Le radici totalitarie del Neoliberismo. V. Stagflazione e The Crisys of democracy : la revanche del neoliberismo

Solo con la crisi economica che è passata alla storia sotto il nome di Stagflazione, intorno alla metà degli anni settanta del novecento, l’ideologia totalitaria del neoliberismo ha potuto riprendere slancio sia sul piano dottrinario che di una conseguente prassi politico-economica. E’ come se i fautori di questa ideologia – economisti, filosofi, intellettuali in genere e sopratutto i lobbisti dell’ elite del grande capitale multinazionale e finanziario–aspettassero questa occasione di revanche, questa rivincita nei confronti di quello che potremmo definire il modello vincente di una socialdemocrazia, ossia di quel compromesso virtuoso tra democrazia liberale e socialismo che, nel blocco dei Paesi dell’occidente transatlantico, anche per ragioni di strategia geopolitica nei confronti del blocco antagonista dei Paesi comunisti del Patto di Varsavia, era uscita vincente nel dopo guerra.

Per questo motivo abbiamo simbolicamente intestato questa fase storica del rilancio del neoliberismo sia al fenomeno economico della stagflazione che alla pubblicazione, nel 1975, di The Crisys of democracy, il manifesto costituente di un importante associazione di categoria dell’alta Finanza, The Trilateral, che valutava quella fase come la manifesta entrata in crisi di quel modello socialdemocratico.

Eppure questo modello, per circa trent’anni, non caso denominati The Golden Age, aveva guidato con successo l’economia e la politica dell’Occidente. A partire dagli Accordi di Bretton Woods del luglio del 1944, su ispirazione del pensiero e della prassi dell’economista inglese J. Maynard Keynes, e ancor più dei suoi discepoli tanto statunitensi che europei, insediatisi in ruoli strategici d’indirizzo e comando delle politiche economiche e sociali di Stati Uniti e Gran Bretagna, in quegli anni politiche manifestamente keynesiane guidarono l’intero blocco occidentale, progressivamente già a partire dagli anni trenta per poi estendersi negli anni di guerra e sopratutto del dopoguerra.

Gli Accordi di Bretton Woods ( dal nome della località del New Hampshire in cui si trovava l’albergo, Mountain Washington hotel, sede del congresso ) s’incentrarono sulla necessità di costituire un sistema di regolazione dei cambi internazionali tra le valute, e di creare istituti finanziari internazionalmente riconosciuti quali Il Fondo Monetario Internazionale e La Banca Mondiale. Obiettivo comune a le potenze alleate convenute nell’occasione ( tutti gli Stati alleati contro il patto tripartito, Unione sovietica compresa) era quello di dare vita a un sistema di regole e procedure che governasse la politica monetaria internazionale e i futuri rapporti economici e finanziari, di modo che non si ripetessero più quelle pratiche economiche intrastatali e interstatali che, a giudizio degli esperti in materia, erano state concausa dello scoppio della seconda guerra mondiale.

Tra tali pratiche economiche perniciose erano annoverate: le diffuse misure protezionistiche, le svalutazioni dei tassi di cambio per ragioni competitive, e la scarsa collaborazione tra i paesi in materia di politica monetaria( oscillazioni troppo grandi tra politiche inflazionistiche e politiche deflattive).

A Bretton Woods furono presentate due proposte alternative di riforma del sistema monetario internazionale e di una nuova politica commerciale mondiale, la prima a firma dell’economista statunitense Harry Dexter White, la seconda elaborata dall’economista inglese J. M. Keynes.

Il modello di sistema economico delle relazioni internazionali proposto da White prevedeva

la possibilità di prevenire il crollo del sistema creditizio delle banche e delle valute( ciò che era successo con le grandi fluttuazioni monetarie– espansione illimitata del credito e poi sua improvvisa contrazione– in occasione della grande depressione del 1929) – assicurare la ricostruzione del commercio internazionale paralizzato dallo scoppio della seconda guerra mondiale, e rispondere fattivamente all’enorme bisogno di capitali per la ripresa economica mondiale. Tutto questo richiedeva, agli occhi dell’economista statunitense, una collaborazione internazionale in campo monetario e bancario.

J.M. Keynes, da parte sua, propose di creare «un sistema di compensazione multilaterale», basato su una moneta universale, il Bancor, agganciata alla valutazione in oro, capace di scongiurare gli squilibri finanziari che avevano portato al disastro degli anni trenta.

Attraverso un conto all’interno di una International Clearing Bank, ogni nazione avrebbe avuto la possibilità di saldare i debiti contratti in valuta, facendo riferimento alle parità precedentemente stabilite rispetto al Bancor.

Tra i due fu scelto il progetto del delegato al tesoro americano White, di conseguenza gli accordi di Bretton Woods decretarono che il dollaro era l’unica valuta convertibile in oro in base al cambio di 35 dollari contro un’oncia del metallo prezioso. Il dollaro poi venne poi eletto valuta di riferimento per gli scambi. Alle altre valute erano consentite solo oscillazioni limitate in un regime di cambi fissi a parità centrale.

Questo regime di cambi fu mantenuto fino all’agosto del 1971, quando fu fatto saltare dall’allora presidente degli Stati Uniti Richard Nixon, per i motivi che vedremo in seguito.

Le istituzioni del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale alla loro nascita, avevano una funzione assai differente da quella che avrebbero poi sviluppato a partire dagli anni 80 del novecento.

Se ad es, uno degli Stati di quello che sarebbe stato il blocco occidentale del dopoguerra, presentava una bilancia dei pagamenti( tra importazioni ed esportazioni ) eccessivamente sbilanciata in favore delle importazioni e a detrimento delle esportazioni, oppure quel singolo Stato aveva dei deficit strutturali nel suo apparato produttivo, gli era consentito di attuare una svalutazione competitiva della sua moneta, per rilanciare la sua bilancia dei pagamenti dal lato delle esportazioni( una funzione delegata al Fondo Monetario Internazionale) . Erano anche previsti aiuti finanziari agli Stati in difficoltà, senza sufficienti infrastrutture produttive, in particolare proprio da parte della Banca Mondiale, destinata specificamente a queste operazioni di soccorso finanziario dei singoli Stati .

La filosofia di fondo era quella di una solidarietà tra Stati (del tutto inconcepibile se paragonata alle politiche attuali di quelle istituzioni internazionali e ad es. dell’attuale Unione Europea) .

In questa cornice internazionale di collaborazione tra Stati si incrementarono, dal dopo guerra fino agli anni settanta, politiche economiche ispirate a principi keynesiani degli Stati Occidentali, a partire dagli Stati Uniti, già resi esperti in materia dalle loro «pionieristiche » politiche del cosiddetto New Deal di Franklin Delano Roosvelt dal 1933 in poi, e proseguite indefessamente fino agli anni settanta, passando indifferentemente attraverso amministrazioni politiche democratiche o repubblicane.

Ma avrebbe presto seguito il loro esempio la Gran Bretagna di Attlee, vicepremier di Winston Churchill durante la guerra, che in politica interna ebbe pressochè mano libera. Il biografo di Churchill, Martin Gilbert, osservò che «il discorso sul bilancio» della coalizione di guerra del 1942« fu totalmente keynesiano…l’utilizzo delle stime sul Pil nazionale e della spesa nella formulazione del bilancio fu un momento centrale nella storia dell’applicazione dell’economia alla politica». Ruolo centrale nelle politiche economiche keynesiane della Gran Bretagna di quegli anni lo ebbe William Beveridge, che progettò e mise in pratica il modello di uno Stato sociale pagato dal contribuente e l’obiettivo nazionale del pieno impiego. Beveridge ebbe modo di dire, in quello che sarebbe passato alla storia come il Beveridge Report : « la responsabilità finale…per favorire la domanda per tutte le braccia che cercano lavoro deve essere…assunta dallo Stato».

In quello stesso Report Beveridge delineava la previdenza sociale e il Servizio sanitario nazionale. Suggeritore di Beveridge delle linee d’interventismo dello Stato in economia in quel Report fu l’economista Kaldor, ex allievo prediletto di Von Hayek, ormai pentito e transitato completamente sul fronte keynesiano.

Altri Paesi dell’occidente seguirono presto questi esempi, come ad es, l’Australia il cui premier laburista, John Curtin, propose « pieno impiego in Australia» un programma che impegnava il governo a trovare un lavoro a tutte le persone abili. Nella scrittura della Carta delle costituende Nazioni Unite( ONU) in quegli stessi anni fu inserito un impegno in base al quale tutti i governi dovevano favorire « standard di vita più elevati, il pieno impiego e il progresso economico e sociale». Lo stesso ONU nel 1948 dichiarò : «Tutti hanno diritto al lavoro, alla libera scelta del posto, a giuste e favorevoli condizioni lavorative e alla tutela contro la disoccupazione».

L’Europa Occidentale devastata dalla guerra diventò un laboratorio del keynesismo. Con l’Unione Sovietica presa a modello dai partiti comunisti e socialisti supportati dalle masse cospicue di simpatizzanti e aderenti in Paesi quali l’Italia e La Francia, gli Stati Uniti pensarono bene di mandare a memoria la lezione, il monito lanciato trent’anni prima dall’allora giovane Keynes di non infierire sulle nazioni –e sui loro popoli– sconfitte dalla Guerra. Keynes nel 1919 aveva scritto The Economic Consequences of the Peace ammonendo le potenze vincitrici della Prima Guerra mondiale che le sanzioni e riparazioni di guerra durissime, da loro inflitte a Germania e Austria con il Trattato di Versailles, non avrebbero fatto altro che suscitare in costoro uno spirito di rivincita e una reazione estremistica in politica. Puntualmente queste previsioni del giovane Keynes si sarebbero avverate quindici anni più tardi.

Ammaestrati da questa lezione della storia, Gli Stati Uniti decisero nel 1945 non di punire gli sconfitti con la miseria, ma di sostenere un piano massiccio di aiuti nei loro confronti, il Piano Marshall, finanziato dalla spesa in deficit dell’amministrazione americana. Questo piano, che non voleva esporre nazioni quali Germania, Italia e Giappone alla mercè del «libero mercato», fu guidato dall’allora sacerdote del keynesismo in America John Kenneth Galbraith, principale consulente del Dipartimento di Stato sulla politica economica nei paesi occupati.

E’ opportuno soffermarci brevemente sulla ripresa economica e sociale della neonata Repubblica italiana nel dopoguerra . Come negli altri Paesi del Blocco Occidentale, si affermò in Italia un modello di «capitalismo sviluppista» o «sostenibile», come lo definirebbe l’economista post keynesiano Nino Galloni. In generale, e specificatamente proprio in Italia, si proponeva un modello di «economia mista», tra il governo pubblico o politico dell’economia e il libero processo di un ‘economia di mercato, un compromesso tra il controllo politico dei meccanismi macroeconomici ( moneta, bilancia dei pagamenti, indirizzi strategici delle industrie infrastrutturali dell’energia, dei trasporti e delle telecomunicazioni) e il libero sviluppo dei singoli settori produttivi.

In Italia tale processo, che ha portato questo Paese ad essere, verso la fine degli anni settanta del novecento, la quinta potenza industriale del mondo, ha conosciuto un suo specifico sviluppo. La sua articolazione presentava grandi imprese infrastrutturali a partecipazione pubblica( L’Eni, l’Enel, la Sip, Alitalia, le Ferrovie dello Stato, la Società delle autostrade e il colosso dell’IRI) che significa che la proprietà e i capitali d’investimento erano dello Stato e dei suoi rappresentanti politici nei ministeri chiave, ma il management era affidato a imprenditori privati( il più famoso dei quali fu il manager dell’Eni, Enrico Mattei). Presentava inoltre grandi industrie private nel settore automobilistico ( la FIAT) nei settori siderurgici, metalmeccanici e chimici. Vi era infine una fitta rete di piccole e medie imprese dislocate in territori circoscritti e storicamente determinati, specializzate in una o più fasi di un processo produttivo e integrate mediante una rete complessa di interrelazioni : i cosiddetti «distretti industriali».

Questo modello sarebbe stato definito dall’economista americano Hyman Mynsky «un capitalismo interventista», « nel quale lo Stato ha un ruolo rilevante e che è reso flessibile grazie all’azione della banca centrale». Si trattava di un modello che prevedeva un ruolo centrale di regolatore dell’economia da parte dello Stato, evidentemente diametralmente opposto al modello liberista che lasciava al mercato il compito di regolare l’attività economica. E’ la stessa dottrina economica che ha ispirato i nostri padri costituenti nell’elaborazione degli articoli fondamentali della Costituzione della Repubblica Italiana, e che viene implementato in quegli stessi articoli dal concetto dinamico di «democrazia progressiva », per il quale il compito della democrazia è quello di promuovere l’eguaglianza e la libertà dei cittadini.

Tale capitalismo, « sviluppista e sostenibile»,osserva Nino Galloni, prevedeva come esito del processo di accumulazione del capitale, dei suoi elementi o stadi, e cioè il profitto, una tripartizione tra gli stipendi dei lavoratori, in generale in netta crescita, la quota riservata allo Stato mediante le tasse e il profitto vero e proprio riservato al proprietario dei mezzi di produzione, e cioè il capitalista. In questo processo il capitalista aveva un margine di profitto relativamente ridotto per unità di prodotto venduta, e sostanzialmente un ruolo abbastanza marginale ad es. rispetto al manager che era incentivato a portare lo sviluppo della produzione al suo massimo e a pianificare investimenti finalizzati a valorizzare l’impresa e ad aumentare vendite e profitti sul medio e lungo termine. Ma, e questa è la considerazione di Galloni, il capitalista orientato invece a ottenere i suoi obiettivi nell’immediato o comunque sul breve termine, non poteva ritenersi soddisfatto di tale stato di cose e la classe imprenditoriale internazionale, sopratutto a livello delle Corporations, stava pensando a come preparare la sua rivincita.

Nel frattempo in quei «trent’anni gloriosi» gli Stati Uniti portavano avanti la loro versione di economia keynesiana: ancora sotto la presidenza Roosvelt attraverso un «New Bill of Rights» del 1943 e poi un secondo Bill of Rights, oltre l’obbiettivo di un ‘alto livello di produzione e consumo nazionali, venivano poste come mete da perseguire «il diritto ad un adeguata protezione dagli spauracchi economici della vecchiaia, della malattia, degli incidenti e della disoccupazione». Infine nel gennaio del 1945 fu presentato il Full Employement Bill( «La legge per il pieno impiego») che dichiarava che «l’impresa privata, se lasciata a sè stessa, non può garantire il pieno impiego e non può eliminare la disoccupazione periodica di massa e le recessioni…tutti gli americani in grado di lavorare e desiderosi di farlo hanno diritto alle occasioni per un impiego utile, remunerativo, regolare e a tempo pieno….il governo federale deve fornire il volume d’investimenti federali e di spesa necessari..per garantire il pieno impiego».

L’amministrazione federale succeduta a Roosvelt, quella dell’ex vicepresidente Truman, si trovava ad allargare i poteri del governo oltre i correnti doveri costituzionali di controllare la moneta e il commercio e si arrogava il diritto di dirigere l’economia. Per i successivi trent’anni le amministrazioni tanto democratiche che repubblicane avrebbero spinto al massimo questi loro nuovi poteri in economia tentando di unire l’utile collettivo a quello personale: massimizzare il benessere e guadagnarsi la rielezione. La «macroeconomia », termine da allora invalso per designare un campo specifico della scienza economica ( la «macroeconomia » è lo studio del sistema economico nella sua interezza e nella interelazione delle sue parti – offerta, domanda, intermediazione finanziaria o moneta, bilancia dei pagamenti tra importazioni ed esportazioni, etc, mentre la «microeconomia » è lo studio delle singole parti del sistema ) e che fu attribuito postumo dai suoi allievi alla teoria economica di Keynes, divenne lo strumento ufficiale di governo economico da parte degli Stati Uniti. Già però durante l’amministrazione Truman, in particolare con lo scoppio della guerra di Corea nel 1950, l’improvviso forte aumento delle spese militari da parte del governo provocò un picco dell’inflazione dei prezzi dei beni al consumo, dando un segnale di allarme di quello che potevano essere i problemi di politiche economiche espansive o di spesa in deficit del governo allorchè intervenivano fattori esterni al ciclo del processo economico, in questo come anche in casi futuri, fattori di natura geopolitica, con conseguenti processi speculativi sui prezzi.

L’allora presidente del Consiglio dei consulenti economici, importante organo di gestione dell’economia americana, Leon Keyserling, rifiutò di accettare il suggerimento della Federal Reserve di tagliare la spesa per la difesa e di aumentare i tassi d’interesse per soffocare l’inflazione, e decise invece di manipolare l’economia per stimolare la crescita, ossia di aumentare la spesa pubblica proprio attraverso le spese militari, un meccanismo che andò avanti fino ai tempi di Nixon.

In ogni caso gli anni cinquanta e sessanta, tanto negli Stati Uniti, che in Gran Bretagna che nell’Europa continentale occidentale, furono decenni di grande crescita economica e prosperità diffusa. In America questa situazione attraversò gli anni delle amministrazioni repubblicane di Eisenhower e quelle democratiche di Kennedy e Johnson. Negli anni dell’amministrazione di Lindon Johnson( 1964 -1968) l’economia «dirigista» dell’amministrazione presidenziale riuscì a ottenere risultati sbalorditivi: le entrate fiscali aumentarono di 40 miliardi di dollari( nonostante i tagli sulle tasse), la crescita economica ( la crescita del Pil) arrivò fino al 6,6 % del 1966, la disoccupazione scese dal 5,2% del 1964 fino al 2,9% del 1966; l’inflazione rimase sotto il 2% in quegli anni, per poi risalire al 3,01% nel 1966.

Come c’erano riusciti gli economisti di Washington ? Con la loro adesione al dettame centrale di Keynes: «l’economia capitalistica moderna non opera automaticamente al massimo dell’efficienza, però può esservi portata con l’intervento e l’influenza del governo».

Il nuovo presidente Lindon Jhonson, forte anche della vittoria schiacciante sul concorrente repubblicano, Goldwater, alle presidenziali del 1964, mise in campo un programma di politiche economiche, sociali e dei diritti civili che, oltre ad estendere i diritti agli afroamericani «dichiarò guerra alla povertà», attraverso il diritto ai sussidi federali, e varò il Medicare per garantire le cure mediche a tutti gli over 65, e il Medicaid a chi non poteva permettersi le assicurazioni sanitarie. Contrariamente alle previsioni o «profezie » hayekiane, il nuovo benessere prodotto dalla pianificazione keynesiana non conduceva ad un autoritarismo strisciante, bensì offriva nuove forme di libertà, di cui donne, afroamericani e giovani cominciarono a godere.

La rivoluzione keynesiana fu accompagnata da una rivoluzione culturale che metteva in discussione i costumi tradizionali di una società più povera e bigotta ( i movimenti degli hippie o figli dei fiori, di contestazione alla guerra in vietnam, di lotta contro le discriminazioni civili, il 68 americano, etc.) In quegli anni di trionfo del keynesismo la produttività aumentò, il salario reale raddoppiò rispetto agli anni cinquanta, la disoccupazione arrivò a una media del 3,9% . I programmi federali per la lotta alla povertà aumentarono dal 4,7% del 1961 al 7,9 % della spesa pubblica del 1969.

Questo trend si arrestò quando, all’inizio degli anni settanta, nuovamente fattori esterni geopolitici( il finanziamento della guerra in Vietnam) interferirono nel ciclo economico. Già durante la presidenza Johnson, tra il 1965 e il 1968, mentre i macro-indicatori economici ( Pil, tasso di disoccupazione e inflazione ) prosperavano, le spese militari federali aumentarono dai 49, 5 miliardi di dollari del 1965 agli 81,2 nel 1969. L’inflazione incominciò a crescere toccando nel 1968 il 4,2% .

Nel discorso sullo stato dell’Unione del 1970, il nuovo presidente Richard Nixon dichiarò: « Durante gli anni sessanta il governo federale ha speso cinquantasette miliardi di dollari in più di quanto incassava con le tasse…Oggi milioni di americani sono costretti ad indebitarsi perchè ieri il governo federale ha deciso d’indebitarsi. Dobbiamo riportare in pareggio il bilancio».

Per combattere l’inflazione e riportare il bilancio in pareggio Nixon, con la sua squadra di economisti, dispose che fossero effettuati forti tagli alla spesa pubblica. I tagli furono tra le cause di una recessione che nel corso del 1970 portò il tasso di disoccupazione dal 3,9 % al 6,1%. Immediatamente Nixon cambiò i suoi piani economici proponendo una politica economica espansiva per «stimolare l’economia e quindi aprire nuove opportunità di lavoro a milioni di persone».

Come risultò da sue dichiarazioni ingenue, Nixon si trovo convertito nuovamente al keynesismo non per convinzione ma per «opportunismo elettorale», ponendosi come obbiettivo primario la popolarità nell’opinione pubblica allo scopo di essere rieletto per un secondo mandato. La stagnazione dell’economia +inflazione ( da cui il termine «stagflazione» ) proseguiva, smentendo quello che nel decennio precedente era stato giudicato un risultato sicuro, esatto, «matematico», di studi statistici sull’incrocio tra l’indicatore economico della disoccupazione e quello delle variazioni dei salari monetari e dei prezzi delle merci, studi che stabilivano una relazione inversa sicura tra i due indicatori: quando l’inflazione era elevata la disoccupazione era modesta e viceversa( evidentemente escludendo i casi di iperinflazione tipici del primo e del secondo dopoguerra). Questo risultato era stato matematicamente tradotto nella cosiddetta «curva di Phillips » dal nome dell’economista neozelandese che l’aveva formulata per primo. I continuatori di questa teoria, Paul Samuelson, Robert Solow e sopratutto Walter Heller, credettero di poter tradurre questa teoria matematica in sicure previsioni dei futuri processi economici, ma l’economia, come si sa, non è una scienza esatta.

Nixon da parte sua, in un summit di consiglieri a Camp David, nel giugno del 1971, fu preso nel mezzo del fuoco incrociato di proposte di misure economiche opposte: chi proponeva «una politica fiscale più stimolante, un abbassamento delle tasse o un aumento delle spese o entrambe le cose», chi al contrario «tagli alla spesa e austerity». Nixon decise per l’immobilismo, ossia i famosi quattro no: no all’aumento della spesa, no ai tagli alle tasse, no ai controlli sui prezzi e sulle paghe e no alla svalutazione del dollaro ( alla uscita dal golden standard).

Due mesi dopo però, nell’agosto del 1971, fece un ‘inversione ad U e in un programma di cosiddetta «Nuova politica economica » ( una Nep all’americana?)Nixon approvò l’uscita del dollaro dal golden standard e la sua conseguente svalutazione, uno stimolo di riduzione fiscale, un aumento della spesa che portò il disavanzo federale a 40 miliardi di dollari, e un bando ufficiale all’aumento dei prezzi e delle paghe; inoltre rinunciò al libero scambio imponendo misure protezionistiche con tasse del 10 % sulle importazioni.

Le giravolte di misure economiche di Nixon non sortirono sostanzialmente effetti positivi. Quello che però inflisse un colpo mortale ai progetti di governo dell’economia da parte di Nixon fu la quadruplicazione del prezzo del petrolio nel 1973/1974 da parte dell’Opec, il cartello petrolifero arabo, per punire l’America che aveva armato Israele durante la guerra del Kippur del 1973. Questo fatto, con la riduzione delle forniture e il decollo del costo delle fonti energetiche, determinò in maniera decisiva l’aumento generalizzato dei prezzi e la frenata alla crescita. Quando si riesamina il processo della stagflazione degli anni settanta bisogna tenere nel dovuto conto questa influenza di fattori «esterni», geopolitici, al ciclo economico.

Caduto Nixon in seguito allo scandalo del Watergate, il suo successore, l’ex vice presidente Gerald Ford, mise in pratica misure economiche di austerity, quali tagli alle spese e alle tasse per 9 miliardi. Gli indicatori macroeconomici reagirono positivamente : l’inflazione calò dal 9,2% del 1975 al 4,88%della fine del 1976 ; la disoccupazione nello stesso periodo passò dal 9% al 7,8%.

Questo non impedì la sua sconfitta alla successiva tornata elettorale . Il suo successore alla Casa Bianca, Jimmy Carter, eletto presidente alla fine del 1976, volle rieditare il Full Employement Act del 1945 con la legge Humphrey-Hawkins, che imponeva al presidente e alla Federal Reserve di mantenere la «domanda aggregata» ( l’insieme complessivo delle domande individuali) a un livello tale da garantire la piena occupazione, e ciò significava implementare la spesa in deficit dell’amministrazione presidenziale.

Ma allo stesso tempo questa legge,in maniera contraddittoria ai postulati precedenti, invitava il presidente e il Congresso a mantenere in pareggio sia la spesa pubblica che la bilancia dei pagamenti. Il persistere della stagflazione indusse poi Carter ad annunciare nuove misure quali l’austerity, la deregolamentazione massiccia delle imprese, sgravi fiscali per l’industria, il blocco delle assunzioni federali e la promessa di dimezzare il deficit di bilancio.

Ma prima ancora che queste misure potessero dare dei frutti la rivoluzione iraniana del 1979 innescò una seconda crisi petrolifera pari a quella dell’Opec del 1973, con il conseguente calo delle forniture di greggio e la salita alle stelle del prezzo del carburante. La stagflazione grazie ancora una volta a fattori «esogeni», geopolitici, ebbe una nuova impennata e Carter divenne l’agnello sacrificale delle elezioni presidenziali del novembre 1980 che fecero trionfare il nuovo araldo repubblicano del risorto neo liberismo, Ronald Regan.

Come fu affrontato il fenomeno della stagflazione in quegli stessi anni settanta e inizio degli anni ottanta in Italia? Tra le misure governative di politica economica esisteva già da tempo un’«indicizzazione dei salari », tanto del lavoratore dipendente pubblico che privato, che adeguava gli aumenti degli stipendi in corrispondenza dell’aumento dei prezzi( inflazione ) di alcune merci primarie, e questo meccanismo era stato chiamato «scala mobile». Lo scopo dell’introduzione di questo meccanismo compensativo era evidentemente quello di difendere il potere d’acquisto del lavoratore dagli sbalzi inflazionistici dei prezzi delle merci, e ciò si attuava mediante l’introduzione di un «indice dei prezzi al consumo»( il cosiddetto «Paniere»).

Gli economisti e politici neoliberisti dell’epoca attaccavano questo meccanismo della scala mobile argomentando che in certi casi sarebbe essa stessa stata causa di ulteriore inflazione dei prezzi. Secondo i detrattori questo meccanismo compensatorio non teneva in considerazione il parametro economico dell’andamento del Pil ( prodotto interno lordo) o detto in altri termini l’aumento della produttività del lavoro( il guadagno operativo per addetto), il valore aggiunto per le aziende. Secondo i critici, la scala mobile, gli aumenti dei salari, una volta che sono superiori alla produttività per il singolo produttore, anche se sono adeguati all’inflazione corrente, sono causa di nuova inflazione. Se l’aumento della produttività ( l’utile o profitto dell’azienda) rimane invariato, lo scatto automatico della scala mobile genera un aumento della moneta circolante cui non corrisponde una crescita della ricchezza prodotta, innescando così una spirale inflazionistica.

Viceversa, un aumento dei salari, anche al di sopra dell’inflazione ma entro la crescita della ricchezza nazionale, è una redistribuzione ai lavoratori dei guadagni di produttività. Nell’ottica dell’analisi del fenomeno della stagflazione, secondo la teoria neoliberista dunque gli aumenti salariali dovuti al meccanismo della scala mobile andavano valutati in rapporto a eventuali riduzioni dei profitti aziendali.

Se la crescita di Pil e produttività fosse stata sostenuta, invece, sarebbero cresciuti sia utili che salari, ma l’impresa avrebbe comunque ottenuto un minore profitto totale rispetto a quanto avrebbe fatto senza una redistribuzione di una quota di valore aggiunto ai suoi dipendenti. Potremmo dire che l’Italia, a differenza ad es. di Stati Uniti e Gran Bretagna, imboccò questa seconda strada nel contrasto alla Stagflazione. Infatti se poniamo sotto visione gli indicatori macroeconomici dell’andamento dell’economia italiana dal 1975 al 1982, «scopriremo», si fa per dire, che il Pil italiano andò in segno negativo ( -2% circa) solo nell’anno 1975, immediatamente dopo la crisi petrolifera del Kippur,resse molto bene alla seconda crisi energetica della rivoluzione iraniana e si mantenne costantemente in segno positivo appunto fino al 1982, anno in cui cominciarono a farsi sentire gli effetti delle mutate politiche economiche nazionali, sull’onda di quelle internazionali proprie di quegli anni.

In quei sette anni anche gli altri fondamentali indicatori macroeconomici italiani erano tutti favorevoli: basso tasso di disoccupazione, crescita costante degli stipendi dei lavori meno qualificati ( come parametro di base di tutti gli altri) e livello medio di risparmio del lavoratore italiano tra i più alti al mondo, il 25% dello stipendio mensile. Non a caso all’inizio degli anni ottanta l’Italia era classificata al quinto posto tra le potenze industriali al mondo. Certo il meccanismo della scala mobile alimentava l’inflazione dei prezzi dei beni al consumo, che in tutti quegli anni si mantenne costantemente in doppia cifra, toccando il 18, 20%. Più che di stagflazione per l’Italia si dovrebbe parlare di elevata inflazione non collegata all’andamento dell’economia reale.

Fatto sta che i governi italiani degli anni successivi si adoperarono per contenere l’inflazione riducendo prima il meccanismo della scala mobile con il governo Craxi nel 1984, per poi abolirlo definitivamente con il governo Amato del 1992, significativamente in concomitanza con l’adesione dell’Italia ai Trattati europei di Maastricht. Sul seguito di queste vicende dell’economia italiana dovremo soffermarci più avanti.

Un altro lato della questione legata ai fenomeni di stagflazione, lato da non trascurare, è il fatto che la resurrezione delle politiche economiche neoliberali, tra gli anni settanta e ottanta, ebbe una lunga preparazione e anticipazione a livello della teoria economica nel suo nuovo campione, che a un tempo accolse e realizzò una discontinuità netta con l’eredità della dottrina monetarista del maestro Von Hayek: Milton Friedman.

L’economista statunitense Milton Friedman in gioventù, dopo aver conseguito i suoi titoli di studio presso la Chicago e Columbia University aveva manifestato simpatie socialiste e infine negli anni trenta aveva aderito al modello di pensiero economico keynesiano entrando nei progetti politico-economici del New deal di F. D. Roosvelt . Tornando a Chicago alla fine della guerra, Friedman iniziò ad apprezzare le idee liberiste degli economisti Frank Knight e George Stigler, ma successivamente, avendo vinto una borsa di studio, l’economista americano ebbe modo di trasferirsi presso la scuola economica keynesiana di Cambridge in Inghilterra, dove conobbe i maggiori pensatori keynesiani dell’epoca: Kahn, Robinson e Kaldor.

Studiando, al pari di Keynes e Hayek, le cause della Grande Depressione, Friedman analizzò ogni linea in salita e in discesa nel grafico americano degli ultimi novant’anni e scoprì che ogni crisi, ogni «fase ciclica » del processo economico, era preceduta da un’esplosione nell’offerta di moneta( qui però sorge spontanea la domanda : di che natura era tale inondazione di moneta nel sistema economico in occasione della grande depressione del 29? Era forse basata su un «castello di carte » del meccanismo di prestiti/ debiti dei privati da parte delle banche private con annessi «addentellati speculativi», stile il meccanismo di scommessa dei derivati strutturati della bolla speculativa del 2007/8? ndr, ) .

Secondo Friedman se la Federal Reserve americana tra il 1929 e il 1933 avesse aumentato l’erogazione di liquidità abbassando i tassi d’interesse invece di ridurla bruscamente, la recessione sarebbe durata solo 2 anni. Per Friedman la grande recessione era stata più propriamente la «grande contrazione » d’immissione di moneta nel sistema economico, un disastro evitabile creato dall’uomo( come ogni fenomeno economico, ndr.). Secondo Friedman per aiutare l’uscita da una nuova eventuale «fase ciclica » del processo economico, ci sarebbe voluta una lenta crescita dell’offerta monetaria da parte della banca centrale, una crescita adagio, che sarebbe stata ribattezzata «monetarismo»( più propriamente avrebbe dovuto essere rinominata «neomonetarismo» dato che la dottrina monetarista era stata propriamente formulata per la prima volta all’inizio degli anni venti da Von Mises e Von Hayek, ndr.) .

Per Friedman la grande contrazione è la tragica testimonianza del potere della politica monetaria( solo che la politica monetaria, sarebbe importante da specificare, può essere tanto di mano pubblica che privata, non esattamente con gli stessi effetti, ndr.) Questa concezione friedmaniana del «neomonetarismo» doveva servire anche a criticare e contrastare la politica economica keynesiana della lotta alla disoccupazione e recessione con politiche d’intervento pubblico nel mondo del lavoro( investimenti produttivi dello Stato).

Friedman ribatteva che un economia sprofondata nella recessione non aveva bisogno di maggiore domanda ma di una disponibilità di denaro adeguata, anche se non troppo generosa. Il giusto livello di moneta avrebbe portato a un «livello naturale di occupazione » che non necessariamente corrispondeva con la piena occupazione, mentre al contrario troppa liquidità o troppo poca nel sistema, avrebbe causato inflazione e/o disoccupazione.

La teoria economica keynesiana non era rifiutata a prescindere da Friedman, come era stato invece il caso di Hayek. Diceva a questo proposito Friedman: «Credo che quella di Keynes sia il tipo giusto di teoria nella sua semplicità, nel suo concentrarsi su alcune grandezze chiavi, nella sua potenziale utilità». Friedman credeva che «il lascito di Keynes all’economia dal punto di vista tecnico sia stato fortemente positivo» ma che l’eredità politica fosse stata fortemente negativa. «Ha dato un grande contributo alla proliferazione di governi iperespansi, interessati ad ogni fase della vita quotidiana dei cittadini».

Il camaleontismo o ecclettismo di Friedman in economia si univa a una posizione liberista in politica, tipicamente antistatale, contraria al suo interventismo. Era favorevole alla riduzione delle tasse perchè credeva che gli individui sapessero meglio dei politici come spendere i propri quattrini e anche perché se riducevi le tasse, a suo parere, dovevi ridurre anche la spesa pubblica.

L’impianto di uno Stato sociale buono oppure viceversa incline alla corruzione, inefficiente e in ultima analisi possibile fonte di una società totalitaria, era per Friedman legato alle diverse condizioni antropologico-culturali dei differenti popoli. L’interventismo statale in Gran Bretagna o nei paesi scandinavi non aveva portato al totalitarismo per il particolare tipo di «educazione civica » che sia le classi dirigenti che le popolazioni di quelle nazioni avevano introiettato come un sorta di patrimonio genetico. Per Friedman era altamente improbabile che uno «stato sociale buono» potesse instaurarsi anche negli Stati Uniti d’America.

Complessivamente il pensiero economico di Friedman non nasceva dalla scuola austriaca di Von Mises e Von Hayek, anche se riconosceva grandi meriti a Von Hayek per le sue posizioni e teorie politologiche e antropologico-filosofiche. Friedman riconosceva ad Hayek il merito di avere ispirato un’infinità di «fautori come lui di una società libera». Nella teoria propriamente economica però era critico nei confronti del pensiero di Hayek e viceversa prodigo di elogi per Keynes e per la sua originale invenzione della macroeconomia. L’unico punto di contatto vero dal punto di vista della teoria economica tra Friedman e Hayek era la convinzione che l’inflazione fosse un problema maggiore della disoccupazione.

I due erano invece accomunati nell’esaltazione dei valori dell’individualismo e nel sospetto nei confronti dei poteri concessi in generale allo Stato. Di conseguenza Friedman accettò la sfida politologica di Hayek per la riduzione delle dimensioni dello Stato.

Se volessimo riassumere il contributo specifico di Friedman alle teorie economiche dovremmo focalizzarci sui seguenti punti.

Innanzitutto Friedman si è distinto, nella rielaborazione della classica teoria quantitativa della moneta. La teoria quantitativa della moneta secondo la dottrina neoclassica, come abbiamo visto, vede i prezzi dei beni e servizi direttamente proporzionali alla quantità di moneta in circolazione in un dato momento: se cresce quest’ultima cresceranno in proporzione anche i prezzi( creazione d’inflazione).

Friedman non crede più che la moneta sia o debba essere un’entità neutrale da dare in affidamento al libero gioco delle dinamiche del mercato perchè questo giunga ad un auto-equilibrio tra quantità di moneta in circolazione ( il suo flusso) più la sua velocità di circolazione ( di trasferimento da un possessore ad un altro), e il prezzo delle merci, e gli altri fattori macroeconomici quali il tasso d’interesse( il costo) del denaro, il tasso di occupazione o disoccupazione, o l’andamento complessivo della produzione( Pil) .

La moneta per Friedman, come abbiamo già accennato, deve essere sì gestita dagli attori politici ( i governi nazionali ) ma con un attenta, prudente e oculata emissione da parte loro, perchè secondo l’economista americano l’eccessiva immissione di moneta nel sistema economico non produce ( tramite ad es, la crescita continua di spesa in deficit degli Stati) benefici sulla produzione e sulla occupazione, ma solo crescita dell’inflazione dei prezzi. Per Friedman l’inflazione dei prezzi è un fenomeno unicamente monetario non collegato alla crescita dell’occupazione ( come asseriva invece la curva di Phillips secondo cui c’era una relazione matematica inversa tra tasso di disoccupazione e tasso d’inflazione) ed è connesso ad un eccesso di offerta di moneta rispetto alla crescita della produzione.

Ritroviamo qui anche il tema, già evidenziato, della critica neoliberista al meccanismo della scala mobile in Italia. Secondo questa critica, ricordiamo, gli aumenti dei salari tramite un meccanismo compensatorio da parte dello Stato all’inflazione dei prezzi, se superiori alla produttività del singolo produttore( al profitto aziendale per il singolo addetto alla produzione), anche se adeguati all’inflazione corrente, sono causa di nuova inflazione, poichè generano un aumento della moneta circolante cui non corrisponde una crescita della ricchezza prodotta, innescando così una spirale inflazionistica.

L’asserita inefficacia delle politiche monetarie espansive di mano pubblica per ottenere risultati positivi nell’economia reale, porta Friedman a postulare i seguenti risultati: fatto salvo che lo Stato debba regolare con prudenza l’emissione di moneta nel sistema, in aumento o in diminuzione ( tramite riduzione delle spese pubbliche e/o riduzione del sistema di tassazione) per il resto il mercato è in grado di regolarsi autonomamente, e la piena occupazione non può più essere un obbiettivo delle politiche economiche di un Paese, ma è «fisiologica » all’economia di mercato una quota di disoccupazione, come fase transitoria del lavoratore nel passaggio da un lavoro ad un altro.

E’ il concetto del cosiddetto «tasso naturale di disoccupazione », come correlazione osservabile tra tale tasso e il livello naturalmente instabile della produzione economica. Lo stesso indice instabile dei prezzi delle merci influisce sul valore di mercato e sull’occupazione. Il tasso naturale di disoccupazione ne diventa una conseguenza involontaria, in cui chi cerca lavoro non lo trova. Ma il complesso di tali fattori determina delle variazioni nell’equilibrio del sistema economico . In ogni caso, a giudizio di Friedman, non possono essere le politiche di controllo statale sulla domanda ( tramite politiche espansive in deficit per sostenere l’occupazione o i sussidi di disoccupazione o lo stato sociale in genere, ndr,) a risolvere in modo definitivo il tasso naturale di disoccupazione. Sarà semmai il sistema economico ad intervenire per riequilibrare le variazioni di mercato sul tasso di disoccupazione.

Un ulteriore punto distintivo nel pensiero economico di Friedman è quello per cui egli rigetta la concezione del capitano d’impresa, in particolare del manager di una multinazionale, quale possibile figura sociale, ossia dello stakholder(portatore d’interessi) che si assume una responsabilità nei confronti della società( attraverso operazioni benefiche di filantropia oppure di impegno in campagne e imprese a favore dell’ambiente, etc) dato che il manager di un impresa, dei soldi da lui impegnati, risponde unicamente al padrone azionista o al consiglio degli azionisti di maggioranza( il CDA) dell’impresa stessa, avendo come dovere unico quello di massimizzare il profitto del medesimo.

Le teorie e dottrine di Friedman ebbero una notevole influenza sui governi guida dell’Occidente in quella congiuntura economica, sociale e politica che passò sotto il nome di stagflazione, e che segnò il passaggio da un modello di socialdemocrazia keynesiana a un modello neoliberista, come emblematicamente rappresentato dall’insediamento del governo della Tatcher in Gran Bretagna nel 1979, e dalla nuova presidenza Regan dal 1980 negli Stati Uniti. A cascata questa revanche economica, politica e culturale del neo liberismo avrebbe coinvolto e prevalso progressivamente in tutti gli altri Stati occidentali ( l’Europa occidentale, i paesi del Commonwealth, etc.)

Se poniamo mente alla convergenza di Friedman sulle posizioni politologiche e filosofico-antropologiche espresse a suo tempo da Von Hajek ( in particolare nel suo saggio La via della schiavitù), alla sua celebrazione come capostipite di una «generazione di pensatori della società libera», non risulteranno sorprendenti una sequenza di fatti, nell’«epoca della stagflazione».

Già nel 1974, al mutare del clima generale, Von Hajek, eclissato come economista da quasi quarant’anni, fu inaspettatamente insignito del premio Nobel per l’economia per «il lavoro pionieristico nella teoria della moneta e delle fluttuazioni economiche». Ma il premio nobel gli fu dato a pari merito con l’economista keynesiano e politico socialdemocratico svedese Gunnar Mydal. Questa premiazione in coabitazione scatenò polemiche tanto dal lato dei neoliberisti che dei Keynesiani.

Quando poi nel 1979 Margaret Tathcher prese la guida della Gran Bretagna, dichiarando apertamente la sua ammirazione e fede tanto per le dottrine economiche che politologiche hayekiane, citando spesso La via della schiavitù come una sorta di bibbia del liberalismo, non sorprese nessuno che la first lady ospitasse in Downing street tanto Von Hayek che Friedman.( quest’ultimo a sua volta era stato insignito del premio nobel per l’economia nel 1976) .

In realtà Von Hayek aveva proseguito la sua sotterranea crociata liberale in tutti quegli anni costituendo una associazione di economisti, intellettuali e politici neo liberali che ispirò a sua volta associazioni di alta finanza, accademici e politici che si costituirono dal dopo guerra in poi: la Mont Pelerin Society, ai cui incontri periodici nell’Hotel Du parc sito sul Monte pellegrino in Svizzera incominciò a partecipare anche il giovane Friedman che ebbe così modo di conoscere di persona il più anziano maestro. Come gruppo costituente Von Hayek chiamò a raccolta i partecipanti al Colloquio Lippmann del 1938.

A questa associazione costituita nel 1947, una sorta di matrice e modello d’ispirazione, seguirono molte altre fondazioni di società dell’alta finanza tra cui: l’Aspen Institute nel 1949, il celebre Gruppo Bildelberg nel 1954, ( dal nome dell’albergo olandese De Bildelberg che ospitò l’incontro inaugurale), Il Gruppo dei trenta, fondato nel 1978.

In questo senso Von Hayek lavorò come la celebre «talpa che scava sotterraneamente », solo a ruoli invertiti : non più il marxismo che lavora e attende sotterraneamente il crollo del capitalismo, ma il neoliberismo che cripticamente aspetta il momento del crollo della socialdemocrazia. In questa temperie generale può essere preso come un atto simbolico ed emblematico la costituzione dell’ennesima importante associazione di alta finanza, la Trilateral Commission, proprio nel momento di crisi del modello keynesiano delle democrazie occidentali, il 1973.

Non a caso quello che può essere considerato come il manifesto costituente dell’ associazione ( Il cui nome «Trilaterale» indica le tre macro-aree geografiche di provenienza dei suoi membri, Nord america, Europa occidentale e Asia) s’initolava: The Crysis of Democracy ( il titolo esteso del manifesto nella traduzione italiana era: La Crisi della democrazia . Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla commissione trilaterale).

Si trattava di uno studio commissionato dalla stessa Trilateral a tre studiosi, il sociologo francese Michel Crozier, il politologo americano Huntington e il sociologo giapponese Watanuki. Il punto di partenza dello studio era l’analisi della situazione delle istituzioni politiche negli Stati Uniti, nell’Europa occidentale e in Giappone, tra gli anni sessanta e settanta. Ciò che emergeva come fenomeno critico comune era un problema di governabilità di tali sistemi democratici generato da «un eccesso di democrazia», ossia dal fatto che i governi occidentali fossero «stracarichi di partecipanti e richieste» che i loro sistemi burocratico-politici non erano in grado di fronteggiare, rendendo le loro rispettive società ingovernabili.

Per risolvere questa situazione il Report suggeriva il ripristino del « prestigio e l’autorità delle istituzioni del governo centrale ». Cosa s’intendeva dire con ciò? Sicuramente innanzitutto che la democrazia rappresentativa era opportuno che si «autoblindasse » rispetto alla «pretesa » dei cittadini elettori di tentare d’influire sul governo della res publica attraverso manifestazioni, petizioni o pressioni( attivando cioè meccanismi di democrazia partecipativa o diretta).

Si indicava inoltre, ad ulteriore restringimento della democrazia rappresentativa, come possibile modello di risoluzione della sua crisi, un rafforzamento del potere esecutivo rispetto a quello parlamentare anche per mezzo del potere di secretazione degli atti e decreti presi dal governo medesimo rispetto a una loro normale e procedurale discussione nel contesto del parlamento, squilibrando il rapporto tra esecutivo e parlamento a vantaggio del primo.

Dunque «l’eccesso della democrazia» con i suoi effetti d’ingovernabilità poteva essere «sanato» con la sua riduzione al governo di elites tecnocratiche , degli specialisti o «competenti», introducendo così un concetto e un modello di oligarchia nel campo della politica democratica. Concetti quali «governabilità » e «tecnocrazie» iniziarono ad avere da allora libero corso. Sotto il concetto di «conflitto di cittadinanza » si può riassumere la contrapposizione che si sviluppò negli anni settanta tra le spinte all’inclusione sociale e alla redistribuzione di poteri e risorse materiali, da una parte, e il rifiuto critico, la denuncia di tale eccesso di richieste sociali, di sovraccarico di responsabilità richieste alla democrazia, a cui quelle soluzioni del Report costituiscono una reazione, dall’altra parte.

La preponderanza del potere esecutivo nei governi, e all’interno di questo, l’affermazione di elites tecnocratiche e lobbistiche «extraparlamentari» ( non votate ed elette da nessuno )che al suo interno avrebbero spesso portato verso un’affermazione di un «presidenzialismo di fatto» anche se non formalmente sancito, era già implicita in quella formulazione di proposte di rimedi contenuta in The Crysis of Democracy.

Con un giudizio puntuale, a proposito del Report Crysis of democracy, Noam Chomsky parlò di esempio di« politiche oligarchiche e reazionarie sviluppate dal vento liberista delle elites dello Stato capitalista».

Effettivamente fu il contesto di crisi del keynesismo dell’epoca della stagflazione che permise il rilancio della dottrina e della prassi del neoliberismo a «raggio totalitario» – dalle politiche economiche, alle prassi istituzionali, ai modelli d’indottrinamento culturale – come è proprio della sua natura.

Su gli effetti e gli esiti di questa revanche, a cavallo tra ventesimo e ventunesimo secolo, dovremo soffermarci nel prossimo capitolo, con particolare attenzione su quell’esperimento in vitreo di «neoliberismo totalitario» che di fatto è stata ( su ispirazione dell’ordoliberismo tedesco), con i Trattati Maastricht del 1992, la costituzione dell’Unione europea e della moneta unica euro.

Nicola Boidi

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