Le radici totalitarie del neoliberismo. I : Le ambigue origini nel Colloquio Lippmann

Il termine «neoliberismo», e la dottrina economica, politica e filosofica che esso si porta dietro, sono oggi oggetto di grande controversia.

Ciò è dovuto agli sviluppi che tale termine e dottrina hanno conosciuto, tanto a livello teorico quanto a livello di prassi, in particolare dalla fine degli anni settanta del novecento, a partire dall’Occidente «transantlantico» (statunitense-europeo) per poi estendersi progressivamente a livello del globo terracqueo, attraversando un passaggio decisivo con la caduta del sistema comunista dell’Europa orientale nel corso del 1989.

A cominciare dagli anni novanta del secolo scorso il neoliberismo è diventato così sinonimo di «globalizzazione» o «mondializzazione», come un sistema, un elemento che assume il ruolo di una totalità .

La tesi che qui si vuole dimostrare è che tale totalità, sia a livello ideologico che come prassi, che dal campo dell’economia si fa modello onnicomprensivo della politica, del diritto e della cultura, non si presenta, nè nel corso del suo sviluppo, nè tanto meno al suo stato attuale, come un «universalismo » inclusivo di tutte le sue componenti, capace di articolarsi come un organismo vivente in grado di dare spazio e vita a tutti i suoi organi, quell’universalismo «concreto» erede della migliore tradizione dell’idealismo( l’«universalismo concreto» hegeliano), ma piuttosto come una nuova forma di totalitarismo, che provvisoriamente denomineremo «totalitarismo nichilista» ripromettendoci di qualificarlo più compiutamente in seguito.

Tale nuovo totalitarismo, come i suoi predecessori novecenteschi del fascismo, del nazismo, o, sul fronte del comunismo di Stato, dello stalinismo, è caratterizzato dalla più o meno rapida o progressiva «cannibalizzazione» di tutte le istanze, le componenti, le figure e i ruoli sociali, economici, politici, e culturali che il sistema della democrazia liberal -sociale era stato faticosamente e dolorosamente in grado di istituire nel corso di alcuni secoli.

Il sintagma «liberal-sociale » non è in questo contesto casuale perché ciò che è entrato in crisi profonda in questi ultimi decenni è proprio il modello della democrazia in grado di alimentarsi e sorreggersi solo sulla base di un virtuoso compromesso tra diritti civili o individuali e diritti sociali o collettivi. Lo spezzarsi di quel sintagma, causa di questa crisi, è stato imputato proprio a quella dottrina neoliberista diventata nel frattempo egemone su tutto il giro d’orizzonte.

Tale egemonia è riassumibile, in modo schematico e sommario, come l’affermazione della legge del valore di scambio della merce sul libero mercato della offerta e della domanda che si fa principio pervasivo e onnicomprensivo, per cui «il libero mercato » si fa fondamento di ogni aspetto della vita umana, individuale e collettiva, in economia come nelle relazioni sociali, nelle istituzioni politiche come nelle intraprese culturali, invadendo infine anche il campo della psiche individuale e collettiva, delle pulsioni, sentimenti e affetti.

Un’egemonia che si fonda su due pilastri fondamentali, due postulati assunti con ugual grado di idolatria : «esistono solo gli individui e non la società»( per dirla alla Margaret Tatcher) e «il possesso, il governo e il controllo dell’emissione e distribuzione del denaro è l’unico principio di potere che conta, l’unica meta da raggiungere ». Sintetizzando all’estremo il monetarismo in economia e l’individualismo radicale sul piano filosofico s’impongono come imperativi categorici di questa nuova religione o ideologia totalitaria.

Da tali postulati derivano conseguenze fatali per le attuali sorti della democrazia liberal-sociale in giro per il mondo. Innanzitutto gli individui sono portati a rapportarsi reciprocamente come competitori, come nemici l’uno all’altro( l’ homo homini lupus assunto come comandamento da uno dei più scomodi antichi padri del pensiero giusnaturalista, matrice originaria del pensiero liberale, Thomas Hobbes) in nome della ricerca dell’interesse e del successo personali, del guadagno, anche a scapito degli altri individui.

La quantità di denaro in proprio possesso, oltre che la posizione sociale acquisita, la «carriera» o il ruolo sociale conquistati,attraverso dimostrazioni di efficienza e performance raggiunte, diventano di conseguenza i parametri assoluti di valutazione di tale postulato individualistico, di costruzione di un immaginaria identità individuale a cui viene ridotta l’idea stessa di natura umana, di persona. E’ l’individuo astratto, atomistico, irrelato, la monade senza finestre, che nella veste ( o «sotto la pelle ») dell’ homo homini lupus nel campo delle relazioni sociali ed economiche si presenta come la semplice sopraffazione del più forte sul più debole. Tale individuo è l’incarnazione del nuovo totalitarismo nichilista del 21° secolo, nichilista perché fa sprofondare tutto il mondo dei valori tradizionali rendendolo un deserto in cui si afferma l’individuo forte, in realtà maschera ideologica di lobbies, consorterie e cricche di potere (di ristretti gruppi oligarchici).

Niente di più lontano da questo modello individualistico della concezione marxiana della persona secondo cui «ad ognuno secondo le sue necessità e da ognuno secondo le sue possibilità». Ma una concezione dell’individuo lontanissima anche dall’accezione hegeliana del soggetto pienamente inteso, dalla sua natura e dai suoi legami innatamente comunitari, a cominciare dalla comunità familiare per giungere infine alla comunità politica, lo zoon politikon di aristotelica memoria.

Quando questa introiezione esistenziale individualistica viene proiettata sul piano delle relazioni sociali e delle istituzioni politiche, inevitabilmente, ne deriva l’accettazione – a secondo del contesto o del «ruolo in commedia » che si svolge – o convinta ed entusiasta, o passiva e fatalistica, della totale deregolamentazione dell’economia di mercato, di un altro assunto, altrettanto mitologico e idolatrico, che «il sistema economico si regola da sè », che «il mercato economico è un equilibratore».

A dimostrare la natura mitologica di tale assunto sarebbe sufficiente la constatazione dei cosiddetti «cicli » dell’economia capitalistica, come li definiscono gli economisti, e cioè il fatto incontrovertibile che periodicamente nel processo economico, a fasi di crescita, espansione e sviluppo fanno seguito fasi di crisi radicali che bloccano e paralizzano l’intero sistema e richiedono per la loro risoluzione l’intervento di un «agente esterno» non previsto dalla filosofia dell’autoregolamentazione del mercato economico: lo Stato nazionale, purchè dotato di tutte le leve della sovranità economica .

Anche l’osservatore più sprovveduto in materia di teoria economica avrà constatato come ciò sia quello che è accaduto storicamente nelle due ultime grandi crisi dell’economia di mercato capitalistica: dopo la grande depressione del 1929 e dopo la grande recessione del 2008, entrambe frutto di gigantesche fluttuazioni del processo economico, più precisamente di bolle speculative dell’economia finanziaria, ed entrambe combattute dall’interventismo in prima persona nei processi economici dei governi nazionali sostenuti dalle loro banche centrali .

L’ ultima grande crisi finanziaria, la cosiddetta crisi da «prestiti subprime» del 2008, permette di fare una rapida riflessione sull’attuale egemonia della dottrina e della prassi neoliberiste nel mondo . Tale egemonia non si manifesta in maniera e misura uguale in tutte le aree geografiche del mondo. Propria nelle situazioni di crisi il neoliberismo è costretto a venire a patti con l’altro modello economico e sociale, che ha conosciuto a sua volta una breve egemonia nel corso del novecento, il keynesismo, basato sull’interventismo dello Stato nazionale in economia e sul suo ruolo di regolatore e «terapeuta» delle storture del sistema economico capitalista.

In questi contesti e in queste aree geografiche, in cui lo Stato nazionale non è stato ancora esautorato dalla sua sovranità economica, la tendenza totalitaria del modello neoliberista non può compiutamente attuarsi, ma questo dipende dalla natura delle istituzioni politiche e giuridiche con cui essa viene a confrontarsi. Potremmo dire, anticipando il discorso che svolgeremo prossimamente riguardo alla versione tedesca del neoliberismo, l’«ordoliberismo», che il totalitarismo neoliberista può compiutamente realizzarsi unicamente là dove non solo il processo economico si è svincolato dalle regolamentazioni statuali, ma addirittura il mercato si fà Stato, impone le sue regole alle istituzioni politiche e giuridiche nazionali, sorpassa ed esautora le costituzioni scritte dei singoli Stati( in Europa occidentale a partire dal dopo guerra tutte improntate a principi keynesiani), e prepara il terreno per la spoliazione dalle ricchezze e la depauperizzazione di interi popoli da parte dei «manovratori» del gigantesco Monopoli, le multinazionali e i potentati finanziari .

Al lettore più attento non sarà sfuggito l’evidente riferimento all’attuale situazione dell’ Unione europea e dell’ Eurozona, un vero e proprio «esperimento in vitreo» del totalitarismo neoliberista . Anche qui l’ortodossia neoliberista non è perseguita in ugual misura in tutti gli Stati soggetti al governo dell’euro ( e di conseguenza della BCE ) e dell’Unione europea, ma si differenzia a seconda dei contesti e delle aree geografiche .

Potremmo dire che l’ esperimento neoliberista compiutamente riuscito sia quello dell’attuale economia e società greche, e pericolosamente prossime ad esso siano la situazione italiana, spagnola e portoghese. La diversità del grado di attuazione di tale modello dipende dal differente grado di collaborazione in tale direzione dato dalle differenti istituzioni e governi degli Stati membri.

Anche la penosa e sofferta vicenda della pandemia mondiale da virus respiratorio Covid 19 Sars 2, tutt’ora in atto, è difficile pensare, e lo sarebbe persino per l’Alice nel Paese delle Meraviglie di Carrol o per il Candide o il migliore dei mondi possibili di Voltaire, che sia del tutto estranea a questo processo globale.

E’ difficile pensare a una sua estraneità per tutte la folla d’ interrogativi che l’emergenza sanitaria attuale suscita a fronte di poche, deficitarie e contraddittorie risposte che essa ha trovato, tanto sul piano delle misure sanitarie che di quelle economiche e sociali che di quelle politiche, che del modello di comunicazione e informazione di massa messo in campo per un evento del genere. Sul ruolo di veicolo di propaganda totalitaria da parte del sistema main stream dei mass media, propaganda di un pensiero emergenziale o di stato d’eccezione, un pensiero unico securitario o «biopolitico» per usare termini cari a Michel Foucault, possiamo riportare qui l’affermazione del filosofo Gianluca Magi, autore del saggio Goebbels, 11 tattiche oscure di manipolazione.

In questo saggio Magi mette in relazione le tattiche di manipolazione del ministro della propaganda nazista con le attuali tattiche manipolatorie dei media nello stato di emergenza da Covid 19 e osserva al riguardo: «Se oggi, da una serena distanza osserviamo i fatti degli ultimi 13 mesi, che cosa osserviamo? Osserviamo mostrificazione, denigrazione e patologizzazione del dissenso, censura, propaganda, limitazione allo spostamento, domicili coatti, coprifuoco, limitazione del diritto al lavoro, ribaltamento delle fonti del diritto, trattamenti sanitari obbligatori, elementi di spicco della finanza internazionale non eletti da nessuno e che sono a capo del governo, osserviamo la mancata partecipazione del popolo alla vita della Repubblica. Se noi dovessimo chiamare le cose con il loro nome, come c’invitava a fare Confucio 6 secoli prima di Cristo, come dovremmo chiamare questo stato di cose, democrazia o totalitarismo? »

A fronte di gravi crisi epocali quale quella attuale è sempre buona « profilassi mentale » chiedersi Cui prodest ? « A chi giova ?» La risposta a questo elementare ma altrettanto essenziale quesito la si potrà ricavare facilmente osservando i dati di crescita esponenziale di profitto economico che le multinazionali del farmaco e le società high tech dell’informatica hanno ricavato in quest’ultimo anno, dall’inizio della emergenza sanitaria in poi. Non solo, ma questi attori, protagonisti della scena mondiale insieme ai potentati finanziari, hanno potuto condizionare e indirizzare le decisioni, manovre e i decreti leggi dei singoli governi a tal punto che, di fatto, questa rete securitaria sanitaria, informatica, mediatica e giuridica, è riuscita a minimizzare se non annullare tutti gli altri ambiti di vita associata ( delle relazioni economiche, sociali e culturali).

La natura contraddittoria e problematica del processo sviluppatosi nell’ultimo anno, nonchè il gigantesco apparato da esso messo in moto, di cui la misura «biopolitica» dell’obiettivo della vaccinazione di massa della popolazione è solo l’ultimo stadio, è assai difficile credere che siano il frutto del caso o di «un destino cinico e baro». D’altra parte quegli attori protagonisti, veri e propri domini della scena mondiale, non sono solo pragmatici, scaltri e cinici beneficiari della crisi in atto, ma tra le loro fila annoverano gli ideologi di un progetto globalista che afferisce alla cosiddetta «quarta rivoluzione industriale» e al «transumanesimo» o «postumanesimo», il cosidetto Grande Reset della società contemporanea di cui si è reso profeta e sacerdote l’ingegnere Klaus Schawb, gran cerimoniere dell’annuale World Economic Forum di Davos, il forum dei miliardari più potenti della terra.

Questo, che potrebbe essere considerato l’approdo finale del modello totalitario del neoliberismo, dovrà essere oggetto della nostra indagine in futuro.

Al momento però il lungo preambolo qui presentato è servito a dare un quadro d’orizzonte su quale sia la natura e lo stato dell’arte attuale dell’ideologia e della prassi del neoliberismo. Proprio sulla base di questa constatazione non risulterà forse un vano esercizio di arte retorica porsi le seguenti domande che dovrebbero sorgere spontanee : «Come siamo giunti qui? » « Come è stato possibile passare dal modello economico keynesiano degli accordi di Bretton Woods all’attuale regime neoliberista? » .

Per poter rispondere a questi quesiti e capire che si è trattato di un processo a più fasi e a più stadi, sarà necessario partire dalla nascita e sviluppo della dottrina neoliberista, dai suoi inizi teorici avvenuti negli anni trenta del novecento, inizi per nulla lineari, bensì di per sè contraddittori e ambigui.

La prima tappa da ripercorrere, che costituisce anche l’attraversamento di un simbolico punto di partenza, è il cosiddetto Colloquio Lipmann, un convegno tra tutti i maggiori intellettuali di estrazione liberale, convegno organizzato a Parigi dal filosofo francese Louis Rougier nell’agosto del 1938. Il convegno fu intitolato così in onore del giornalista e politologo statunitense Walter Lippmann, autore di un celebre saggio La giusta società( The Good Society), saggio pubblicato nel 1937 e reso esplicito oggetto di analisi durante il convegno. Tra i convenuti più celebri vi furono Von Mises e Von Hayek della scuola economica neoclassica austriaca; Wilhem Ropke e Alexander Rustow della scuola economica tedesca; il filosofo francese Raymond Aron, gli economisti francesi Marijolin e Rueff, oltre che naturalmente Rougier e Lippmann. Un altro economista tedesco, Walter Eucken, futuro celebre fondatore della rivista Ordo, da cui prenderà il nome la corrente economica dell’ «ordoliberismo», fu impedito di partecipare al convegno dallo Stato nazista.

L’intento del convegno fu quello di, una volta preso atto del fallimento profondo del modello del liberalismo classico in seguito alla grande crisi o Grande Depressione del 1929, rifondare e far risorgere dalle proprie ceneri il liberalismo economico e filosofico attraverso l’elaborazione di una nuova strada, una strada che sarà denominata dall’economista tedesco Rustow new liberalism ( tradotto in italiano «neoliberismo »). Su questo progetto teorico si confrontarono le diverse scuole alla ricerca di un punto di mediazione o compromesso tra le differenti posizioni assunte riguardo il ruolo che avrebbero dovuto rispettivamente avere in futuro il mercato economico e lo Stato nazionale, nelle loro reciproche relazioni, in economia e in politica.

Una mediazione andava ricercata innanzitutto rispetto all’ambigua posizione tenuta tanto da Rougier e Lippmann che dai futuri ordoliberisti tedeschi, per i quali le storture del laissez faire economico precedente( paralisi del sistema con conseguente deflazione monetaria, occupazionale e retributiva) dovevano sì essere sanate dall’intervento dello Stato ma senza che quest’ultimo interferisse sulla libera formazione dei prezzi delle merci sul mercato( compreso il prezzo della merce più preziosa di tutte in quanto mediatrice di ogni compravendita di merci, ossia del denaro), proprio quel meccanismo monetario o «monetarismo economico» considerato il mantra equilibratore e autoregolatore del sistema dalla precedente teoria economica neoclassica, e che pure era entrato in crisi nel 1929.

Secondo quest’ottica lo Stato politico avrebbe sì dovuto intervenire per impedire la disoccupazione e conseguente proletarizzazione delle masse senza che però questo bloccasse i «liberi giochi» dell’economia finanziaria( delle borse e delle banche private) , proprio quei giochi o fluttuazioni che nei fatti si erano dimostrati in grado di gonfiarsi a bolle speculative finanziarie tali da giungere al punto di rottura.

Uno Stato «interventista» in economia, ma tale che il suo compito consistesse, secondo la definizione data da M.De Carolis ( Il rovescio della libertà. Tramonto del neoliberalismo e disagio della civiltà, ed. Quodlibet), nel: «assicurare la riproduzione dell’ordine spontaneo del mercato,riconoscendolo allo stesso tempo come il risultato di un’azione di governo capillare, tecnicamente avanzata e apertamente intenzionata a penetrare in ogni minimo recesso della vita».

Un interventismo di natura economica e non solo, ma anche sociale e politica, che però, attraverso una definita cornice giuridica istituzionale, avesse come obiettivo la ricostruzione delle dinamiche spontanee del mercato,atte a fare di ogni individuo un privato proprietario o capitalista, un imprenditore di sè stesso, e di sconfiggere tanto la crisi dei valori materiali ( la paralisi e crollo dello sviluppo economico) che la crisi dei valori spirituali dell’individuo( la sua atomizzazione e privazione di ogni legame comunitario, il suo essere gettato in una condizione di «anomia » o anarchia giuridica e sociale).

L’obbiettivo era far rinascere il liberalismo dalle sue proprie ceneri senza fuoriuscire dai confini della democrazia formale, istituendo un ordine politico che garantisse la riproduzione del capitalismo attraverso la spoliticizzazione della società( ossia attraverso la neutralizzazione del conflitto o lotta di classe).

Il modello del governo a cui aspirare avrebbe dovuto consistere nella capacità di coniugare il controllo delle masse con il loro disciplinamento al lavoro. Uno Stato e un governo capaci di, attraverso un opportuno corpus di leggi e istituzioni, coniugare l’apparente dicotomia tra ordine spontaneo del mercato e interventismo economico, sociale e giuridico dello Stato. Lo stesso Lippmann nel suo saggio politologico mostrava la consapevolezza che questo nuovo modello neoliberale, per affermarsi, avrebbe comportato un mutamento antropologico, se è vero che in un passo di The good society affermava:«compito del liberalismo non è nè più nè meno che l’adattamento della razza umana a un nuovo modo di esistenza». Si rendeva necessario il passaggio definitivo da «un sistema primitivo in comunità relativamente autarchiche ad un sistema di vita rappresentato da una grande società di specialisti interdipendenti». Il mutamento antropologico corrispondente all’ordine del mercato per Lippmann avrebbe dovuto garantite la produzione e la riproduzione di quella forma di vita che identifica l’uomo con un dinamico imprenditore di sè stesso, guidato in permanenza dall’ethos dell’autovalorizzazione. L’economista tedesco Rustow, coniatore del termine new liberalism e futuro membro della corrente dottrinaria dell’«ordoliberismo»,osservò in occasione del Colloquio che, nella presa d’atto della crisi del modello liberale classico, non era tanto da rigettare la teoria liberale del mercato quanto la teoria della politica e della società liberali.

Rustow pospone, e questo è significativo se non sintomatico, la crisi di valori materiali economici e sociali, alla crisi di civiltà seguita alla Grande depressione del 1929, ponendo in sott’ordine la proletarizzazione della grande massa della popolazione, tra le cause della crisi della democrazia liberale e dell’avvento del totalitarismo nazifascista.

Per Rustow si tratta principalmente di una crisi «d’integrazione della vita dell’essere umano», il fatto che la disintegrazione della vita in comunità dell’uomo, la sua atomizzazione in individuo umano scisso dal popolo, che si muove all’interno di meri gruppi d’interesse, è stato il frutto dell’estensione illimitata della logica del mercato. Per invertire questo processo, riportare l’individuo dalla sua atomizzazione e disintegrazione sociale a una rigenerazione comunitaria, Rustow ritiene essenziale l’intervento dello Stato con una nuova politica sociale, che qualche anno dopo lo stesso Rustow chiamerà Vitalpolitik.

Neutralizzando la lotta di classe tra capitale e lavoro, il nuovo ruolo che Rustow assegna al futuro Stato liberale è quello di reintegrare gli operai in un ordine sociale gerarchicamente coeso e privo di ogni elemento di conflittualità, un ordine spoliticizzato. Questo nuovo ordine sociale dovrà avere come fondamenti la restaurazione dei valori della cittadinanza, della famiglia, della religione, della solidarietà ( anche d’impresa). Solo in questo nuovo universo i lavoratori supereranno l’insicurezza simbolica ed esistenziale (accentuati da Rustow rispetto all’insicurezza materiale) che può renderli facili prede del fascismo o del comunismo ( accomunati indistintamente tra di loro ) e potranno vivere come tanti soggetti indipendenti che si realizzano nel meccanismo del mercato, in cui «tutti i giocatori» devono stare alle regole del gioco, ossia comportarsi come tanti homines oeconomici che rispettano «le regole puramente razionali del gioco della concorrenza ».

In questo, come in tutti gli altri passaggi fondamentali di quella che diventerà la nuova dottrina ordoliberista tedesca, si ribadisce la necessità di ricostruire a livello statale quell’ordine della concorrenza basato sulle leggi dell’economia neoclassica.

Tali leggi avevano come assunto fondamentale la libera formazione dei prezzi delle merci sul libero mercato dell’offerta e della domanda, architrave della dottrina «marginalista» intenta a disegnare un diagramma matematico dell’economia quale combinazione dell’utilità marginale decrescente nella curva della domanda e dei costi marginali crescenti nella curva dell’offerta. Quelle stesse leggi però, come osservò in quegli stessi anni J.M. Keynes, si erano dimostrate incapaci di leggere l’andamento reale dell’economia, e conseguentemente di prevedere e d’impedire il crollo repentino del sistema capitalistico presso la borsa di Wall Street nel 1929.

L’altro economista tedesco presente al Colloquio, Ropke, concentra invece la sua riflessione critica delle cause del fallimento del liberalismo sul «gigantismo industriale », ( il capitalismo delle multinazionali, degli oligopoli e monopoli) che causa lo sradicamento e induce alla proletarizzazione delle masse. L’adesione entusiasta delle masse al nazionalismo politico ed economico, propria dei regimi totalitari, non è per Ropke una semplice reazione istintiva alla crisi,ma ci parla invece «dei mutamenti interni alla struttura economica e sociale», ed è una risposta pronta seppur perversa, al dilagare della proletarizzazione e alla «disintegrazione dello Stato stesso ad opera dei partiti e degli interessi particolari».

Solo fornendo una risposta adeguata alle cause di tale deriva ( il fallimento della dottrina liberale classica) il nazionalismo e il totalitarismo potranno essere sconfitti.

Questa risposta adeguata è individuata da Ropke in una «politica di società» che de-prolaterizzi le masse sradicate dal capitalismo delle multinazionali, che assimili i proletari stessi al resto della nazione, li «imborghesisca», che faccia dei proletari altrettanti proprietari.

Il contributo dato in prima persona al dibattito del Colloquio Lippmann da uno dei suoi organizzatori, il filosofo liberale francese Rougier, si può riassumere nelle seguenti osservazioni relative alla configurazione prossima ventura del nuovo sistema politico, economico e sociale: esso dovrà svilupparsi entro ««un quadro giuridico che fissa il regime della proprietà, dei contratti, dei brevetti d’invenzione, del fallimento, lo statuto delle associazioni professionali e delle società commerciali, la moneta e la banca» . Tutti questi elementi, elencati in modo un pò rapsodico e senza precisarne la loro auspicata configurazione, per Rougier non si presentano come leggi naturali ma leggi del consorzio umano. Dunque il campo del giuridico non rimaneva a livello di una superficiale «sovrastruttura» ma entrava a far parte della struttura economico -sociale, come elemento fondamentale della sua corretta forma .

Ciò che accomuna le posizioni di questi intellettuali liberali messe a confronto nel convegno parigino del 1938 è la profonda convinzione che la crisi del capitalismo di quel tornante della storia non era dovuta alla sua logica profonda – la logica della concorrenza non ritenuta contraddittoria– bensì alla forma concretamente assunta dall’ultimo capitalismo storicamente dato . Solo la costituzione di un nuovo dispositivo politico-giuridico avrebbe ridato fiato al capitalismo abbandonando una volta per tutte l’autonomia dell’economico dal politico e dal giuridico. E a sua volta solo un capitalismo ricostituito dalle sue ceneri, con una tale nuova configurazione, avrebbe potuto evitare che le masse si rivolgessero a regimi dittatoriali, a economie corporativistiche e a economie pianificate. L’esito totalitario per i convenuti al Convegno Lippmann era la conseguenza diretta del fallimento del liberalismo e del capitalismo.

Private della fiducia nel regime liberale le masse avevano illusoriamente creduto che «l’economia pianificata potesse loro garantire un minimo vitale, anche se questo minimo è una gavetta, una caserma e un’uniforme».

Il nuovo modello di Stato e di società liberali per Rougier dovrà invece «sbloccare i fattori che autoregolano l’equilibrio …della macchina economica» (in una virtuosa convergenza giuridica tra direzione statale e autoregolazione del mercato economico).

Osserva ancora Rougier che il capitalismo della concorrenza «è una macchina che richiede sorveglianza esterna e regolazione costante».

Nell’Agenda del liberalismo, il documento di sintesi finale del convegno, Rougier, Lippmann, Rustow e Ropke nel presentare un compendio di queste loro elaborazioni, tennero conto della necessità di una posizione di compromesso e mediazione rispetto alla ferma resistenza alle loro proposizioni da parte degli economisti della scuola neoclassica austriaca Von Mises e Von Hayek.

La posizione dei quattro intellettuali era indebolita proprio dalla natura contraddittoria delle loro formulazioni. Ad esempio si richiedeva una regolazione dell’economia di mercato da parte delle autorità giuridiche e statuali ma senza che ciò intaccasse i fondamentali meccanismi di funzionamento del mercato libero e del libero formarsi dei prezzi delle merci sulla base di un diagramma di autoregolazione automatica del mercato, tra l’utilità decrescente del consumatore e il costo crescente di produzione del produttore( la cosiddetta «dottrina marginalista»), senza tenere conto che tale autoregolazione e posizione di equilibrio invocate erano proprio ciò che consentiva agli attori economici delle imprese di dimensioni gigantesche di costituire monopoli o oligopoli, minando alle fondamenta e stravolgendo tali meccanismi.

Dietro il richiamo al libero formarsi del prezzo delle merci si sottintendeva il ruolo centrale della moneta quale «automatico regolatore » dei flussi di moneta sul mercato economico tra investimenti e risparmi dei privati cittadini, dunque si affermava una teoria meramente quantitativa della moneta, senza tenere in alcun conto una sua teoria «qualitativa», secondo cui la moneta può essere trattenuta dai suoi reinvestimenti nel sistema di produzione e consumo , può essere cioè tesaurizzata ( naturalmente da coloro che ne sono in possesso in misura adeguata) per interessi e scopi di finanza speculativa, il che può causare a sua volta gigantesche bolle speculative dalle conseguenze disastrose, come osservò acutamente Keynes in quegli stessi anni.

Se Lippmann, Rougier e i due economisti tedeschi, volevano preservare per lo Stato e la società liberali del futuro, sul piano politico e giuridico, il modello della democrazia rappresentativa, a tutela del principio formale della sovranità popolare, oppure sul piano sociale e antropologico reintegrare la «natura comunitaria dell’individuo dalla sua perdita nell’anomia della giungla di un mercato deregolamentato», questi alti propositi cozzavano però con «quella cornice immodificabile del sistema economico che assicura il massimo dell’utilità e del profitto dalla produzione»,cornice ancorata proprio a quelle dottrine economiche neo classiche del marginalismo e dei liberi prezzi di mercato .

Tali postulati economici erano in quel consesso pacificamente considerati come gli unici in grado di permettere «un’organizzazione della produzione suscettibile di fare il migliore uso dei mezzi di produzione e di condurre alla massima soddisfazione dei desideri degli uomini».

Dal che si rivelano due ambiguità fondamentali nelle formulazioni dell’Agenda del liberalismo, atto conclusivo del Colloquio Lippmann.

1)la massimizzazione del processo di accumulazione del capitale non dovrà affatto essere frenata, irregimentata, e moderata dall’interventismo economico in prima persona dello Stato nazionale, come invece auspicato senza ambiguità in quegli stessi anni da J.M. Keynes, affinchè fossero tutelati la piena occupazione, una funzione equilibrata del sistema monetario ( nè deflazione nè inflazione) e un autentico ruolo paritario e plurale degli attori del mercato; al contrario per i neoliberali quel processo capitalistico dovrà essere garantito dalle leggi e istituzioni dello Stato.

2) La tanto auspicata reintegrazione antropologica della natura dell’uomo, il che richiederebbe la riaffermazione del suo essere zoon politikon( animale politico o comunitario) e del suo essere «animale simbolico»( animale dotato di linguaggio complesso) viene infine sacrificata e ridotta al concetto d’individuo portatore di pulsioni e desideri. Le due polarità, il sistema economico di mercato da una parte, e l’individuo che appaga le sue pulsioni e i suoi desideri attraverso il suo ruolo di produttore e consumatore di merci, dall’altra, s’integrano perfettamente in questa nuova dottrina neoliberale, una dottrina che compendia economia, politica ed antropologia filosofica.

Di conseguenza l’antropologia dell’appagamento individuale dei desideri non potrà che svilupparsi all’interno del sistema del mercato economico, dell’ordine proprietario e della concorrenza, un ‘ordine che richiederà una forma esistenziale di adattamento da parte dell’individuo stesso.

Il punto primo dell‘Agenda non a caso prevede la realizzazione dei desideri degli uomini così come «essi li provano realmente» nel mondo esistente, non «come un autorità centrale pretende di stabilirli in nome loro». Il mondo esistente degli individui per i neoliberali è quello del capitale, non contemplando una possibilità mediana tra, da una parte, le dinamiche pulsionali dell’individuo produttore-consumatore– ad es. il ruolo della «persona umana » o «soggetto » filosofico– e il suo indottrinamento ideologico da parte di un ‘autorità statuale, dall’altra parte.

Viene contrabbandato l’adattamento dinamico alla propria individuale pulsionalità come fosse «la piena realizzazione della persona umana », di cui ad es. ci parla l’artic. 3 della Costituzione della Repubblica italiana.

All’altro polo della Weltaschaung neoliberista, il funzionamento corretto, liscio e garantito del sistema dell’economia di mercato, il ruolo dello Stato sarà proprio quello d’impedire che il capitalismo si esponga alla sua costitutiva, «naturale» fragilità – alla possibilità di gravi crisi, come i fatti storici attestano– d’intervenire terapeuticamente sulla sua possibile degenerazione patologica. A questo scopo ci sono passi dell’Agenda del liberalismo che fanno concessioni a un ruolo «socialista» dello Stato, per cui si potrà prevedere «la destinazione a fini di ordine collettivo di una parte del reddito nazionale distratta dal consumo individuale»; inoltre sarà contemplato l’intervento dello Stato in materia di difesa nazionale, sicurezza sociale, servizi sociali, scuola, ricerca scientifica.

Questi passaggi dell’Agenda paiono fare concessioni alla teoria e alla prassi all’epoca in ascesa dell’economia keynesiana. Ma lo fanno in maniera rapsodica,generica e non ulteriormente precisata, rispetto alle ben più definite e pragmatiche coeve dottrine economiche di Keynes. e non poteva essere diversamente se i postulati dell’economia neoclassica precedentemente richiamati dovevano essere salvaguardati, e se a sua volta questa difesa era la conditio sine qua non per raggiungere un compromesso scritto con le posizioni molto distanti degli economisti della scuola austriaca .

Questo ambiguo, strano centauro liberal statalista, quale emerge dalle formulazioni del neonato neoliberalismo, per la sua intrinseca contraddittorietà e debolezza dottrinarie, non poteva che essere costitutivamente preda dei più accesi paladini dell’anima del libero mercato, quali appunto Von Mises e Von Hajek . In particolare Von Hajek, constatando la confutazione, tanto nella teoria che nei processi storici in atto, della dottrina economica neoclassica da lui strenuamente difesa, riprenderà con forza l’antropologia filosofica e la filosofia politica neoliberali che prevedono l’individuo come eroe eponimo della storia.

Se l’Agenda del liberalismo ammetteva la concorrenza sul mercato quale unico principio di coordinazione possibile delle azioni dei singoli individui, capace di controllare e incanalare le libertà formali e le pulsioni individuali verso la valorizzazione del capitale, verso la «transustanziazione» della forma impresa nel corpo sociale, verso la trasformazione dei membri di una massa, proletarizzata dalla giungla del mercato deregolamentato, in altrettanti imprenditori di sè stessi, bè tutti gli elementi erano allestiti per l’elaborazione di un epopea dell’individuo nella storia.

In questa impresa si gettò anima e corpo Von Hajek durante gli anni di guerra, in quello che fu unaninamente considerato dai suoi ammiratori il suo lascito testamentario più duraturo e la sua opera più celebre : The road to serfdorm.
Come vedremo la prossima volta, Verso la schiavitù non è un trattato di economia ma un saggio di filosofia politica e antropologia filosofica, un saggio in cui l’antropologia dell’individuo protagonista della storia, la nuda roccia primigenia della natura dell’individuo, deve essere la pietra angolare, l’idealismo liberale su cui potere riedificare l’edificio del tempio del liberalismo economico e politico andato in frantumi, un necessario passaggio in attesa che i tempi mutino nuovamente e tornino favorevoli a livello sociale ed economico.

BIBLIOGRAFIA

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Diego Fusaro : Storia e coscienza del precariato. Servi e signori della globalizzazione, ed . Bompiani

Ilaria Bifarini : Il grande Reset : dalla pandemia alla nuova normalità

Massimo Citro Della Riva : Eresia. Riflessioni politicamente scorrette sulla pandemia di Covid 19 . ed Byoblu.

Walter Lippmann : La Giusta società, ed. Einaudi.

Alessandro Simoncini : Un neoliberale a Parigi . Walter Lippmann e gli ordoliberali.

Rivista Scienza e Politica

Gianfranco Sabattini: La crisi della democrazia secondo Walter Lippmann, l‘Avanti on line

Davide Maria de Luca : Dobbiamo parlare di neoliberismo, rivista Economia.

Friedrich Von Hajek: Verso la schiavitù . Pianificazione e democrazia, sicurezza e libertà, la fine della verità, ed. Rizzoli.

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