Le radici totalitarie del neoliberismo. II: Friedrich Von Hayek e il culto del monetarismo economico

Abbiamo definito il neoliberismo come il nuovo totalitarismo del ventunesimo secolo, e più precisamente come un totalitarismo nichilista. Al pari dei suoi predecessori novecenteschi del nazifascismo e del comunismo di stato, tale nuovo totalitarismo, tanto nella sua teoria che nella sua prassi, non si presenta come un universalismo che ingloba, valorizza e integra le sue singole parti, come un «organismo vivente», ma come un elemento che «cannibalizza » e riduce ad unum le sue singole articolazioni e componenti, le «necrotizza». Come ogni forma di totalitarismo anche il neoliberismo tende ad occupare ogni ambito dell’esistenza, personale e collettivo, oggettivo e soggettivo ( o interiore). Questo elemento totalitario si manifesta come «un mostro» bicipite, una sorta di Cerbero ( o di Leviatano) a due teste che da un lato si esprime come «monetarismo» economico ( essendo la teoria economica il luogo originario in cui esso si forma) e dall’altro lato come individualismo radicale ( essendo l’antropologia filosofica e la filosofia politica i luoghi naturali in cui esso si estende).

L’aggettivazione di «nichilista» al totalitarismo neoliberista si richiama evidentemente alla celebre definizione data dal filosofo Nietzsche alla modernità come processo del nichilismo che presenta le seguenti caratteristiche : «non c’è un perché, manca lo scopo, ogni valore si svaluta».

Dunque il nichilismo è quel processo che fa sprofondare tutto il mondo dei valori tradizionali rendendolo un deserto per il semplice fatto che un nuovo sistema di valori non si sostituisce ad esso. Questo concetto di nichilismo trova una perfetta corrispondenza nei pilastri del neoliberismo, monetarismo economico e individualismo radicale, là dove una determinata dottrina e prassi economica sostituiscono il valore del prezzo di mercato in denaro di ogni cosa al valore del lavoro che conosce il suo esito nei beni e servizi da esso prodotti, o nel campo dell’antropologia filosofica la nuda roccia dell’individuo quale mero portatore di pulsioni e desideri da soddisfare, l’homo economicus o homo homini lupus, sostituisce la natura umana quale zoon politikon, animale comunitario o politico, o quale soggetto filosofico, che riflette e conosce sé stesso.

A questa dottrina ben si applica la traiettoria di esistenza e l’opera di un giustamente considerato alfiere del neo liberismo del ventesimo secolo: Friedrich Von Hayek.

Per chi ha qualche dimestichezza con la figura e l’opera dell’economista austriaco, Von Hayek è passato nell’opinione pubblica come l’antagonista principe del più celebre economista del ventesimo secolo : John Maynard Keynes. Secondo la vulgata Von Hayek sarebbe stato una sorta di contraltare costante, nel campo della dottrina e prassi economica, a Keynes, quale si fosse trattato di un duello tra loro due, pari a un Fraser per Cassius Clay nel mondo del pugilato, o a un Fisher per Karpov nel mondo degli scacchi.

Le cose sono andate così? Non propriamente , o più precisamente solo per un breve periodo, come vedremo. Potremmo anticipare che il duello sulle teorie economiche ha occupato solo la prima fase del loro confronto, mentre la seconda fase ha impegnato Von Hayek nel campo dell’antropologia e della filosofia politica. La dottrina economica del monetarismo è tornata in auge solo quando ormai Keynes era morto da tempo e Von Hayek era fuori gioco, anch’egli da lungo tempo.

Si può seguire una traiettoria nell’opera e nel ruolo svolti da Von Hayek, una traiettoria che a partire dai suoi esordi nel campo della teoria economica, si sviluppa nella dottrina del «monetarismo», in un contrappunto costante con il pensiero e l’opera di Keynes, per poi, una volta confutata quella dottrina e dai fatti e dalla teoria economica antagonista del pensatore inglese, riversarsi, in una seconda fase, nella filosofia politica e nell’antropologia filosofica dell’individuo. Come vedremo, questo secondo polo della sua ideologia era già implicito nel suo monetarismo, da cui di conseguenza è opportuno partire.

Von Hajek esordisce in economia nel primo dopo guerra in Austria. Il quadro storico, politico, economico e sociale che presentano l’Austria e la Germania, a partire dal 1918, quale conseguenza dell’essere i due Imperi centrali usciti sconfitti dalla prima guerra mondiale, è quello di devastazioni delle infrastrutture e delle imprese produttive dovute alle conseguenze belliche e alle richieste di riparazioni per i danni di guerra causati, da parte delle potenze alleate vincitrici. Ulteriore conseguenza di tale situazione è un caso tipico di iperinflazione, una domanda di merci, beni e servizi sproporzionata all’offerta possibile degli stessi nella situazione data. Ciò tipicamente causa il decollo dei prezzi delle merci primarie, il crollo dei risparmi delle famiglie, la svalutazione totale del valore delle banconote e dei buoni del tesoro ( titoli pubblici) emessi dallo Stato, sostanzialmente il loro ridursi a carta straccia.

E’ in questo contesto che Von Hayek entra in contatto con la Scuola austriaca di economia . La scuola austriaca porta avanti la cosiddetta dottrina neoclassica del «marginalismo», originariamente elaborata dall’economista britannico Alfred Marshall ( maestro di studi del giovane Keynes), dandole uno sviluppo e una torsione particolari. Secondo la dottrina dell’utilità marginale dal lato della domanda il margine di valore ( determinabile secondo il suo prezzo in denaro) di un determinato prodotto al suo acquisto diminuisce al crescere delle unità di acquisto di uno stesso prodotto. Secondo Marshall il consumatore entra sul mercato delle merci allo scopo di ottenere dai propri acquisti delle soddisfazioni ( appagamenti/ godimenti di un bene ) o utilità ( benefici strumentali).

Ma la somma complessiva di soddisfazione ( godimento e utilità) ottenibile da una singola unità di una data merce era strettamente collegata al numero di unità acquistate. Si poteva prevedere che con l’assommarsi di ogni unità ulteriore, l’aumento della soddisfazione ( godimento /utilità) totale – ossia l’utilità addizionale o «marginale» ( ulteriore) – sarebbe andata diminuendo. Il consumatore razionale di conseguenza sarebbe stato disposto a pagare l’ultima unità meno delle precedenti; la stimolazione ad ulteriori acquisti sarebbe potuta avvenire solo con una riduzione dei prezzi .

Con la somma delle singole unità di domanda e acquisto di un determinato prodotto si disegna il «piano cartesiano» della curva matematica della domanda, che vede l’asse dei prezzi sull’asse delle ordinate ( delle y) e l’asse delle quantità domandate della merce sull’asse delle ascisse ( delle x). Al decrescere della domanda di un determinato prodotto decresce di conseguenza il suo valore o prezzo in denaro.

Congiungendo questa curva marginale della domanda di un prodotto o merce con la corrispondente curva marginale della produzione o offerta dello stesso prodotto, secondo cui ogni unità aggiuntiva della merce comporta un costo marginale crescente di produzione, si otterrebbe il diagramma matematico del funzionamento del processo economico di mercato secondo la dottrina neoclassica marginalista.

Nella visione originaria di Marshall questo meccanismo di funzionamento delle merci sul mercato svolgerebbe due importanti funzione equilibratrici del medesimo: 1) impedirebbe, tramite la libera ( «democratica»), utilitaristica scelta del consumatore di non acquistare o di ridurre l’acquisto di ulteriori unità di un prodotto, la crescita inflazionistica del suo prezzo, anzi al contrario indurrebbe alla sua decrescita; 2) con il costo marginale crescente della produzione delle unità di merci verrebbe salvaguardato il principio della libera, egualitaria nelle premesse, pluralistica e molteplice concorrenza dei diversi attori economici sul mercato, poichè si renderebbe impossibile l’affermazione di una posizione di dominanza di pochi produttori e venditori ( cioè l’affermazione di monopoli/ oligopoli) con la conseguente distorsione del giusto, spontaneo. «democratico», prezzo di mercato della merce.

Ma il processo economico di mercato funziona veramente così? A distanza di decenni, dall’alto della visione del crollo del laissez faire liberista e con esso della stessa dottrina neoclassica in seguito alla Grande Depressione del 1929, John Maynard Keynes avrebbe osservato riguardo l’economia neoclassica : «essa rappresenta il modo in cui vorremmo che la nostra economia si comportasse; ma supporre che essa di fatto si comporti così significa supporre come inesistenti le difficoltà con le quali abbiamo a che fare».

La raffinata struttura logico- matematica del neoclassicismo ignorerebbe i molteplici fattori reali che ad es. influenzano e distorcono la libera, egualitaria e equilibrata formazione dei prezzi delle merci sul mercato, o che consentono la nascita, lo sviluppo e la permanenza pressochè perenne di posizioni dominanti sul mercato dal lato della produzione / offerta di merci, ossia l’affermazione di monopoli/ oligopoli in molti settori dell’economia, da cui consegue che il gigantismo e i grandi investimenti in innovazione tecnologica delle strutture produttive abbatte i costi crescenti di produzione, fissa con una posizione di dominanza ( con i cosiddetti «cartelli») il prezzo delle merci sul mercato, al rialzo o al ribasso, senza che il mercato possa nel suo complesso riequilibrare questa situazione, elimina di fatto la concorrenza degli attori economici che non sono in grado di sostenere questa sfida.

Dal lato della domanda la standardizzazione dei consumi dei beni primari, scarsamente differenziati tra di loro, non induce la stragrande massa dei consumatori a ridurre l’acquisto e consumo delle unità di queste primarie tipologie di merci, e quindi non può influenzare la determinazione del loro prezzo. E questo vale anche per il prezzo o costo della «merce delle merci», il puro valore di scambio senza il quale nessun prodotto potrebbe essere scambiato sul mercato: la moneta. I processi speculativi che s’innescano sulla «tesaurizzazione» del denaro, sul suo essere trattenuto rispetto ai «normali » processi di reinvestimento,per essere deviato verso giochi finanziari, sono causa delle gigantesche bolle speculative, principali fonti dei «cicli» economici, le fasi di crisi e paralisi del sistema economico.

Dunque il prezzo di mercato delle merci, compreso la moneta stessa ( il suo «tasso d’interesse»), come simbolo dell’autoregolazione, dello spontaneo equilibrio del sistema economico, non si presenterebbe affatto né come equilibrato, né come spontaneo.

Abbiamo qui riassunto, a grandi linee, il quadro della teoria economica neoclassica di Alfred Marshall e delle sue intrinseche contraddizioni, per potere poi valutare con esattezza quale sia stato il contributo o sviluppo a questa dottrina verso il «monetarismo» dato dalla scuola economica austriaca. Già il caposcuola della dottrina economica austriaca, Karl Menger, e ancora prima di lui il suo maestro Von Vieser, accentuano il ruolo del prezzo di mercato della merce nel determinare l’unità valore del processo economico, nell’essere la chiave di funzionamento del sistema di mercato.

L’ottica originale dell’interpretazione dell’utilità marginale del prodotto acquistato, in Menger era data dalla considerazione che maggiore è la quantità di un determinato bene acquistato e consumato, minore è la sua valorizzazione sotto forma di prezzo ( è la teoria del meccanismo dell’antinflazione o dell’antidoto all’inflazione dei prezzi delle merci) perché la domanda è soddisfatta o appagata da una presenza abbondante della merce sul mercato e non è disponibile a un aumento del prezzo della medesima, giustificabile solo da una sua presenza rarefatta .

Anche per quanto riguarda la contrapposizione tra un’interpretazione che privilegia un utilizzo meramente quantitativo o strumentale della moneta ( la moneta come semplice strumento regolatore del rapporto tra risparmi e investimenti, per cui anche il suo costo o «tasso d’interesse» è subordinato a questo ruolo) o quella che antepone un suo uso «qualitativo» ( la moneta come un valore in sé, tesaurizzabile o per scopi speculativi o per necessità primarie di risparmio), i neo classici austriaci danno uno loro sviluppo originale alla prima opzione.

Ciò avviene attraverso la formulazione del concetto di «costo opportunità» di un prodotto.

Secondo tale concetto i consumatori sono obbligati a scegliere un ‘alternativa tra merci tra di loro concorrenti: se compri vino non compri birra, se investi i tuoi soldi rinunci agli interessi, se rivendi l’investimento rinunci al guadagno futuro procurato dal suo profitto, etc. Sulla base di questo concetto la scuola austriaca sviluppa la teoria dei «vari stadi della produzione » durante i quali i produttori rinunciano a un bene per formarne un altro più prezioso (più profittevole) in un secondo tempo ( per cui i risparmiatori sarebbero indotti a rinunciare alla tesaurizzazione/ ritenzione del loro capitale in denaro per reinvestirlo).

Un ulteriore sviluppo di tali dottrine, legato direttamente alla constatazione oggettiva delle contingenze storiche in corso nell’Austria del primo dopoguerra, e cioè dei processi di iperinflazione dei prezzi delle merci e della moneta in genere, fu quello apportato dall’ ‘economista austriaco Von Mises, che elaborò la dottrina del «monetarismo» secondo cui l’inflazione dipendeva dal quantitativo di moneta emesso sul mercato dallo Stato, per cui un eccesso di moneta sotto forma di spesa pubblica o di titoli di Stato, era responsabile del crollo del valore del denaro. Secondo il monetarismo era di conseguenza necessaria una rarefazione dell’emissione della moneta o più semplicemente un non intervento in prima persona dello Stato nel processo economico.

Unicamente in questa fase la dottrina monetarista austriaca e gli inizi della dottrina economica di Keynes trovano un punto di contatto, di convergenza.

Infatti nel suo saggio Trattato sulla riforma monetaria ( 1923) Keynes osserva che, ancora prima degli esiti della guerra, la necessità degli Stati di finanziarsi le spese di guerra e quindi di stampare moneta, aveva innanzitutto stravolto il rapporto di cambio tra le singole valute nazionali, agganciato prima della guerra al valore standard dell’oro, e poi, a partire dal 1918, Germania e Russia erano giunte a un processo di stampa della moneta e conseguente inflazione del suo valore tale che «la valuta è praticamente inutile ai fini del commercio con l’estero».

I due fenomeni, l’iperinflazione e il crollo del valore delle valute, tra di loro strettamente interconnessi, richiedevano per Keynes una decisione secca: o si fissavano e stabilizzavano i prezzi interni agli Stati delle merci, frenando il processo inflazionistico, o si tenevano fissi i cambi tra le diverse valute agganciandoli al valore dell’oro ( un valore stabilito dalle banche centrali), continuando nella salita inflazionistica dei prezzi : tertium non datur.

Di conseguenza o si trovava un equilibrio nel mercato interno e si squilibrava la bilancia dei pagamenti tra importazioni ed esportazioni, oppure si equilibrava la bilancia dei pagamenti con l’estero ma si permetteva così la continuazione dello squilibrio del mercato interno.

Come soluzione Keynes propose un nuovo ordine che fissava le monete, nei loro rapporti reciproci, ai loro prezzi attuali ( inflazionati) e permetteva alla sterlina una rivalutazione non superiore al 6 % annuo. Egli era convinto che il prezzo da pagare per riportare le moneta alla parità di cambio di prima della guerra sarebbe stata una deflazione massiccia ( continua discesa dei prezzi) accompagnata da alti tassi d’interesse ( il costo del denaro) e dalla vendita di merci all’estero in quantità pari a quelle che venivano importate ( bilancia dei pagamenti in equilibrio), ossia «lavorare come schiavi» ( per il prevedibile crollo degli stipendi e dell’occupazione, deflazione salariale e occupazionale). Per Keynes ci voleva non inflazione dei prezzi ma la loro stabilità per evitare nuove feroci ingiustizie alle famiglie europee. Keynes inoltre in quel saggio suggeriva ai governi nazionali di gestire l’economia in prima persona, una linea di pensiero che lo allontanava da Mises, Hayek e dagli adepti del libero mercato autoregolantesi.

Infatti a differenza di Keynes Von Mises e Von Hayek credevano che le forze naturali del mercato fossero perfettamente in grado di operare per ricondurre ad un equilibrio e per porre ordine in un ‘economia fluttuante nel valore della moneta e nei prezzi.

Keynes invece considerava inaccettabile la non regolamentazione statale del livello della moneta ( dell’immissione di moneta ) o del livello dei prezzi dei prodotti interni.

Inoltre Keynes non era convinto dalla teoria del suo vecchio maestro Marshall secondo cui un sistema economico sul lungo periodo si assesterebbe da solo, fino a raggiungere la piena occupazione.

Al contrario Hayek riteneva che la libertà di determinazione dei prezzi delle merci sul mercato avesse come scopo principale quello di distribuire le risorse scarse ( oggi il concetto di «risorse scarse » risulterebbe anacronistico di fronte alla constatazione della capacità produttiva sconfinata data dall’enorme sviluppo delle innovazioni tecnologiche).

Per lui la possibilità degli individui di determinare il prezzo delle merci sul mercato ( ammesso che questa possibilità esistesse davvero, ndr. ) corrispondeva alla loro libertà fondamentale di esprimere la loro opinione sul valore di un bene o servizio ( una sorta di libertà di voto «merceologico»).

Keynes in quel saggio ribatteva indirettamente ( perchè allora non conosceva le posizioni di Hayek ) che solo l’intervento diretto dello Stato poteva sanare una condizione estesa e prolungata di disoccupazione, riducendo i tassi d’interesse sul denaro, emettendo nuovi titoli di Stato, e impiegando direttamente i disoccupati in lavori pubblici con le entrate fiscali. Anticipando quello che sarà un suo concetto chiave in futuro, Keynes parla già del principio del «moltiplicatore» come stimolo fondamentale alla crescita dell’economia, un principio che per la sua attuazione richiede nuove iniezioni di liquidità nel sistema che non dipendano dall’usura ( tassi speculativi) del finanziamento da parte dei mercati finanziari. A questo proposito osservava Keynes : « Il laissez faire affidava il benessere pubblico all’impresa privata senza aiuti e controlli. L’impresa privata non è più incontrollata, essa è controllata e minacciata in molti modi ( principalmente dalla concorrenza sleale degli oligopoli e monopoli delle multinazionali, ndr.) . E se l’impresa privata non è incontrollata, non possiamo lasciarla senza aiuti».

Agli occhi di Keynes il liberismo era falso, illogico e superato dagli eventi. In una celebre conferenza di quegli anni, intitolata La fine del laissez faire, Keynes ricordava che gli economisti classici ( Smith, Maltus, Mill, Bentham e Ricardo) avevano sviluppato la dottrina secondo cui, in base al funzionamento delle leggi «naturali» dell’economia, gli individui che fanno i propri interessi saggiamente e in condizione di libertà tendono sempre e ovunque a promuovere l’interesse generale ( il bene pubblico era sempre la somma degli egoismi individuali).

Keynes a questo proposito osservava che questo affidarsi all’ interesse del singolo aveva come esito la fine della politica, poiché « il filosofo politico potrebbe anche farsi da parte a favore dell’uomo d’affari dato che questi potrebbe ottenere il sommo bene del filosofo soltanto perseguendo il proprio profitto».

Secondo Keynes questo modo di ragionare conduceva in modo implicito o esplicito all’affermazione della dottrina del «darwinismo sociale», per cui la sopravvivenza del più adatto era adatta a spiegare anche il comportamento economico.

Osservava ancora Keynes in quella conferenza: « «Non è vero che gli individui possiedono una libertà naturale, normativa, nelle loro attività economiche. Non esiste un accordo che conferisce diritti perpetui a coloro che hanno o a coloro che acquistano. Il mondo non è governato dall’alto in modo che l’interesse privato e sociale coincidano sempre. Non è una corretta deduzione dai principi dell’economia asserire che l’egoismo illuminato operi sempre nel pubblico interesse. Non è vero che l’egoismo sia di solito illuminato ; più spesso gli individui che agiscono per promuovere i loro propri interessi sono troppo ignoranti o troppo deboli per ottenerli. L’esperienza non dimostra che gli individui quando formano un’unità sociale, sono sempre meno lucidi di quando agiscono separatamente». Keynes combatteva quelli che riteneva i dogmatismi primitivi di ambo le parti ( l’individualismo e il collettivismo).

Hayek da parte sua, riprendendo le argomentazioni di Mises, cominciò ad analizzare il rapporto tra denaro, prezzi e disoccupazione. Studiando il funzionamento della Federal Reserve ( la banca centrale americana) Hayek osservava che, contrariamente a quello che pensavano i più alti funzionari della Fed, non era possibile eliminare il succedersi di boom e recessioni di cicli economici. Si poteva forse ridurre entro certi limiti le fluttuazioni più esasperate, ma la meta della liberazione dal ciclo economico ( tutto sommato corrispondente alla profezia marxiana sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, ndr.) rimaneva una chimera, a suo parere.

Per mantenere i prezzi delle merci stabili i governatori della Fed aumentavano i tassi di sconto ( riducevano i tassi d’interesse) sul denaro e vendevano titoli del tesoro, come invocava Keynes in quel Trattato, ma secondo Hayek l’indice dei prezzi delle merci era uno strumento rozzo e generico non in grado di cogliere le fluttuazioni dei prezzi delle singole merci e di conseguenza fuorviante sull’adeguamento dei tassi generali d’interessi. Appoggiandosi al mantra della scuola austriaca di economia, ribadito da Von Mises, la banca centrale americana ( FED) abbassando i tassi d’interesse sul costo del denaro ( sui titoli e finanziamenti in genere), interferiva sul rapporto «naturale» tra risparmi e investimenti.

Per rapporto naturale essi intendevano quella dottrina che interpretava la seconda legge di Say, secondo la cui interpretazione «naturalmente» i risparmi dei singoli corrispondono ( in quantitativo di circolazione monetaria ) agli investimenti intrapresi (il risparmiatore non tesaurizza nulla dei suoi risparmi ma li reinveste automaticamente e completamente, o comunque è indotto a farlo dagli «aggiustamenti » del tasso d’interesse del denaro), da cui deriverebbe un «tasso naturale» del costo del denaro. Il tasso d’interesse «naturale» del denaro secondo i neoclassici era una conseguenza diretta del rapporto tra risparmi e investimenti: se troppa gente risparmiava i tassi d’interesse cadevano, incoraggiando così gli investimenti nelle imprese allo scopo di massimizzare il profitto o rendimento; se troppo pochi risparmiavano i tassi d’interesse salivano per attirare più risparmiatori ( Keynes con la sua opera si sarebbe impegnato a confutare questo caposaldo dell’economia neoclassica introducendo il concetto di «preferenza per la liquidità» da parte del risparmiatore).

A fronte di questo movimento di armonizzazione o di autoequilibrio delle parti contraenti il mercato dell’offerta e della domanda, le banche ( centrali e private), a giudizio di Von Hayek, lo modificherebbero con la loro azione, producendo un loro proprio «tasso d’interesse di mercato» ( un costo del denaro fissato da esse stesse). La differenza tra i due tassi, a parere degli economisti austriaci, era la causa del «ciclo economico» ( la fase di crisi del processo economico).

I banchieri centrali non potevano determinare con esattezza quale fosse il «tasso d’interesse naturale» e per questo motivo inevitabilmente fissavano il «tasso di mercato» ( d’interesse o di credito del denaro) a un livello erroneo e quindi innescavano le espansioni o le frenate del ciclo economico.

Il «tasso d’interesse naturale » del denaro, assunto come un ‘icona da Mises e Hajek, per loro significava neutralizzare, normalizzare o «naturalizzare » il ruolo del denaro nel mercato economico, e di conseguenza ridurre al minimo l’intervento della banca centrale sul mercato del denaro, per cui le fluttuazioni dei processi economici, a loro avviso comunque inevitabili e ineliminabili, avrebbero avuto altre cause ( ad es. il cambiamento dato dallo sviluppo di nuovi prodotti e da nuove scoperte tecnologiche).

Al fondo della sua concezione, per cui i processi economici si presentavano come «forze eterne, immutabili,naturali», pari agli elementi della natura, su cui era inutile che i governi interferissero, prevaleva in Von Hajek una visione pessimista, fatalista, e l’accettazione di quello che Keynes avrebbe rilevato come «darwinismo sociale», l’applicazione del principio della selezione delle specie naturali e dell’evoluzione e della sopravvivenza dell” «esemplare » o individuo più forte, alla società umana.

Al contrario Keynes riteneva che fosse dovere dei governi nazionali intervenire in prima persona nel processo economico per fini di benessere, giustizia sociale e felicità dei suoi cittadini e che un governo competente sul funzionamento dell’economia poteva ridurre gli effetti più devastanti della fase ciclica dei processi economici.

Per Keynes l’uomo poteva essere padrone del proprio destino mentre per Hayek l’uomo era destinato a vivere secondo le leggi naturali dell’economia, al pari di tutte le altre leggi di natura. Il fatalismo di Hayek sull’impossibilità dell’uomo di sfuggire a tale destino naturale si contrapponeva alla fiducia di Keynes che la vita umana poteva essere migliorata a patto che chi detiene il potere agisca per tali scopi di felicità del genere umano.

A Grande Depressione economica del 1929 già innescata, e precisamente nel 1930, nel suo Trattato della moneta, Keynes destruttura o decostruisce la teoria del tasso naturale dell’interesse ( costo ) del denaro, elevata a feticcio dagli economisti austriaci ( una peculiare interpretazione della Seconda Legge di Say ) dimostrando con i dati che non è vero che la quantità di risparmi è identica a quella degli investimenti ( che pressoché nessun risparmio veniva tesaurizzato).

Per Keynes vi era uno squilibrio tra i due perché un gruppo d’individui tendeva a risparmiare ( ad accordare una «preferenza per la liquidità») mentre un altro gruppo tendeva ad investire. Quando la quantità di denaro investita ( in mezzi di produzione o in consumi, o in debiti/ crediti) era maggiore di quella risparmiata, il risultato era un boom accompagnato da inflazione ( c’era cioè una grande circolazione o flusso di denaro). Viceversa quando i risparmi prevalevano sugli investimenti ( quando c’era rarefazione del flusso di moneta sia pubblico che privato che delle banche commerciali) ne scaturiva una recessione o depressione accompagnata da deflazione ( di prezzi e stipendi) e disoccupazione .

Keynes ipotizzava che il reddito totale di un’economia risultasse dalla vendita sia di beni di consumo che di mezzi di produzione. Si potevano ipotizzare due poli opposti o estremi:1) se non c’erano risparmi e il reddito totale veniva speso in beni di consumo, il prezzo di quest’ultimi sarebbe salito ( per la grande domanda) e ci sarebbe stato un boom . 2) Di contro se tutto il reddito era risparmiato, il prezzo dei beni di consumo sarebbe crollato e le industrie sarebbero fallite.

Quindi l’inflazione poteva essere fermata incrementando i risparmi e una recessione mitigata aumentando gli investimenti compresi i consumi e i crediti/ debiti. Keynes postulava che la causa dell’alternarsi di boom e crisi nel ciclo fosse l’attività delle banche che però ne possedevano anche la cura. Le banche creavano credito senza considerare la tendenza o la capacità di una comunità di risparmiare.

Le banche decidevano il livello di prestito senza considerare il livello di risparmi che avevano a bilancio ma semplicemente in base alla proporzione delle loro riserve di contante rispetto alle passività ( «riserva frazionaria»).

Quello che gli economisti austriaci chiamavano «tasso naturale d’interesse » del denaro equilibratore del rapporto tra risparmi e investimenti, secondo loro demandato all’autoregolazione del mercato, per Keynes poteva invece essere ottenuto solo con un ruolo attivo della banca centrale che controllasse e calibrasse la quantità di credito che offriva ( sotto forma di titoli di Stato e di spesa pubblica in investimenti di lavoro ), togliendo o riducendo di molto la regolazione «sregolata» del flusso di moneta nel sistema affidata alle speculazioni delle banche private o dei privati cittadini. In questo modo secondo Keynes la banca centrale avrebbe determinato una situazione di equilibrio tra risparmi e investimenti, una conseguente stabilità dei prezzi, a prescindere dal tasso d’interesse del denaro imposto, e a cascata una situazione di piena occupazione.

Su quest’ultimo decisivo tema, Keynes, che vedeva «un disgraziato buco nella teoria classica sul tema della disoccupazione, dovuto a una scorretta teoria del tasso d’interesse ( l’interpretazione neoclassica della seconda legge di Say, ndr. ) », nella sua opera teorica definitiva, una sorta di summa del suo pensiero, la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, ( 1936), sviluppava due punti cruciali che controbattevano direttamente la posizione economica neoclassica secondo cui un’economia lasciata sé stessa, nel lungo termine arriva inevitabilmente a uno stato di equilibrio in cui si godrà del pieno impiego.

L’equilibrio economico preconizzato dagli economisti neoclassici, invece, secondo Keynes, nel meno chimerico breve e medio periodo sarebbe stato un equilibrio sepolcrale, passato sopra i cadaveri di una grande quantità di disoccupati.

Il primo punto teorico di contrapposizione, affermato da Keynes, era che la produzione finale dei beni di consumo non poteva essere costante ( fissa) e poteva essere aumentata con un aumento degli investimenti fino al punto in cui tutti quanti in quel processo economico complessivo ( statuale ) potevano essere avviati al lavoro.

Il secondo decisivo punto, già accennato da Keynes nei suoi scritti precedenti, e ora perfezionato dal suo allievo Kahn sotto il concetto di «moltiplicatore», era che gli investimenti pubblici, persino se aumentavano il debito pubblico, potevano ridurre in breve tempo i costi perché riducevano drasticamente la disoccupazione. Gli investimenti pubblici diretti dello Stato si sarebbero presto pagati da soli poiché riportavano al lavoro i disoccupati,avrebbero aumentato la fiducia delle imprese se non altro per approfittare della nuova domanda dei neoassunti, e i posti di lavoro creati direttamente dal governo sarebbero stati accompagnati da nuovi posti nel settore privato al fine di fornire merci e servizi ai neoassunti. Insomma«le forze della prosperità, come quelle della depressione dei commerci, operano con un effetto cumulativo».

Questo complessivo aumento, inizialmente «artificiale», di offerta/ produzione e contemporaneamente di domanda / consumi, innescato dalla spesa pubblica e corrispondente immissione di moneta nel sistema economico, sarebbe stato un investimento o spesa da cui lo Stato sarebbe rientrato per diversi canali: ad es. risparmiando sui assegni di disoccupazione o sui assegni di sostegno agli indigenti; incamerando nuove entrate fiscali dai nuovi occupati; aumentando, sempre per effetto cumulativo, il surplus delle importazioni rispetto alle esportazioni; aumentando i risparmi privati ( principalmente per effetto dei nuovi profitti ); e infine con il cambio nel tasso d’interesse del denaro dovuto all’aumento dei prezzi.

In un opuscolo di quegli anni, che sintetizzava e divulgava al grande pubblico le teorie che avrebbe pubblicato in forma scientifica nella sua Teoria generale, opuscolo intitolato Gli Strumenti della prosperità, Keynes cosi riassumeva il principio del moltiplicatore: « Se la nuova spesa è addizionale e non semplicemente sostitutiva di altre spese, l’aumento occupazionale non si ferma lì. Le nuove paghe e gli altri redditi elargiti verranno spesi in acquisti addizionali che a loro volta porteranno a nuove assunzioni. Se le risorse del Paese fossero già al livello del pieno utilizzo, allora questi acquisti aggiuntivi si rifletterebbero principalmente nei prezzi più alti e nell’aumento delle importazioni. Ma nelle attuali circostanze ciò si verificherebbe solo per una piccola quota del consumo addizionale dato che la sua maggioranza sarebbe soddisfatta senza particolari cambiamenti nei prezzi grazie alle risorse interne che al momento non sono utilizzate».

Al dogma dell’economia liberista del «pareggio di bilancio dello Stato» secondo Keynes doveva subentrare il concetto di «domanda aggregata della nazione», cioè il «reddito nazionale », equivalente alla somma dei redditi dei singoli lavoratori. Keynes contestava all’economia neoclassica che si potesse scegliere tra il progetto per aumentare l’occupazione e quello per riportare in equilibrio il bilancio, come se il secondo non dipendesse dal primo, ossia dall’aumentare il reddito nazionale in quanto aumento dell’occupazione.

Ci siamo soffermati a lungo, sia pure in modo sommario e schematico, sulle principali dottrine economiche elaborate da John Maynard Keynes tra gli anni venti e gli anni trenta del novecento, ma principalmente allo scopo di evidenziarne il ruolo rivoluzionario e antagonista rispetto alle dottrine e alle prassi economiche del capitalismo invalse fino ad allora. Da contraltare, viceversa, gli esponenti principali della scuola economica austriaca, Von Mises e in particolare Von Hayek. si erano in quegli stessi anni arroccati su posizioni difensive di retroguardia che collidevano con l’evidenza dei fatti e la logica delle diagnosi e delle prognosi sulla malattia in atto del sistema economico di mercato.

Allo sviluppo della dottrina keynesiana e ai suoi riflessi, indiretti o diretti, sulle pratiche politiche economiche degli Stati democratici dell’epoca, negli stessi anni in cui Keynes pubblicava la sua Teoria generale, Von Hayek contrapponeva una condotta che a distanza di anni si sarebbe potuta definire come quella dell’ultimo giapponese che continua a combattere una guerra già perduta in uno sperduto atollo del pacifico.

Ma in realtà proprio intorno alla metà degli anni 30 Von Hayek stava cambiando, almeno in parte, le sue idee e la sua posizione complessiva, stava mutando pelle.

Von Hayek era entrato nel campo della teoria economica, a supporto della scuola austriaca, nella ferma convinzione che il sistema economico di mercato potesse risollevarsi dalle disastrose condizioni di iperinflazione e di disoccupazione dell’Austria o della Germania del primo dopoguerra, solo se i governi smettevano d’interferire nelle politiche economiche dei propri Stati, e lasciavano che il sistema nel medio/ lungo termine trovasse da solo una situazione di equilibrio in tutti i suoi elementi principali: 1) nella corrispondenza dei prezzi delle merci e del tasso d’interesse di denaro ( il «prezzo » del denaro) a un equilibrio tra risparmi e investimenti; 2) e di conseguenza nell’equilibrio nel rapporto tra domanda e offerta; 3) e a fortiori in un pieno livello di occupazione.

Aveva successivamente mitigato questa posizione dogmatica di fronte alla constatazione oggettiva dell’avvento di fasi «cicliche » ( di crisi e recessioni) dei processi economici causate dallo stesso laissez faire liberale, in particolare dopo la Grande Depressione del 1929. In quel contesto Von Hayek aveva assunto un atteggiamento fatalista e pessimista sulla effettiva possibilità che i cicli economici dell’economia di mercato potessero essere evitati, quale che le dinamiche economiche, con il loro fluttuare tra espansioni e recessioni fossero leggi o forze di natura contro cui ben poco poteva l’opera delle istituzioni umane ( la politica dei governi, etc.) .

Ancora nei primi anni 30, nei suoi seminari britannici all’università di Oxford, Von Hayek manifestava la fede, condivisa con i suoi uditori, che attraverso il meccanismo della libera formazione dei prezzi, e cioè in un sistema concorrenziale libero da ogni interferenza, che fosse dello Stato o dei monopoli, fosse facilmente raggiungibile un punto di equilibrio.

All’idea del ruolo fondamentale che doveva svolgere la libera formazione del prezzo delle merci, era sottesa la pervicace convinzione di Von Hayek che la moneta dovesse essere mantenuta in un ruolo neutrale ( ma può essere il denaro neutrale?).

Nel suo libro, pubblicato per la prima volta nel 1932, Monetary Theory and the Trade Circle ( Teoria monetaria e il circolo del commercio) Von Hayek aveva dato la sua personale spiegazione del crollo borsistico del 1929 e della Depressione.

Secondo lui non c’era la prova che la crisi, come affermava Keynes, fosse stata causata dall’attività deflattiva ( dalla contrazione dei crediti) da parte delle autorità monetarie ( Milton Friedman, un suo «discepolo autonomo», dimostrerà però che fu proprio questa la ragione della crisi), e che di conseguenza la crisi si fosse esacerbata a causa dell’aumento dei tassi d’interesse sul denaro da parte della Federal Reserve . Il rimedio di Keynes, una politica di espansione del credito da parte delle banche centrali, ad avviso di Von Hayek aveva avuto come unico risultato che «la recessione è durata più a lungo ed è diventata più severa delle precedenti».

Insomma Von Hayek sosteneva che il rimedio proposto da Keynes, e in parte già autonomamente seguito dalla Banca centrale statunitense, e cioè nuova emissione di moneta nel sistema, era peggiore del male che si proponeva di sanare. L’unica certezza per lui era che le misure interventiste improvvisate del governo statunitense avevano terremotato il ciclo economico e che fosse di conseguenza necessario «ripristinare gli stadi della produzione » affinché l’economia tornasse allo stato precedente.

Non si davano, ad avviso di Hayek, rimedi facili con interventi dall’alto delle autorità centrali, politiche ed economiche. Il fatalismo e pessimismo dell’economista austriaco ancora prevalevano in queste considerazioni.

Keynes, nella sua Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta del 1936, avrebbe indirettamente replicato a questo tipo di argomentazioni che quando c’era una carenza di fiducia degli imprenditori e una netta riduzione delle spese, pubbliche e private, i risparmi dei singoli non si traducevano direttamente e totalmente in investimenti produttivi, (si attivava il meccanismo di tesaurizzazione della moneta che Keynes chiamava «preferenza per la liquidità») per cui il risparmio portava all’inoperosità della forza lavoro.

Per l’economista inglese l’interesse pubblico nelle condizioni date non corrispondeva alle economie dei privati e i risparmiatori con le loro fuorvianti buone intenzioni avevano solo, tramite la deflazione monetaria, fatto aumentare la montante ondata di disoccupazione.

In quell’opera Keynes, confutando l’interpretazione neoclassica della seconda legge di Say, ne confutava il corollario o la naturale deduzione logica : che l’offerta di merci crei la propria domanda.

«Questo concetto puntella l’intera teoria classica che senza di esso crollerebbe…Il pensiero contemporaneo è ancora profondamente imbevuto dell’idea che se la gente non spende i suoi soldi in un modo li spenderà in un altro» e questo conduce ad un altro errore della teoria classica, l’idea cioè che «un risparmio individuale porta inevitabilmente ad un parallelo atto d’investimento». Keynes, precisando il suo concetto di «preferenza per la liquidità», dava motivazioni differenti alla condotta dei risparmiatori. Secondo lui spesso i risparmiatori, invece di piazzare i soldi in banca o investire in titoli e azioni, preferivano tenere i soldi «liquidi» ( in contanti) per potere approfittare delle circostanze in rapida trasformazione. Se un risparmiatore fosse stato convinto di ottenere un accordo migliore aspettando, avrebbe mantenuto i suoi risparmi in contanti o in gioielli o in oro. A causa della preferenza per la liquidità che derivava da questo atteggiamento interlocutorio, le banche dovevano tenere i tassi d’interesse più alti del necessario per offrire ai risparmiatori un bonus per decidere di separarsi dai loro soldi.

Con il concetto critico di «preferenza per la liquidità» e con i concetti propositivi di aumento ad libitum degli investimenti e delle spese a partire dall’«innesco artificiale» della spesa pubblica, di «moltiplicatore» e di « aumento della domanda aggregata», Keynes poneva i pilastri principali della sua Teoria generale e terremotava definitivamente la teoria monetarista neoclassica, confortato anche dalle pratiche di politica economica allora in atto, a partire dall’America del new deal di Roosvelt.

Von Hayek avrebbe voluto replicare alle teorie dell’economista inglese demandando la sua risposta a una futura elaborazione di un saggio che avrebbe dovuto intitolarsi : The Pure Theory of Capital. Con quest’opera Von Hayek intendeva porre rimedio alle carenze interne a suo avviso esistenti nelle teorie contemporanee sul capitale ( una sorta di contraltare al Capitale di Marx) e dimostrare che l’espansione della domanda aggregata era un modo poco adatto per aumentare la quantità di persone impiegate, o che il moltiplicatore non funzionava o che il concetto di «preferenza per la liquidità» ( per la tesaurizzazione del denaro) non smentiva la spiegazione classica del modo in cui venivano decisi i tassi d’interesse. Era quello che si aspettavano anche i suoi sodali e seguaci, ma non lo fece. Quella summa economica del suo pensiero da contrapporre alla Teoria generale di Keynes non fu mai scritta. E il silenzio che seguì fu un silenzio assordante nel campo della scienza economica.

In realtà, come già accennato, Von Hayek, proprio in quegli anni, stava mutando pelle e si stava già distogliendo dal ristretto campo della teoria del capitale, per allargare la sua riflessione sugli impulsi che originano il comportamento economico degli individui ( stava per spostarsi dalla teoria economica alla filosofia politica o antropologia filosofica).

Hayek, a partire dalla conferenza Economia e conoscenza del 1936 si decise a «saltare il Rubicone» rinnegando nella sostanza i fondamenti dell’economia neoclassica e in particolare il concetto di «equilibrio economico»; egli ammise in quella sede che il livello di equilibrio nel sistema economico si realizza di rado e che si può affermare che non esiste un momento in cui l’economia si assesta ( ricordiamo che per la teoria neoclassica, nel tempo, quando risparmi e investimenti si allineano alla perfezione, il sistema si assesta in una condizione di piena occupazione o impiego).

Keynes contestava questo assunto neoclassico perché l’esistenza delle realtà economiche del suo tempo lo confutavano ampiamente. L’assestamento dell’economia inglese e americana era al contrario avvenuto sul livello di uno stato di disoccupazione di massa. Quella che sembrava una crisi interminabile indeboliva la considerazione degli economisti neoclassici su la necessità di aspettare il raggiungimento di tale meta.

Hayek in quella conferenza ammetteva che se può esistere un’ipotetica condizione di equilibrio tra investimenti e risparmi, tra investitori e risparmiatori, questa condizione non necessariamente si verificherà perché altre circostanze impreviste influenzeranno e modificheranno il piano d’azione delle due categorie. E’ quello che viene chiamato un cambiamento nei dati esterni o oggettivi che disturba l’equilibrio precedente.

Ma se in base a questa considerazione i diversi piani di investimento e risparmio sono tra di loro fin dall’inizio incompatibili, è inevitabile che i piani di qualcuno siano sconvolti e debbano cambiare e che nella somma complessiva le azioni economiche di quel periodo «non mostreranno quelle caratteristiche che valgono invece se tutte le azioni di ogni individuo possono essere lette come parte di un complessivo piano individuale». Un equilibrio tra investimenti e risparmi può essere predetto solo se sono note le intenzioni di ogni attore ma questo è impossibile sia in teoria che in pratica. Ciò invalidava gli assunti aprioristici degli economisti neoclassici sul funzionamento di un mercato o di un’economia.

La conseguenza logica di questa riflessione non poteva che essere la seguente: gli assunti aprioristici sul comportamento economico di massa ( collettivo) richiederebbero condizioni ideali, in cui ogni individuo conoscesse perfettamente le condizioni presenti e future necessarie per prendere una decisione in un mercato perfetto; ma nella realtà ogni individuo ha solo una conoscenza parziale delle condizioni attuali connessa alla loro previsione più probabile sugli accadimenti futuri. Ogni individuo giunge a una valutazione diversa ( e spesso contrastante) di queste condizioni attuali.

Alcuni prendono la decisione giusta, altri quella sbagliata. L’insieme delle loro scelte o decisioni formano un quadro dinamico del mercato in piena attività.

Il concetto di «quadro dinamico » del mercato, che potrebbe anche essere tradotto in termini negativi, come «anomia» o «anarchia », in Hayek assume tutt’altra connotazione con due conseguenze positive o comunque oggettive: 1) è attraverso i prezzi delle merci che si acquisisce quel tanto di sapere comune e generale possibile sui processi di mercato; di conseguenza quando i governi interferiscono nella decisione dei prezzi, essi ostacolano questa loro naturale dinamica; 2) Nessun individuo, per quanto onnipotente si possa immaginare, può conoscere le menti, i desideri e le speranze di tutti gli attori individuali di un ‘economia. Anche i pianificatori armati delle migliori intenzioni tradirebbero inevitabilmente i desideri e opprimerebbero la felicità e la libertà degli individui che loro sostengono di aiutare.

E’ su questo punto che, a partire da quella conferenza del 1936, Economia e conoscenza, Von Hayek ritiene di avere scoperto l’anello di congiunzione tra dottrina economica del monetarismo e una nuova antropologia filosofica dell’individuo, quell’ «idea luminosa che mi permise di vedere il carattere complessivo della teoria economica in quella che per me era un’ottica interamente inedita».

Questa illuminazione derivava in lui dall’avere scoperto che l’impossibilità di comprendere le dinamiche complessive o generali dei processi economici, corrispondente alla conoscenza divisa e parziale che gli innumerevoli individui hanno di quegli stessi processi economici, poteva coincidere con il concetto economico classico di «divisione sociale» del lavoro, proprio di quello stadio dello sviluppo industriale in cui invece di avere tanti individui che svolgono un processo completo di produzione di una merce ( bene o servizio), ognuno creatore di un prodotto nella sua interezza, si hanno lavoratori che si specializzano in mansioni semplici ( e unilaterali) che nell’insieme creano un prodotto intero.

Quello che nell’interpretazione di Marx era la causa del carattere alienato e sfruttato del lavoro nel processo capitalistico, si rovesciava in Hayek nella valorizzazione delle innumerevoli decisioni individuali della moltitudine d’individui costituenti il processo economico, di per sè incomprensibile e imprevedibile, ma di cui al più si poteva cogliere una manifestazione fenomenica, di superficie, un riflesso delle loro intenzioni nella costante fluttuazioni dei prezzi delle merci, compresa la merce denaro ( dunque nella loro inflazione o deflazione, che non era mai solo una oscillazione del prezzo delle merci, ma anche sempre dei salari, dei profitti e dell’occupazione).

Con il concetto di «quadro dinamico » del mercato Hayek trasformava in una valutazione positiva, in una virtù, ciò che per altri ( Keynes in primis) è una grave mancanza: che il mercato economico non sia regolabile ed equilibrabile di per sè, che sia soggetto a una fondamentale anomia e anarchia, si rovescia improvvisamente in Hayek in un ‘espressione della fondamentale libertà dei suoi attori individuali . Non transitava nel suo pensiero la possibilità, paventata da Keynes, che tale anomia potesse essere preda di quei pochi attori, di un ‘oligarchia ( monopoli e oligopoli delle multinazionali) in grado di trasformarla in uno strumento di potere, anzi di dominio, con conseguenze disastrose per la stragrande maggioranza della popolazione.

All’esito catastrofico del lassez faire economico del 1929 Von Hayek aveva reagito inizialmente con una concezione pessimista e fatalista sulla possibilità degli Stati di impedire o perlomeno sanare le fasi cicliche dei processi economici capitalistici con interventi in prima persona nell’economia. Ora inizia a costruire quella mitologia o quell’epica del ruolo dell’individuo nella storia, ( come vedremo la prossima volta nell’analisi dell’opera La via della schiavitù) che però, dietro l’apparente «democratica» universalità di tale figura, nasconde l’evidente affermazione del ruolo storico dei pochi, di alcuni individui rispetto ad altri, nasconde la legge, applicata alla società umana, della selezione naturale degli esemplari e delle specie, della sopravvivenza degli esemplari più adatti e più forti, nasconde il principio del darwinismo sociale .

Potremmo dire che, al darwinismo sociale, come assunto implicito e non detto della sua costruzione mitologica della figura dell’individuo, si accompagni anche una sorta di amor fati, di un accettazione eroica del fato, del destino avverso di alienazione e annichilimento che tocca alla maggior parte degli individui. Questa implicita assunzione eroica del fato avverso da parte dell’individuo non è poi, a una osservazione ravvicinata, così distante da quella dottrina di «rivoluzione nichilista» con cui Ernst Junger aveva inteso dare una patina filosofica all’ideologia nazionalsocialista nella sua celebre opera Der arbeiter, L’operaio, là dove la figura dell’operaio alienato alla catena di montaggio viene da lui paragonata al combattente delle trincee della prima guerra mondiale che assume consapevolmente ed eroicamente il suo destino di annientamento.

Nicola Boidi

BIBLIOGRAFIA

FRIEDRICH A. VON HAYEK:

PREZZI E PRODUZIONE. IL DIBATTITO SULLA MONETA, Edizioni scientifiche italiane.

PIENA OCCUPAZIONE, A QUALE PREZZO? , Bancaria editrice,

CONOSCENZA, COMPETIZIONE E LIBERTA’, Edizioni Rubettino.

CONTRO KEYNES. PRESUNZIONI FATALI E STREGONERIE ECONOMICHE,

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NAZIONALISMO MONETARIO E STABILITA’ INTERNAZIONALE, Edizioni Rubettino .

LA VIA DELLA SCHIAVITU’, Edizioni Rubettino.

NICHOLAS WAPSHOOT: KEYNES O HAYEK. LO SCONTRO CHE HA DEFINITO L’ECONOMIA MODERNA, ed. Feltrinelli .

JOHN MAYNARD KEYNES:

LA RIFORMA MONETARIA, Ed. Feltrinelli

LA FINE DEL LAISSEZ FAIRE E ALTRI SCRITTI ECONOMICO-POLITICI, ed. Bollati- Boringhieri.

TRATTATO DELLA MONETA, VOLUMI PRIMO E SECONDO, ed. Feltrinelli.

TEORIA GENERALE DELL’OCCUPAZIONE, DELL’INTERESSE E DELLA MONETA, ed. Utet.

ANTOLOGIA DI SCRITTI ECONOMICO-POLITICI, ed. Il Mulino.

THE MEANS TO PROSPERITY, ed. Benediction Classics.

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