avesse continuato ad aggirarsi inquieto per i corridoi del cosiddetto “Modello Westminster” celebrando, infine, la propria vendetta per non esser stato a suo tempo placato. L’ho pensato allora – e a maggior ragione lo penso oggi -, che subito dopo la vittoria, sia pur di misura, del Leave nel 2016, tutti, in primo luogo i labour, avrebbero dovuto inchinarsi alla volontà popolare e mettersi al lavoro per favorire un’uscita dall’Unione Europea la meno dolorosa per tutti. L’aver continuato a duellare lungo quella linea di faglia, magari alludendo alla possibile replica di un secondo referendum (con la motivazione che il “popolo immaturo” si sarebbe accorto di aver sbagliato e si sarebbe ricreduto) è stato letale. Per chi ha partecipato a quel gioco, per la sinistra inglese, per la democrazia europea e di conseguenza per tutti noi. Insomma, per tutti, tranne che per Boris Johnson, che infatti ha stravinto pur rimanendo pressoché fermo. Una responsabilità grande, per quell’atteggiamento sciagurato, l’ha avuta l’ala blairiana del Labour, che da subito è partita lancia in resta indifferente al fatto che una parte consistente dell’elettorato laburista, soprattutto nelle ex aree industriali e nelle periferie, si era espressa contro il Remain caldeggiato dai winners della globalizzazione. Quella stessa parte che Corbyn, nel 2017, ha battuto, ma che non ha per questo demorso, ed è riuscita a condizionare in buona misura l’atteggiamento oscillante che sulla questione il leader del Labour party ha tenuto fino alla vigilia del voto, pagando un alto prezzo.

Ora i corrispondenti italiani di quel laburismo pourri, nella persona del solito Matteo Renzi, specialista nella distruzione politica e nella distrazione di massa, senza neppure preoccuparsi di nascondere più di tanto il proprio compiacimento per quella sconfitta, dall’alto del loro 4%, vanno sproloquiando di un eccesso di radicalismo da parte di Jeremy Corbyn all’origine della caduta. E nella loro scia muove un fitto codazzo di opinion leader ed editorialisti della stampa “di sistema”: Antonio Polito, ad esempio, che sul “Corriere” irride Corbyn per quel suo “programma così vintage, così anni 70, che gli elettori hanno trattato esattamente come trattarono quello: bocciandolo”; o “La Stampa” che titola Il testardo Corbyn abbagliato dall’utopia della sinistra radicale, dimenticando – tutti – che due anni fa su un programma simile il vecchio Jeremy fece il pieno. E mostrando una buona dose di ignoranza dei fatti e anche dei dati, oltre che della geografia. Basta dare infatti un’occhiata, anche solo distratta, alle dimensioni del voto e alla sua distribuzione territoriale, per capire quale ne è stata la reale determinante. I Tories di Johnson, grazie al maggioritario secco, fanno certo il pieno di seggi, ma quanto a voti vanno poco al di sopra di quanto raccolto nel 2017 da Theresa May (appena 336.000 in più, con uno swing di un frazionale 1,2%). I Laburisti di Corbyn perdono, è vero 2 milioni e mezzo di voti rispetto a quello che nel 2017 aveva fatto il Labour dello stesso Corbyn, ma ottengono comunque quasi un milione di voti in più rispetto a quelli presi (vincendo) dall’ultimo Blair e 2 milioni in più rispetto a Gordon Brown nel 2010… E tuttavia, misurato sul numero di seggi ottenuti e sulla nuova composizione del Parlamento, subiscono una delle peggiori sconfitte della loro storia. Quello che ha determinato lo sbilanciamento nella distribuzione dei seggi a favore del populista ultraliberista Johnson è stato il cambiamento di colore di cinquantaquattro collegi, dal “red” al “blu”, in conseguenza esclusiva dell’”effetto Brexit”: il passaggio cioè di una parte dell’elettorato labour non tanto ai Tories quanto a Boris Johnson (il vero “azionista di riferimento” della Brexit), motivato dal messaggio chiarissimo di questo sull’uscita certa dall’Unione europea con il suo perentorio “Get Brexit done” mentre, sull’altro versante, pesava negativamente l’ambiguità mantenuta sulla questione da Jeremy Corbyn (molto penalizzanti sembrano essere stati i suoi contraddittori accenni a un possibile “secondo referendum”, in buona misura imposti dalla pressione dei blairiani interni ma che hanno permesso all’avversario di qualificare tutto il Labour come “the block Brexit Party”). Lo dimostra il fatto che tutte – tranne una, Colne Valley, nel West Yorkshire – le 54 Circumstancies (i Collegi) perdute da Corbyn a favore di Johnson (altre sei sono andate ai nazionalisti scozzesi) si trovano nella lunga lista di quelle che nel 2016 stavano sopra la soglia del 50% a favore del Leave, mentre in quelle a prevalenza Remain il Labour tiene i suoi voti o addirittura li aumenta.

La cosa è particolarmente evidente nella fascia di Collegi che costituiscono il famoso “Red Wall”: tutti i 24 “stronghold – le roccaforti – che erano stati “da sempre” labour e la cui perdita ha costituito le tanto citate brecce nel muro rosso (“what was once unthinkable”), avevano fatto registrare nel 2016 una maggioranza di consensi per il Leave vicina o superiore al 60%, in alcuni casi al 70%. Così è stato nel North East, zona di antico insediamento minerario e industriale, da sempre feudo rosso con percentuali bulgare e ora intaccato da una generale emorragia, che arriva fino a uno swing di 15-20 punti percentuali, e dalla perdita di ben 5 collegi, diventati nel dibattito post-elettorale pietre dello scandalo: Redcar (area siderurgica in disarmo), Darlington, Stockton South, Bishop Auckland (ex centri minerari) e l’ex seggio di Tony Blair Sedgefield, tutti con il Leave nel 2016 intorno al 60% (a Redcar addirittura al 68%), e tutti con l’UKIP nel 2015 piazzato tra il 15 e il 20% (e ora con il Brexit Party candidatosi, a differenza che altrove, con l’unico scopo di traghettare voti brexiter fuori dal labour). E così era stato un po’ in tutte le Midlands, la fascia che taglia trasversalmente l’Inghilterra, da Ovest a Est, dove era nata e si era affermata la Rivoluzione industriale inglese con la sua industria manifatturiera e il suo cuore di carbone, il cosiddetto Black Country con il suo capoluogo, Dudley, dove gli elettori avevano scelto sempre il Labour con distacchi a due cifre sui Conservatori, dove tre anni fa al Referendum avevano scelto il Leave col 71,4%, e dove il 12 dicembre hanno incoronato il conservatore Marco Longhi (nome e cognome non proprio inglesi) col doppio di voti – 23.134 contro 11.601 – rispetto alla laburista Sarah Melanie Dudley (non è un refuso: si chiama esattamente come il nome della propria città) con uno swing record di +17 per i Tories e -15 per i Labour

Nel suo lembo superiore, spostato verso Est, c’è lo Yorkshire, che nel 1984 era stato il baricentro dell’epica battaglia dei minatori della National Union of Mineworkers di Arthur Scargill contro la Signora Thatcher: un distretto minerario in progressivo disuso che aveva anch’esso sempre votato Labour, che nel 2016 aveva espresso un plebiscito per il Leave, e che ora in parte ha cambiato colore cedendo alle alcinesche seduzioni di Boris Johnson. Ha fatto scalpore – si potrebbe dire “scandalo” – il caso di Rother Valley, the seat with the longest history of backing Labour, 101 anni di sostegno ininterrotto, nelle cui vicinanze, il 18 giugno del 1984, si era svolta una violenta “confrontation” tra 6.000 picchettanti e 700 poliziotti: al Referendum sulla Brexit Rother Valley aveva votato Leave col 66,7%, alle elezioni del 2017 aveva ancora sostenuto il Labour di Corbyn con il 48% dei voti, ma il 12 dicembre ha premiato Boris Johnson e il suo “get brexit done” con un distacco abissale (i Conservatori sono saliti di 13 punti, i Laburisti ne hanno persi 16, il Brexit Party, che lì si è presentato, ha preso il 13%)… Allo stesso modo per Don Valley, anch’esso nel South Yorkshire, per 97 anni ininterrottamente Labour, al 68,5% per il Leave del 2016 e oggi coloratosi di blu con un distacco di 8 punti. E per Wakefield, West Yorkshire, 87 anni Labour, 62,6% Leave, oggi Conservatore con 7,5 punti di vantaggio…

A questo punto, però, è necessaria una precisazione. Quando parliamo di questi “distretti operai”, di tradizionale insediamento industriale e minerario, non dobbiamo pensare alla working class della nostra memoria, novecentesca con radici ottocentesche, fiera del proprio mestiere e della propria organizzazione “di classe”, quella delle Unions e degli Shop steward (i delegati di reparto, o di miniera) che aveva fatto la storia di questa parte dell’Old England. Parliamo, piuttosto di una composizione sociale sfatta, decomposta da un trentennio e più di politiche neoliberiste e di deindustrializzazione che hanno sfregiato il volto e l’anima delle antiche comunità operaie trasformandole in ghost communities. Queste erano terre dure e forti. Ora sono una terra desolata, una waste land, per dirla con Eliot… Come si legge in un bell’articolo sul sito de “I Diavoli” dal titolo shakespeariano, L’inverno del nostro scontento, qui “qualcosa si è rotto. Dopo le devastazioni thatcheriane e blairiane, la fine del modello di sviluppo occidentale ha lasciato macerie dappertutto. Visibili a ogni angolo di strada. Tra le chiazze di vomito e nelle pozze di piscio, nelle coperte degli homeless, negli sguardi spauriti dei migranti che fanno comunella, perché andare in giro da soli fa paura”. Le comunità operose di un tempo hanno lasciato il passo a solitudini rancorose, in cui la speranza del mondo nuovo e diverso conquistato dal e col “lavoro” ha ceduto alla consolazione cercata nell’alcool e nella droga, tra disoccupazione, sottoccupazione, dequalificazione, precarietà… E il “risarcimento” è affidato alla discriminazione dell’altro, del capro espiatorio, della figura “esterna” su cui scaricate frustrazione e rabbia spenta, il migrante della retorica right-populist. O, quando la si butta in “alta politica”, l’Europa, lontana eppure convocata in absentia quando si tratta di trasformare il degrado sociale in consenso politico.

Non stupisce, dunque, il voto del 12 dicembre. Perché il mondo alla rovescia che si è materializzato politicamente nelle urne è l’esatta fotocopia del mondo alla rovescia che si vede socialmente nelle strade. Come ha scritto un columnist del “Guardian”, Paul Mason, in un libro dal titolo per molti versi profetico, The Great Regression, “da quando l’utopia socialista è stata dichiarata impossibile da tutti, per prima dagli stessi partiti socialisti, la working class britannica ha cercato di ritrovare la propria identità perduta in quel poco che le era rimasto: il luogo, l’accento, la famiglia, l’appartenenza etnica”. Si è “chiusa dentro” – a doppia mandata – alla propria identità “storica”, nell’illusione, vana, che questo le possa restituire l’antico orgoglio e solidità di quel mondo perduto, rigettando “fuori”, all’esterno, le ragioni di una discesa che ha piuttosto radici “dentro”, e “sotto”, nell’underground di una società che ha prosciugato le proprie fonti di solidarietà e di sicurezza. E’ difficile avere idea del grado di regressione sociale consumatasi tra gli anni ’80 e oggi nella vecchia patria del welfare e del “lavorismo” trasformatasi in un paese dove una parte di popolazione non riesce ad alimentarsi adeguatamente (“i pasti gratuiti distribuiti dalle collette alimentari [sono passati] da quarantamila a un milione e seicentomila ogni anno”), i casi di malnutrizione sono triplicati, i tempi per effettuare un esame medico si sono dilatati a dismisura fino a renderlo inutile in caso di cancro o altre malattie terminali, gli edifici nei quartieri popolari non hanno più manutenzione e cadono a pezzi, i trasporti hanno raggiunto costi proibitivi e la scuola pubblica agonizza… Di fronte a questo le sacrosante proposte del programma di Corbyn (ripristino del welfare, tassazione della grande ricchezza, servizio sanitario nazionale restaurato…) non appaiono “troppo radicali” (come insinuano i tardivi fautori del disastroso corso ultra-liberista). Piuttosto troppo dilazionate nel tempo – gradualiste, si diceva un tempo -, lontane da raggiungere, complesse da elaborare, difficili da costruire dato l’attuale rapporto di forza sociale. Meglio affidarsi all’effetto istantaneo dell’Exit (surrogato della rivoluzione perduta). All’illusione della “via di fuga” mefistofelicamente proposta dall’ineffabile Boris, che è uscito da Eaton, è vero, ma mangia sporco come loro, parla rozzo come loro, e indica una soluzione apparentemente facile da ottenere, con una semplice crocetta sulla scheda e un grande bye bye all’odiato continente, come se fuori dall’Europa fosse tutto un altro mondo.

Post scriptum.

D’altra parte, a chi non riesce ancora a farsi una ragione di quell’esito nefasto delle General elections 2019, suggerirei di ritornare a dare un’occhiata alla lista del voto al Referendum del 2016, articolata per collegi: scoprirebbe che il Leave aveva prevalso in due terzi di quelle che in quel caso si chiamavano counting areas, mentre al Remain ne era rimasto solo un terzo. Poiché il conteggio in quel caso si faceva sul valore assoluto dei voti nel loro complesso (sulla scala dell’intero Regno unito) la distanza finale tra i due campi era stata relativamente ridotta (3,8 punti percentuali: 51,9% a 48,1%), per fatto che il Remain era concentrato nelle zone a maggior densità demografica come Londra mentre il Leave prevaleva nelle aree periferiche. Ma se proiettata sul sistema elettorale delle Elezioni politiche, in cui si applica il maggioritario secco con collegi uninominali, quella distribuzione territoriale del voto avrebbe significato una maggioranza di seggi ai sostenitori del Leave pari al 64%. E così infatti è stato oggi, in un’elezione dominata dalla polarizzazione del voto intorno all’alternativa secca “Brexit si/Brexit no”.  Sovrapponendo le due mappe del voto, quella relativa al referendum del 2016 e quella delle ultime elezioni politiche, risulterebbe infatti che poco meno di 250 constitiencies sulle 365 andate ai Conservatori (circa il 70%) e poco più di 150 delle 203 andate ai Laburisti (il 61%), si erano pronunciate per il Leave (come mostra il grafico qui accanto). Insomma, una vittoria schiacciante, preannunciata, nel momento in cui le Elezioni generali sono state di fatto trasformate in un “secondo Referendum” sulla Brexit.

18 dicembre 2019, da *volerelaluna.it

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