Lavagnino, Soldati e la musica da film

Viene svolgendosi in queste settimane nel territorio provinciale la 19^ edizione dellormai affermatissimoFestival Internazionale Angelo Francesco LavagninoCinema e Musica, nel ricordo del grande compositore genovese che fissò la sua dimora a Gavi, propiziato dallOrchestra Classica di Alessandria. Direttore artistico delluno e dellaltra è il Maestro Luciano Girardengo. Dopo il concerto di Castellania per il centenario della nascita di Fausto Coppi (15 settembre), lomaggio a Ennio Morricone per il 90° compleanno (tenuta La Marchesa di Novi, 22 settembre). Ecco ora leRiflessioni sulla Luna e dintornidel 4 ottobre con lastronauta Franco Malerba alla Sonic Factory di Tortona (4 ottobre) per avviarsi alla conclusione con gli omaggia Fabrizio de Andrè ventanni dopo(Palazzo Monferrato di Alessandria 11 ottobre) e la suiteSceneggiature in musicain memoria di Age e Scarpelli (Museo dei Campionissimi di Novi, 12 ottobre). Ci sarà infineLavagnino. Amarcord di colonne sonorein omaggio alla memoria di Carlo Savina nel centenario della nascita (Teatro Civico di Gavi, 26 ottobre). Nel corso degli ultimi tre appuntamenti, verranno consegnati gli annunciati premi rispettivamente a Mauro Pagani, Giacomo Scarpelli e Bruno Gambarotta. Si anticipa qui uno degli interventi previsti nella serata di sabato 5 ottobre, alle ore 21, presso la TenutaLa Scolcadella famiglia Soldati a Gavi. In nessuno degli appuntamenti sono mancati le ormai… classiche esecuzioni dei cameristi dell’Orchestra Classica…

Proviamo una volta tanto a partire dal punto di vista del musicista amzi che da quello della regìa, nel considerare la prospettiva riguardo alle colonne sonore.

Il maestro Angelo Francesco Lavagnino, alla cui opera e memoria è dedicato questo festival che sta per diventare ventenne, nel corso della sua lunga carriera, protrattasi per l’intero trentennio 1947-1977, collabora a oltre duecentoventi film di almeno centoventi registi diversi. Ritrovandosi, con estrema apertura e assoluta professionalità, tanto con le colonne storiche -e instancabili quanto lui- del cinema italiano (sei volte e con Camerini e con Steno) che con gli alfieri indomabili di un cinema popolare, capaci di riempire ogni sera orgogliosamente le sale negli anni d’oro in cui erano assai numerose e tuttavia proprio per questo si riempivano. Sette film, ad esempio, con il già abbondantemente rivalutato Umberto Lenzi; altrettanti con l’ancora da riscoprire Piero Pierotti, prolifico sceneggiatore e diretto di pepla, cappa e spada e biblici.

I rapporti tra i principali cineasti e i propri musicisti non sono mai stati né semplici né lineari. I casi di assoluta o almeno prevalente fedeltà reciproca risultano piuttosto rari. Esemplare quello Fellini-Rota, di cui il “Lavagnino” si è occupato analiticamente l’anno scorso, col determinante contributo d’eccezione di Federico Savina. Altrettanto illustre e rappresentativo quello di Hitchcock con Bernard Herrmann, che cominciò coi capolavori iniziali di Welles, ma tenne fermo per Hitch dalla Congiura degli innocenti (1955) al Sipario strappato (1966), venendo “promosso” a direttore d’orchestra-personaggio per il finale alla Royal Albert Hall della versione americana dell’Uomo che sapeva troppo (1956). Per poi passare immediatamente agli ordini dell'”allievo” hitchcockiano Truffaut per Fahrenheit e La sposa in nero (1966-67). Ma anche la nouvelle vague, con appunto Truffaut e il Godard dei primi anni in testa, avrebbe conosciuto i propri validissimi compositori di riferimento.

Prima di allora, in Francia, il grande Maurice Jaubert aveva fiancheggiato i soli anni d’oro di Carné del Fronte Popolare, dal Porto delle nebbie ad Alba tragica attraverso Albergo Nord. Prima di vedersi soppiantare dall’esule ungherese Joseph Kosma, già lanciato con fervida convinzione dal… competitore Renoir, che avrebbe accompagnato per un lungo tratto all’inizio della sua gigantesca carriera, per ritornare con lui con gratitudine negli anni estremi della parabola di entrambi (Le strane licenze del caporale Dupont, Il\ teatrino di Jean Renoir, 1962-70) secondo un meccanismo non raro. Altro abbinamento proverbiale di musicista è quello di uno dei maestri riconosciuti della composizione contemporanea, Michael Nyman, che addirittura esordisce per lo schermo coi primissimi corti dell’altrettanto giovane e debuttante Peter Greenaway (siamo nel ’67) e continua con lui sistematicamente. Raccoglieranno così in coppia i successi mondiali del Giardino di Compton House e de Lo zoo di Venere, de Il cuoco e il ladro e dell’Ultima tempesta. Per poi “professionalizzarsi”, Nyman, anche nel settore schermo fino al plebiscito mondiale quasi senza precedenti di Lezioni di piano con Jane Campion.

Visconti, quando non è ricorso, come ha fatto in prevalenza direttamente, da competente appassionato impareggiabile, al repertorio classico della lirica o della sinfonica (per Bellissima, Senso, Vaghe stelle, Morte a Venezia e Ludwig), ha spesso cambiato cavallo, confermando però stabilmente lo stesso Rota da Notti bianche al Gattopardo e… accontentandosi -si fa per dire!- del cognato Franco Mannino per i conclusivi Gruppo di famiglia e L’innocente.  De Sica sarà invece proverbialmente fedele al suo Alessandro Cicognini per tutto il suo decennio maggiore, da Sciuscià (1946) al Tetto, ritornando con lui un’ultima volta con Il giudizio universale (1961), prima del ritiro dall’attività del maestro quattro anni dopo, per poi passare con Armando Trojavoli (quindi sempre in zona e scuola Lavagnino indirettamente siamo…) e concludere la carriera affiancandosi il compianto figlio Manuel. Antonioni è un altro esempio di fedeltà prevalente: a favore di Giovanni Fusco, che fu tra i primi a specializzarsi in colonne sonore già negli anni Trenta. Con le sole discontinuità dell’indimenticabile jazz di Giorgio Gaslini per La notte, e dell’ulteriore concorso della figlia dello stesso Fusco, Cecilia e di Carlo Savina  (con Vittorio Gelmetti per la componente elettronica) in Deserto rosso. Scoprendosi infine ecletticamente internazionale nella produzione successiva.

Bellocchio, i Taviani e Moretti con Piovani: il primo cì è appena ritornato con Il traditore dopo averlo seguito immutabilmente per un decennio lontano, da Marcia trionfale a Gli occhi, la bocca (1972-82); i “fratelli sublimi” (copyright J.-M. Straub…) sono stati con lui dalla Notte di San Lorenzo (stesso ’82) a Tu ridi (1998); Moretti da La messa è finita (1985) a La stanza del figlio (2001). Lo stesso Fellini gli si era poi rivolto, dopo la scomparsa prematura di Rota e qualche differente incontro, nella parte conclusiva della carriera, da Ginger e Fred (1985) a La voce della luna (1990).

Rossellini si è avvalso del fratello minore musicista Renzo (molto in auge sugli schermi italiani dall’ultimo anteguerra al dopoguerra immediato) da Un pilota ritorna fino a La paura (1942-54) per farlo poi tornare anch’egli con sè alla vigilia dell’abbandono del cinema narrativo per la tv divulgativa (Generale della Rovere, Era notte a Roma e Viva l’Italia!, 1959-61). De Sica stesso si era avvalso regolarmente di Renzo Rossellini ai rispettivi esordi, da Rose scarlatteI bambini ci guardano (1940-43).

Si potrebbe continuare a lungo, ma sempre un po’ con la testa nel sacco, dal momento che purtroppo nella critica cinematografica italiana le competenze musicali sono piuttosto rade e stentate. Soprattutto da quando, in particolare, la scomparsa sette anni fa di Ermanno Comuzio, che per fortuna ha peraltro fatto in tempo a lasciarci i due fondamentali volumi di Musicisti per lo schermo (Dizionario ragionato dei compositori cinematografici, Ente dello Spettacolo, Roma 2004) ha lasciato un po’ tutti orfani al riguardo.

Mario Soldati, per parte sua venendo finalmente a lui, nella scelta dei suoi accompagnatori quanto al pentagramma, si è dimostrato curioso e a sua volta eclettico, come nel resto della sua attività creativa e produttiva. Nella sua trentina abbondante di film ha coinvolto una dozzina di musicisti, esprimendo a propria volta, come Fellini, una spiccata predilezione per Rota (che gli firmerà nove spartiti tra il Travet del ’46 e il quasi conclusivo Italia piccola undici anni dopo), contando su Nascimbene per i quattro titoli comici o comunque popolari che congeda rapidamente all’inizio degli anni Cinquanta. Dopo aver frequentato per tre volte Giuseppe Rosati (che era stata anche la prima opzione esercitata dal Visconti esordiente di Ossessione), annoverando anche lui tanto un Cicognini (La mano dello straniero) quanto un Mannino (La provinciale), non senza, anche per lui, un antecedente Renzo Rossellini (Eugenia Grandet).

Da questo punto di vista il suo incontro con Angelo Francesco Lavagnino, quando già sta meditando l’abbandono del cinema per la scelta definitiva e irreversibile della scrittura, ma ci è ancora coinvolto e ci tiene orgogliosamente altrettanto, diventa particolarmente interessante. Al centro de La donna del fiume c’è il compiersi del lancio con affermazione definitiva di Sophia Loren, che non è più né Scicolone né Lazzaro, all’epilogo dell’operazione settennale pianificata col contratto all’americana che Carlo Ponti le ha fatto sottoscrivere all’inizio del decennio Cinquanta. Si è già affermata irreversibilmente l’anno prima con il De Sica de L’oro di Napoli. Si confermerà con questo nuovo film, in sè non particolarmente robusto né convincente, ma di facile presa sul pubblico, grazie anche all’abilità e alla sapienza di Lavagnino. Un successo internazionale che toccherà gli schermi non solo degli Stati Uniti ma addirittura del Giappone.

Il Maestro, per parte sua, una forte caratura produttivo-internazionale l’aveva, all’epoca, già sortita. Lavorando addirittura con Welles per l’Otello (dopo averlo conosciuto l’anno precedente, quando recitava nell’Uomo la bestiz e la virtù da Pirandello agli ordini dell’amico Steno, musicando il film: ne sarà richiamato per il Falstaff del ‘66).  Sarà poi con Rossen per Mambo (dove c’è anche lo zampino di Rota) appena prima del mambo bacan inventato con il discepolo Trovajoli appunto per La donna del fiume. Incontrerà in carriera ancora, specie nelle loro escursioni italiane, le grandi firme della regìa internazionale dell’epoca: Delannoy (Il gobbo di Notre-Dame, Venere imperiale), Hathaway (Timbuctù), Koster (La maja desnuda), Nick Ray (Ombre bianche), Ritt (Jovanka e le altre), Walsh (Ester e il re), Johnson (La sposa bella) e in uno splendido finale di carriera il grande e troppo rimosso Bogdanovich di Daisy Miller.

Anche Soldati lascerà definitivamente il set dopo due prestigiosissime direzioni di seconda unità per la “Hollywood sul Tevere” caratteristica di quegli anni affluenti: per Guerra e pace con Vidor (sua la magnifica Beresina… al Po di Valenza!) e addirittura Ben Hur con Wyler. Il magnifico Policarpo, ufficiale di scrittura del ’58 è invece uno stupendo addio personale alla regìa, che fa trasparire la profondità gravida di sfumature del “sapere” letterario e umano di Soldati, che si conferma per l’ennesima volta anche magnifico selettore e direttore di attori. Un’atmosfera che Lavagnino capta fin nelle intime fibre e valorizza da par suo, in perfetta sintonia con un’altra serie di apporti artistici supremi: l’al solito magistrale fotografia di Rotunno, il montaggio dell’intramontabile Serandrei, le scene di Mogherini e soprattutto i costumi di Tosi.

Torna alla mente la celebre ma sostanzialmente esatta battuta di Igor Stravinskij: «Per me la miglior musica per film è quella che non si sente». Posizione paradossale ma veridica: da questo punto di vista, ad esempio, un Renzo Rossellini potrebbe essere considerato (anche se in fondo nel primissimo dopoguerra la sua indomita magniloquenza potrebbe aver rivestito una sua compiuta ragion d’essere) agli antipodi. Il maestro Lavagnino, anche nella misura, nella discrezione -in una parola: nel magistero dello stile- vi si è dimostrato, assai spesso, magnificamente concorde coi fatti. Essere assoluti e veri artisti si dimostra anche, se non soprattutto, nel saper “togliere”.

 

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