Le radici totalitarie del neoliberismo. VI:1980-2010, l’età neoliberale e la nascita del finanzcapitalismo.

Gli anni ottanta del novecento inaugurarono l’età neoliberale in tutto l’occidente transatlantico – Stati Uniti, Gran Bretagna, Europa continentale occidentale e Commonwealth– con estensione al Giappone e «addentellati » nel cosiddetto sud del mondo – Sud America, Africa e Sudest Asiatico– anche mediante la nuova funzione che importanti istituzioni finanziarie, Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale, andarono acquisendo e sperimentando in questi Paesi nel nuovo progetto di società neoliberista.

Si affacciava già in quegli anni l’ epoca di un regime totalitario neoliberista compiuto?

Per rispondere a questa domanda, ponendo i necessari distingui e precisazioni, dobbiamo tornare un attimo a una riflessione di natura teorica. Nell’introduzione generale al nostro discorso abbiamo definito il neoliberismo, tanto come dottrina che come prassi economica, politica e culturale, la nuova ideologia totalitaria del nostro tempo.

Il neo liberismo si configura come un totalitarismo nichilista, in cui sprofondano e si cancellano tutti i valori tradizionali– famiglia, religione, Stato, comunità e cultura «spirituale» o «riflessiva» ( il modello filosofico dell’Io penso o autocoscienza soggettiva) – per essere sostituiti dal culto del denaro, del potere che esso assicura, e dalla mitologia dell’individuo vincente sulla scena della società e della storia, che attraverso tali strumenti del denaro e del potere, e dello sbalorditivo sviluppo delle nuove tecnologie ad essi collegati, può modellarsi in un «uomo nuovo», in un essere umano «postumano», «transumano», potenzialmente onnipotente, alla ricerca di una sorta d’immortalità ( o differimento all’infinito della propria caduca condizione mortale) sventolando questi progetti come l”ultima frontiera del progresso della scienza e della società umane.

Questo modello mitologico dell’individuo, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, si costruisce sull’affermazione di «un cattivo infinito», come lo avrebbe definito il filosofo Hegel, cioè della credenza in un infinita crescita del processo economico capitalistico che non conosce limiti nello sfruttamento della natura e della natura umana, o li conosce solo per abbatterli e superarli continuamente, sia in base a un principio economicistico che sul presupposto dell’onnipotenza delle possibilità della tecnologia.

Sia il peras ( limite ) della natura secondo la civiltà greca antica, che la natura creaturale, limitata e mortale dell’uomo rispetto al creatore onnipotente dio, del cristianesimo, vengono totalmente ignorati da questo modello di hybris, di dismisura o onnipotenza economicistica, scientifico-tecnologica e in ultima istanza filosofica- antropologica del neoliberismo.

La caratteristica di tale nuova ideologia all’affacciarsi sul proscenio, l’ultima ideologia rimasta sulla scena, vincente su tutte le altre, è quella di mascherarsi e presentarsi sotto le sembianze della «fine di tutte le ideologie» ( «la fine della storia » l’avrebbe definita negli anni novanta del novecento il politologo Fukujama) e dunque come una legge naturale, un destino inevitabile, niente più di «artificiale» come era stato il caso dei modelli antropologici, sociali e politici dei totalitarismi novecenteschi del comunismo e del fascismo e nazismo.

Sempre in introduzione avevamo sottolineato che perché questa ideologia o ultimo totalitarismo si sviluppasse e affermasse nella sua pienezza erano necessarie alcune condizioni, condizioni necessariamente non compatibili con processi politici ed entità statuali in cui la parola democrazia( più propriamente si dovrebbe dire «social-democrazia») avesse ancora un significato e un contenuto profondo e sostanziale.

Solo in situazioni in cui il governo statuale / nazionale dell’economia si fosse fortemente deteriorato a vantaggio di potentati economici finanziari e sovranazionali, in cui i riti della democrazia rappresentativa – partecipazioni dei cittadini a elezioni di rappresentanti partitici da cui trascegliere le nostre classi dirigenti al parlamento e al governo, con la vigilanza del terzo potere della magistratura e la coscienza critica del quarto potere, il «cane da guardia» del potere del sistema dell’informazione– si fossero progressivamente svuotati del loro significato per rovesciarsi infine nel loro contrario, per cui i cittadini e i singoli popoli si fossero trovati infine alla nuda mercé dei nuovi signori planetari, «the masters of universe», con la collaborazione di quegli stessi attori istituzionali, bè solo allora, questa era l’affermazione di fondo, si sarebbe potuto parlare di un totalitarismo neoliberale compiuto.

Rispondendo al quesito posto in precedenza possiamo allora dire che, no, gli anni ottanta non erano né potevano essere la fase dell’affermazione compiuta di questo nuovo modello totalitario, che la strada economico-politica e culturale per la sua vittoria doveva necessariamente essere progressiva, graduale, proprio perché i nuovi processi e le nuove politiche economiche dovevano presentarsi e imporsi, agli occhi dell’opinione pubblica, come necessarie, ineluttabili e destinali, e anche perché tale totalitarismo in nuce doveva di necessità mascherarsi dietro il paravento della continuità delle forme e delle istituzioni della democrazia liberale, della continuità dell’esercizio delle magnifiche e progressive sorti delle libertà dell’individuo «da» e «nella » società ma non «con» la società.

Non a caso una delle prime paladine di questa nuova frontiera, il primo ministro britannico Margaret Tatcher, sarebbe passata alla storia con il motto : «Esistono solo gli individui, non esiste la società». In una parola il metodo o la tattica seguita dai fautori dell’affermazione del neo liberismo era quella della «cottura a fuoco lento» della società( l’immagine del popolo che, come una rana, viene bollito lentamente nella pentola, una bollitura a fuoco lento per impedirgli di accorgersene e di poter saltare fuori primo del tempo, cioè della sua cottura definitiva e irreversibile).

Lo scenario complessivo che si presentava all’inizio degli anni ottanta del novecento nel «nuovo mondo neoliberale», come sua prima fase o stadio, non poteva di conseguenza essere quello che, come una svolta epocale, si sarebbe manifestato solo un decennio dopo, alla caduta dell’Urss e del sistema del comunismo reale dell’Europa orientale, che sarebbe passato alla storia come l’epoca della globalizzazione, della «fine della storia» alla Fukuyama ( intesa come trionfo definitivo della società liberal-capitalistica). Quella nuova fase a sua volta sarebbe servita da incubazione per un nuovo progetto / esperimento di totalitarismo neoliberale, il progetto sovranazionale dell’Unione europea e della moneta unica Euro, che si sarebbe attuato pienamente solo a partire dall’inaugurazione del nuovo secolo nonché nuovo millennio.

Gli anni ottanta del novecento videro anche l’instaurazione di un altro fenomeno fondamentale per la compiuta realizzazione del modello neoliberale: la nascita del «finanzcapitalismo», come lo denominò nelle sue mirabili opere il sociologo Luciano Gallino. Il concetto di finanzcapitalismo non coincide con «capitalismo finanziario» toutcourt, dato che a rigor di termine, da quando esiste un’economia di mercato non più basata sul baratto ma sullo scambio di beni e servizi tramite moneta( a partire da circa 2.700 anni fa) esiste un ruolo della intermediazione finanziaria. Ma finanzcapitalismo non coincide neanche con l’epoca del moderno capitalismo finanziario della rivoluzione industriale e delle fasi ad essa successiva, epoca in cui, attraverso la nascita delle SPA, ( società per azioni), intorno alla metà dell’ottocento, uova d’incubazione delle Corporations, le banche e le borse finanziarie cominciarono a sviluppare i giochi speculativi di quotazioni delle azioni delle imprese, gonfiando i tassi d’interesse ad esse relativi e cominciando a produrre quelle bolle speculative, quelle fluttuazioni di movimenti di moneta, spesso premessa di eventi di crisi del sistema dell’economia di. mercato. Non a caso il ruolo speculativo dei capitalisti finanziari era già presente a Karl Marx che li definì, nel secondo volume del Capitale, «lupi di borsa ». No, il finanzcapitalismo è un fenomeno nuovo, di altra natura, proprio perché costituisce un salto di qualità rispetto ai suoi antecedenti. Si tratta dell’emersione di un ruolo via via sempre più dominante dell’economia finanziaria, speculativa ( la creazione di denaro o profitto semplicemente attraverso il denaro, saltando l’intermediazione del meccanismo di offerta e domanda della merce) rispetto all’economia reale ( produttrice di beni e servizi).

Questo ruolo per svilupparsi aveva bisogno di un habitat adeguato e lo trovò agli inizi degli anni ottanta. Questo contesto favorevole si presentò a un tempo come tendenze generali di un processo e casi specifici di Paesi campione, di Paesi pilota.

E’ opportuno partire da una breve analisi delle politiche economiche e sociali di questi Paesi, perché la loro funzione in questo contesto specifico di sviluppo del modello neoliberale fu quella, innanzitutto, di, nel suo gergo, «sgombrare il campo dalle macerie dello statalismo» cioè di rovesciare il precedente modello di gestione pubblica, statale, dell’economia e della società, e di preparare così il terreno ai nuovi soggetti, tra cui le Corporations , le banche d’affari e gli «Investitori istituzionali» finanziari.

Questi paesi pilota, come è accaduto ad ogni svolta della storia moderna del capitalismo, non potevano che essere la patria della Rivoluzione industriale,la Gran Bretagna, e la patria di elezione del capitalismo delle Corporations, gli Stati Uniti d’America. Puntualmente ciò si è verificato anche a questo tornante della storia.

Nel 1979 Margaret Thatcher divenne il primo ministro di un governo conservatore in Gran Bretagna che si propose il compito di rovesciare il modello britannico di proprietà pubblica, statale di ferrovie, autobus, miniere, cantieri navali, acciaierie, reti telefoniche, elettricità, gas e fornitura d’acqua, British Airways, British petroleum, porti ed aeroporti ( un modello molto simile, per non dire gemello, a quello dell’economia mista, pubblica/ privata, dell’Italia dell’epoca) .

Margaret Tatcher, primo ministro britannico conservatore si mise subito all’opera di una «rivoluzione neoliberista», in un contesto internazionale che favoriva questa svolta.

Il contesto era quello, come visto la volta scorsa, della fine degli Accordi di Bretton Woods,

a sua volta esito della crisi economico-politica intervenuta negli anni settanta sotto il nome di «Stagflazione ». A partire dal G7 (consesso periodico dei paesi più industrializzati del mondo) di Tokio del 1979, fu stabilito che fosse posta fine agli accordi di Bretton Woods del 1944, che fino ad allora avevano costituito una sorta di solidarietà tra le economie del blocco occidentale: da quel momento in poi ogni Stato avrebbe dovuto aggiustare da sè i propri squilibri nella bilancia dei pagamenti( nei surplus o nei deficit tra importazioni ed esportazioni di merci o di capitali), ossia far crescere i tassi d’interesse sui propri titoli di Stato per finanziare la propria spesa pubblica .

Questa misura si accompagnava all’introduzione nelle politiche economiche degli Stati della nuova ortodossia «neomonetaria» friedmaniana per cui l’emissione di moneta tramite spesa in deficit da parte dello Stato, con il supporto della sua banca centrale, doveva ridursi progressivamente ( con conseguente taglio degli investimenti occupazionali e delle spese per lo Stato sociale) pena in caso contrario il persistere del pericolo della «stagflazione» ( stagnazione del pil+inflazione dei prezzi dei beni al consumo).

E’ quello che immediatamente attuò il primo ministro Tatcher: ridusse le dimensioni del settore pubblico, limitò l’offerta di moneta, tagliò le tasse, liberò le imprese dalle regolamentazioni, cercò di ridurre il debito nazionale e alienò, o per meglio dire privatizzò, i beni statali . Ai membri del suo governo che citavano la disoccupazione crescente e la violenza nelle strade come dimostrazione del carattere sbagliato delle sue politiche, Margaret Tatcher non diede alcun ascolto.

La sperimentazione delle soluzioni monetariste friedmaniane, la prima autentica in una democrazia, fu caratterizzata da un certo numero di false partenze ed errori, nel corso del suo sviluppo. Il monetarista svizzero Jurg Nienhans fece notare alla prima ministra inglese che stava attuando un controllo troppo rigido sull’erogazione della moneta, poneva tassi d’interesse troppo alti sui titoli di Stato, e in questo modo determinava una rivalutazione della sterlina che rendeva troppo costose le esportazioni britanniche. Friedmann da parte sua imputò gli iniziali insuccessi alla oscillazione continua dell’offerta di moneta, il che, a suo giudizio causò «una recessione molto più severa del necessario».

Mentre la Thatcher portava avanti il suo programma, il nuovo presidente statunitense, l’ex attore hollywoodiano Ronald Reagan, incoraggiato dall’esempio britannico, avviò la sua personale politica economica e sociale neoliberale . Spinto dai consiglieri economici, tra cui lo stesso Friedmann, progettò un largo programma di taglio alle tasse, di riduzione della spesa pubblica, e d’incremento, al contrario, del settore della Difesa. Reagan inserì il principio monetarista della riduzione dell’emissione pubblica di moneta, finalizzata alla lotta all’inflazione, in un paniere di misure economiche che fu ridenominato Reagan Economics.

L’economista statunitense Arthur Laffer aveva negli anni precedenti teorizzato che c’era un livello di tassazione ottimale ( né troppa né troppo poca) per raccogliere il massimo d’entrate, e illustrò il suo ragionamento disegnando una curva a campana ( secondo un aneddoto su un tovagliolo di un ristorante una sera a cena) . La «curva di Laffer» divenne il mantra degli economisti reaganiani per convincere l’opinione pubblica che i tagli alle tasse avrebbero fatto aumentare le entrate.

Un forte abbattimento delle tasse sui redditi avrebbe dovuto incentivare le spese personali, che a loro volta avrebbero fatto crescere la domanda con un effetto di «sgocciolamento»( trickle down) lungo tutta l’economia. Un altro principio ispirato dalle teorie di Laffer fu la cosiddetta supply-side-economics, l’economia «dal lato dell’offerta», per cui il boom economico è il risultato di una produzione di merci più numerose e meno care ( non «inflazionistiche») che si ottiene a sua volta deregolamentando il settore industriale e riducendo le tasse alle imprese; in sostanza l’esatto contrario di un modello di crescita economica «spinta dalla domanda » innestata dalla spesa pubblica keynesiana.

Le misure di riduzione dell’emissione di moneta attuate dall’allora presidente della FED, Paul Volcker, suscitò una dura recessione che si protrasse per sedici mesi nel periodo 1981-1982, al contempo riuscendo a ridurre l’inflazione dal 11,8% al 3,7% nel 1983. La recessione comportò una crescita della disoccupazione a livelli mai più conosciuti dopo la Grande Depressione, una disoccupazione che arrivò nel 1983 al 9,7 % . La curva dell’economista keynesiano Phillips, smentita e derisa in seguito ai fenomeni di stagflazione degli anni settanta, sembrò di nuovo valida.

I tagli delle tasse imposti da Reagan furono impressionanti : una riduzione del 25 % per tutte le aliquote, con poi un taglio delle tasse ai contribuenti più ricchi dal 70 % nel 1981 al 28% nel 1988. Le tasse sulle imprese calavano dal 28% al 20%. Il Pil ricominciò a crescere tra il 1983 e il 1986, passando al 4,8%. L a disoccupazione ridiscese nel 1988 al 5,3%.

I neomonetaristi friedmaniani cantarono vittoria: l’inflazione era stata abbattuta e le forze del capitalismo erano state liberate dalle loro catene . Friedmann esultò : «Quelle decisioni di Reagan, abbassare le tasse più l’enfasi sulla deregulation, scatenarono le fondamentali forze costruttive del libero mercato, che dal 1983 è stato quasi sempre in ascesa».

Certo la Reagan Economics aveva anche tagliato i programmi sociali per i poveri, e aveva al contrario aumentato a dismisura gli investimenti nella Difesa, dai 267 miliardi di dollari nel

1980 ai 393 miliardi di dollari nel 1988. Il debito pubblico crebbe da un terzo del Pil nel 1980 a più della metà a fine 1988, passando da 900 miliardi a 2800.

All’ insediamento di Reagan alla Casa Bianca l’America era la più grande creditrice al mondo, mentre al termine del suo secondo mandato, era diventata la più grande debitrice( ricordando che bisogna sempre distinguere tra la quota di un debito dello Stato con la sua Banca Centrale, un debito fittizio, e la quota di debito reale nei confronti di creditori privati esteri, principalmente banche e Investitori istituzionali) .

L’ondata di spesa pubblica nel settore della Difesa era stata in quegli anni ottanta l’autentico innesco della domanda aggregata e della crescita economica.

Questa opera «pionieristica » di realizzazione di politiche neoliberali da parte dei governi di destra, conservatore e repubblicano, britannico e statunitense, fece da modello per altri governi degli Stati occidentali di quegli anni ottanta e poi degli anni novanta, guidati dai progressisti( il socialista francese Mitterand, il socialista italiano Amato, il cristiano-sociale Prodi, il il cristiano sociale Khol, etc.) . Non a caso tra i principali campioni della nuova ortodossia neoliberale, che fecero opera di facilitazione e incentivo allo sviluppo delle nuove forze del capitalismo finanziario e multinazionale, vi furono, a partire dagli anni novanta, gli eredi progressisti di quei governi conservatori, il democratico statunitense Clinton e il laburista inglese Blair.

Le tendenze generali del processo, che furono liberate da quelle politiche statuali, videro innanzitutto la sostituzione, in gran parte, della mano pubblica nella emissione e gestione della moneta con l’irruzione fragorosa e sempre più massiccia della finanza privata. Se dovessimo adottare l’antica prospettiva della fisica Aristotelico-tolemaica, che non concepiva la presenza del vuoto nello spazio( era connotata da un autentico horror vacui)potremmo dire che il vuoto lasciato dalla finanza di Stato doveva di necessità essere riempito da un altro soggetto o ente, dato che in ogni sistema economico il quantitativo di moneta necessario al suo sviluppo equilibrato non poteva essere ridotto( il flusso di moneta in un economia è paragonabile, per metafora, al quantitativo di sangue necessario per la sopravvivenza del corpo umano, 8 litri circa) . Di necessità le banche private e gli «Investitori istituzionali»( fondi pensioni, fondi speculativi, compagnie di assicurazione) presero gradualmente il sopravvento e la loro potenza di fuoco era, proprio per questo mutare delle politiche economiche, destinato a potenziarsi in modo smisurato nel giro di pochi decenni.

Non a caso nel 1987,per la prima volta il grafico della curva dell’economia speculativa finanziaria mondiale si trovò a sorpassare la curva dell’economia reale. In quegli anni ottanta mutò anche il modello dell’economia reale: si prospettò la possibilità che il capitale recuperasse la competitività e l’aumento del profitto, dal lato della produzione e offerta di merci, attraverso un libero sviluppo della deregolamentazione delle imprese di grandi proporzioni, e la loro delocalizzazione in Paesi e mercati meno condizionati da un diritto del lavoro avanzato, che si trattasse del Sud America, dell’Africa o del Sud est asiatico .

Questa rivincita su doppio binario, dell’economia reale e dell’economia finanziarizzata, del capitale rispetto al lavoro – la cui contrapposizione non poteva più essere configurata in termini di lavoratore autonomo contro lavoratore dipendente ma di grande imprese contro piccole -medie imprese insieme ai lavoratori dipendenti, in una progressione inesorabile – presentava alcune fenomenicità peculiari.

1) La stagnazione prima, e progressiva riduzione poi, degli stipendi medi dei lavoratori dei Paesi occidentali, messi in concorrenza con quelli dei loro colleghi dei cosiddetti «Paesi in via di sviluppo». Ne sarebbe seguito un aumento generalizzato della disoccupazione e la crescita esponenziale dell’indebitamento di individui, famiglie e piccole e medie imprese, dunque del debito privato. 2) L’implementazione dei profitti delle grandi imprese nell’economia reale, oltre che con la suddetta concessa deregolamentazione e delocalizzazione delle imprese negli altri continenti, attraverso una finanziarizzazione spinta del «processo di accumulazione del capitale», (la grande crescita dell’utilizzo dei profitti ricavati da un ‘impresa, al contrario di un nuovo processo d’investimento in produzione e vendita di prodotti e in forza lavoro, in reinvestimenti in titoli di stato, in azioni o obbligazioni delle imprese private, per ottenerne un ulteriore profitto speculativo, che conobbero un autentico boom in quegli anni ottanta) per cui non si poteva più parlare di Corporations a pura vocazione da economia reale ma a un tempo aziende produttrici e aziende speculative.

Concomitante con questi processi è l’emergere della figura del manager delle grandi imprese, investito del compito di far crescere i profitti del consiglio di amministrazione degli azionisti dell’azienda, con ogni mezzo, produttivo o speculativo. Il manager di multinazionale vide crescere, mediamente, con una progressione geometrica rispetto un qualsiasi dipendente della sua ditta, fino a centinaia di volte la sua retribuzione.

3) L’ascesa imperiosa, come abbiamo già accennato, delle entità finanziarie – banche di affari speculativi e «investitori istituzionali»– le quali non solo cominciarono ad usufruire enormemente della «mano libera» lasciata loro dalla finanza pubblica degli Stati nella emissione e gestione della moneta, ma anche della difficoltà progressiva che i lavoratori della classe popolare e della classe media incontrarono nel far fronte alle necessità del loro bilancio personale e familiare.

La riduzione del potere d’acquisto per la stagnazione o riduzione degli stipendi medi dei lavoratori dipendenti, la difficoltà crescente a competere sul mercato con le multinazionali da parte dei piccoli e medi imprenditori, favorirono un ulteriore «incremento di funzione » da parte delle banche. Incominciarono a svilupparsi in misura accelerata, con un aumento esponenziale, geometrico, sistemi di credito/ debito da parte di banche e finanziarie offerti a clienti/ consumatori : privati cittadini per l’accensione di un mutuo sulla casa, imprenditori per investimenti in imprese industriali, per l’ipoteca su un immobile commerciale, o per mille altre finalità.

4) Questo sistema di credito/ debito che conosce, soprattutto a partire dagli anni novanta del novecento, una crescita smisurata, senza precedenti, è altresì agevolato dalla nascita e lo sviluppo sbalorditivo delle nuove tecnologia dell’intelligenza artificiale, in particolare con l’apparizione della rete d’intercomunicazioni planetaria internet( nata, come tutte le nuove tecnologie, nel campo delle sperimentazioni militari), sistema telematico che facilita, accelera e incrementa in maniera prodigiosa tutte le operazioni di tecnica finanziaria.

A questo riguardo è opportuno soffermarsi sulla natura dell’emersione del finanzcapitalismo, come il fenomeno più peculiare del neo liberismo, in particolare negli ultimi trent’anni.

Si potrebbe dire che quello che era «il sogno» degli economisti neoclassici di fine ottocento e inizio novecento, fautori della dottrina «marginalista» secondo cui il «prezzo naturale » delle merci sul mercato, come loro prezzo d’equilibrio tra offerta e domanda, avrebbe dovuto essere l’autentico obiettivo e valore di un economia di mercato– sostituendo l’unità moneta all’unità lavoro come principio di valore dell’economia– accompagnata dalla «dottrina monetarista» secondo cui la moneta come la «merce delle merci» o rappresentante simbolico di tutte le merci, avrebbe dovuto essere affidata nella sua emissione e distribuzione al meccanismo di autoregolazione del mercato ( cioè alle banche private) e sottratta al governo degli Stati, trovava la sua piena realizzazione.

Quella che può essere definita la« nuova aristocrazia » non più di sangue come ai tempi dell’Ancient Regime dell’aristocrazia francese, ma una nuova «nobiltà de robe», ( di ricchezza, di proprietà privata) o Le Nouveau Regime planetario, si è in questi ultimi decenni generata dalla consorteria delle 147 maggiori Corporations mondiali di cui le prime 48 per classifica di bilancio sono tutte enti finanziari( banking holding companies, in termini tecnici). Tra questi enti spiccano in cima alla classifica : Jp Morgan, Merril Lynch, Barclays, Goldmann Sachs,  Bank of Amerika, Ubs, Deutsche Bank, Credit Suisse, Bnp Paribas, Unicredit.

Sulla sommità di tale piramide finanziaria vertiginosa sono assisi i tre maggiori fondi speculativi mondiali, tutti statunitensi, e dietro cui si parano le maggiori famiglie dei magnati mondiali: Black Rock, Avanguard e State Street.

Proprio quel sistema di credito / debito nei confronti delle popolazioni, che conosce un salto di qualità a partire dagli anni 90, contribuisce in misura preponderante al decollo della finanza mondiale. In che modo? In generale si può dire attraverso la creazione di un «casinò speculativo mondiale» con l’invenzione del sistema dei «derivati strutturati». I derivati strutturati sono titoli finanziari appartenenti a una categoria a sé stante rispetto ai normali titoli di Stato o alle azioni e obbligazioni quotate in borsa delle aziende private. I derivati possono essere definiti una sorta di «scommesse finanziarie» collegate alla concessione di prestiti ai cittadini privati.

Vi sono molte categorie di questi «prodotti» finanziari, ma qui ne esamineremo solo quelle

che sono state protagoniste, hanno avuto un ruolo determinante nel «confezionare» il crack finanziario che ha avuto inizio nell’agosto del 2007 e che come una valanga ha travolto l’intero sistema economico nel giro di un paio d’anni.

Tra le categorie dei derivati strutturati campeggiano le cosiddette Cdo( Collaretized debt obbligations), «obbligazioni intrecciate o collegate a un debito», in cui un credito/ debito( credito per la banca concessionaria, debito per il cliente utente) viene «cartolarizzato», ossia trasformato in un pacchetto di titoli reinseribili sul mercato, e cioè vendibili a qualcun’ altro( non più il classico paradigma del mutuo, «origina e conserva», ma «origina e distribuisci»).

Il meccanismo di funzionamento è il seguente: la banca (o società finanziaria in genere) vende il debito a una società satellite da essa stessa istituita a questo scopo, ( che può essere denominata Spv, «società veicolo per scopi speciali » o Siv, «società veicolo per investimenti strutturati») la quale inserisce quel debito ( ad es. un finanziamento per la stipulazione di un muto sulla casa ) in un «portafoglio» o conglomerato o canestro di megatitoli ( centinaia o addirittura migliaia di Cdo) , ognuno dei quali canestri non ha il normale valore obbligazionario di qualche centinaio o  qualche migliaio di euro o dollari, ma varia da un valore minimo di 500 milioni a mediamente 1/2 miliardi di dollari.

Questi canestri di obbligazioni vengono poi suddivisi in trance di differenti gradi di rischio, dopo di chè le società veicolo vendono questi prodotti finanziari strutturati a Investitori istituzionali. Tutte queste operazioni avvengono su circuiti non regolamentati( al di fuori delle borse finanziarie o dei normali contratti d’investimento tra clienti e Banche o Fondi), nel giro di poche settimane se non di pochi giorni. Infine il capitale originariamente investito ridiventa disponibile per un nuovo mutuo, con un meccanismo che teoricamente si replica all’infinito.

Strettamente collegati o abbinati ai derivati Cdo sono poi i derivati Cds ( Credit Default Swaps) «certificati di protezione del credito dal rischio d’insolvenza di un debitore», contratti in cui un soggetto finanziario B– il venditore di protezione – s’impegna a versare una determinata somma a un soggetto A – il compratore di protezione– là dove il terzo soggetto C non rimborsi ad A in tutto o in parte, alla scadenza convenuta, il credito da questi ricevuto( ad es. la rata per il mutuo della casa) . Il compratore di protezione A versa al venditore B un premio trimestrale o annuale, e il contratto può prevedere che la somma che B dovrebbe versare ad A, in caso d’insolvenza di C, sia pari all’intero credito non riscosso, oppure ad una parte di esso.

La polizza assicurativa dei Cds, che viene comprata dagli Investitori per proteggersi dal rischio d’insolvenza di qualunque ente che emetta titoli, obbligazioni o stipuli dei debiti– Stati, banche, aziende o privati cittadini– è una polizza negoziata su circuiti non regolati, per cui si può contrattare come si vuole e il suo valore cambia ad ogni secondo: più l’azienda o lo Stato sottostante( «derivato») è percepito a rischio, più il costo della polizza sale. Ma, reciprocamente, più la polizza sale di costo più viene riprezzato l’intero mercato dei titoli azionari o obbligazionari . Se salgono i Cds anche il rendimento dei titoli di Stato o delle Cdo si rialza e viceversa. Quindi i Cds sono scommesse sul fallimento di Stati, imprese o intere economie nazionali, scommesse in cui si vince se il soggetto su cui si è puntato fallisce.

Questo spiega il motivo per cui i Cds sono molto appetiti dagli enti finanziari, proprio perché la ricerca di sempre nuove forme di rischio da assicurare comporta cospicui guadagni

ottenibili tanto dalla vendita di protezione dal rischio d’insolvenza che dal suo acquisto, in connessione con lo sviluppo delle Cdo.

A queste due categorie centrali dei derivati strutturati si aggiunge poi il meccanismo per cui la banca concedente il credito, quando non ha capitali sufficienti per prestare il debito, e per un qualsiasi motivo non lo voglia creare dal nulla al computer, li chiede in prestito ad un’altra banca privata o alla Banca centrale, oppure a un fondo comune specializzato in operazioni sui mercati monetari.

Per alimentare con continuità il flusso di cassa del denaro liquido indispensabile al processo, la banca se lo procura prevalentemente con accordi interbancari di riacquisto a termine, denominati Repos: una banca richiede ad un’altra banca, o a un fondo comune facente funzione, una data somma offrendo in deposito un collaterale e impegnandosi a restituire la somma ( e a recuperare il relativo collaterale ) entro un periodo brevissimo ( un lasso di tempo che può essere di un giorno o venire prorogato a qualche settimana o a qualche mese) . Se il collaterale depositato è considerato solido, il prestatore accetta che il valore del collaterale ecceda di pochi punti d’interesse il valore del prestito; se invece il collaterale presenta dei rischi il suo valore può essere molto alto.

Questo meccanismo del Repos ha contribuito a ingigantire il debito delle banche verso altre banche o altri enti finanziari.

Un gigantesco sistema di «finanza ombra» ha potuto svilupparsi su questo edificio di accumulazione finanziaria, un’ autentica montagna di soldi di derivati, il cui valore nominale complessivo nel 2007, alla vigilia del crack della banca d’affari Lhemann Brothers, legato al sistema dei prestiti per il mutuo sulla casa Subprime ( letteralmente «scadenti»), crack che ha ingenerato la più grande recessione economica dell’Occidente dai tempi della Grande Depressione del 1929, fu stimato intorno ai 765.000 miliardi di dollari ( un valore «nominale » da distinguere dal valore reale, distinzione dettata proprio dal fatto che si tratta di prodotti fondati su un meccanismo di scommessa o di azzardo– la loro cosiddetta «cartolarizzazione»– in cui solo alcuni investitori vincono e molti altri invece perdono) .Questa stima risulta essere 10/ 12 volte il valore stimato dell’intero Pil mondiale all’epoca, 57.000 miliardi di dollari.

Tutto il sistema si regge però su un presupposto senza il quale esso non potrebbe esistere: è il cosiddetto potere di «leveraggio» delle banche private. Di cosa stiamo parlando? Del rapporto sempre più sproporzionato consentito dai derivati tra la percentuale minima di depositi di riserva obbligatoriamente tenuti dalle banche nei loro bilanci e le enormi somme date a credito, ossia di una vera e propria «creazione del denaro dal nulla» da parte delle banche private. Infatti in queste transazioni il denaro comincia ad esistere solo dal momento in cui la somma viene iscritta (digitandola su un computer ) dalla banca su un conto il cui intestatario potrà prelevare fino ad una somma predeterminata. La banca semplicemente iscrive tra gli attivi in bilancio il nuovo credito e tra i passivi un deposito.

E’ la concessione di credito (prestiti, mutui, scoperti di conto corrente, a individui, famiglie, imprese, enti pubblici, altre banche) che origina la stragrande maggioranza dei depositi bancari e non viceversa, come usualmente si crede. Inoltre le stesse banche contraggono a loro volta debiti sui mercati finanziari e nei confronti delle altre banche, come abbiamo visto.

Per secoli le banche private hanno goduto del potere progressivo e crescente di creare masse di denaro dal nulla, arrivando al punto che oggi il denaro bancario( virtuale o digitale) costituisce il 95% del totale in circolazione, creando il paradosso che gli Stati si sono trovati nell’obbligo di indebitarsi, prendendo a prestito dalle banche private, mediante l’emissione di titoli o obbligazioni, somme crescenti di denaro a un elevato tasso d’interesse anzichè creare essi stessi, a interesse zero, il denaro da impiegare per sostenere l’economia, l’occupazione, la spesa sociale.

Questo meccanismo della «creazione del denaro dal nulla» è basato sulla regola bancaria della cosiddetta «riserva frazionaria», secondo cui la banca ha unicamente l’obbligo di avere in capitale proprio una riserva minima della somma prestata, ( 1 dollaro ogni 10 prestati in USA e 1 euro ogni 12 nella UE). Questo meccanismo di «leveraggio», concesso dai regolamenti bancari internazionali alle banche private, ha visto però anche casi di banche, quali quelle britanniche, alla vigilia del crack finanziario del 2007, gonfiarsi fino a 1 rapporto di riserva frazionaria pari a 40 sterline ad 1 nelle concessione dei prestiti, un effetto di leva finanziaria mostruoso dunque.

La funzione di una banca di prestare più denaro di quanto non ne possegga( a imprenditori, famiglie e individui), è essenziale per il funzionamento di un’ economia di mercato, ma una volta che questa quantità assuma dimensioni gigantesche e patologiche( ossia rivolta a mere operazioni speculative) si rovescia nel suo contrario, innescando crisi esplosive, come puntualmente è accaduto.

Riassumendo si può dire che un regime di accumulazione di profitto del capitale, differente da quello dell’epoca precedente, si è prodotto in questi ultimi quarant’anni: un ‘accumulazione non più per produzione ( o ancora solo tale in misura limitata e secondaria) ma un accumulazione per «circolazione» del capitale. L’«accumulazione per circolazione » del capitale potrebbe essere definita come segue : essa salta tutte le fasi intermedie della accumulazione produttivista e si concentra sulle forme di circolazione del plus valore o profitto misurabile in denaro, le implementa, ne inventa in continuazione di nuove, così come inventa nuovi attori di questo processo, perché da questa innovazione delle forme di circolazione essa ne ricava il massimo profitto: il denaro produce direttamente altro denaro in questa accumulazione «contratta» e «deviata» dal suo percorso tradizionale. E’ la cosiddetta «estrazione di valore » dal capitale.

In un tale sistema, come hanno sottolineato due eredi del pensiero keynesiano, Hyman P. Minsky e Thomas Palley, s’incrementa un’economia in cui la domanda aggregata viene spinta dal sistema del debito e dall’inflazione del prezzo degli attivi delle banche, al posto di una domanda fondata sulla crescita dei salari, a sua volta fondata sulla crescita della produttività. Il modello globalizzato dell’economia sostiene questo sistema comportando spese per le importazioni, la perdita di posti di lavoro nella manifattura e la delocalizzazione delle produzioni alla ricerca di mercati più «accoglienti»( minor costo del lavoro, minori diritti sul lavoro, minore attenzione alle questioni ambientali).

Questa architettura finanziaria complessiva, basata sui presupposti dei prodotti derivati strutturati –Cdo, Cds e Repos– in cui meccanismi di scommessa si associavano a una illimitata fiducia che tutti gli attori coinvolti tenessero fede al loro ruolo, a ciò che «promettevano», una sorta di «illimitato ottimismo » o incoscienza dei mercati finanziari, era soggetta a fortissimi rischi di crollo, ed è quello che è puntualmente accaduto a partire dall’agosto del 2007.

L’innesco del crollo, come è noto, fu attivato dall’origine stessa di quel gigantesco meccanismo speculativo: la concessione di prestiti per mutui sulla casa denominati subprime( letteralmente «scadenti»), offerti sotto forte pressione e potere di persuasione da emissari delle banche a svariati milioni di famiglie in affitto negli Usa, Regno unito, Spagna e Irlanda, non in grado di rimborsarli ma persuasi a sottoscriverli dalla promessa dell’aumento certo del valore degli immobili.

Questi «prestiti immobiliari scadenti» cominciarono a non essere ripagati in massa tra il 2004 e il 2006, quando i tassi d’ interesse ad essi relativi salirono di quasi quattro volte, da meno dell’1,5 % a più del 5%. Ricordiamo che a questi mutui erano collegati tanto il sistema dei derivati strutturati Cdo( Collaterated debt obbligations) «obbligazioni collegate a un debito», dei Cds ( Credit default swaps)« certificati assicurativi contro l’insolvenza del debitore», che i Repos, ( «debiti interbancari assicurati da un collaterale») come abbiamo visto. Il tutto era demandato alle società veicolo Spv( «società veicolo per scopi speciali ») o Siv ( «società veicolo per investimento strutturato») istituite a questi scopi dalla banca di riferimento, formalmente autonome, ma in realtà riconducibili alla loro «casa madre».

A partire dall’agosto del 2007, con un inizio del crollo pressochè simultaneo negli Usa e in Europa, si è arrestata di colpo la circolazione della liquidità, linfa vitale dell’economia( è come se il corpo umano fosse affetto da un ‘improvvisa emorragia di sangue).

Gli investitori istituzionali, principali acquirenti dei derivati strutturati, incominciarono a percepire che un numero elevato di debitori non ripagavano i muti all’origine di quei titoli finanziari. Per cautelarsi smisero di acquistare trance di quei derivati. Si arrestò improvvisamente il flusso di liquidità di cui si alimentavano le società veicolo, Spv e Siv . Ma gli Spv e gli Siv erano comunque costretti a continuare a rinnovare i titoli a breve scadenza da loro emessi, per potere pagare i titoli a lunga scadenza comprati dalle loro banche di riferimento. Anche se formalmente tanto i Siv che i Spv avevano veste giuridica indipendente, per cui i costi della loro bancarotta non potevano risalire formalmente alla banca sponsor, quest’ultima era costretta a salvarli a suon di miliardi per non giocarsi la reputazione.

Anche le banche che avevano sia comprato che venduto protezione, per mezzo dei cosiddetti Cds, ( «certificati assicurativi contro l’insolvenza del debitore» ), incontrarono gravi difficoltà, perché i Cds comprati non venivano più ripagati dalla controparte, mentre quelli venduti obbligavano a pagamenti esorbitanti. Per quanto riguarda le banche si rifiutarono di concederli da un giorno all’altro; altre chiesero collaterali in misura sempre più elevata, oltre al 50% dell’ammontare del prestito richiesto. Un sentimento di panico, un moto collettivo, questa volta non di risparmiatori che corrono allo sportello dei loro depositi temendo il fallimento delle banche, ma di enti finanziari indebitati tra di loro per centinaia di miliardi di dollari( o di euro), che non si possono più fidare dei loro rispettivi debitori, percorse come un’onda sismica il sistema finanziario. Tre tra le maggiori banche d’investimento del mondo – Bear Sterns, Lehmann Brothers, e Merrill Linch – furono lasciate fallire, mentre altre due, Goldmann Sachs e JP Morgan, hanno cambiato statuto trasformandosi in Banking Holding Companies.

In generale quasi tutte, comprese le «consorelle» europee, hanno subito pesanti perdite, in buona parte trasferite in modo diretto o indiretto ai bilanci pubblici, o in parte sanate da leggi confezionate su misura.

Questo gigantesco classico caso di « privatizzazione di profitti e socializzazione delle perdite » d’imprese private, è stato reso possibile dalla configurazione abnorme e deviata che hanno assunto questi moloch della finanza internazionale. La configurazione è quella per cui, una volta abolita la legge statunitense Stegal -Glass del 1933, ( e le sue omologhe europee) che impediva alle banche di svolgere una «funzione universale », cioè di essere a un tempo banche di affari speculativi e ordinarie banche di depositi e di prestiti a imprese, famiglie e individui ( banche commerciali ), quei colossi della finanza non potevano essere lasciati fallire dalle istituzioni degli Stati nazionali, pena in caso contrario coinvolgere nel crollo milioni di famiglie di risparmiatori, utenti di conti correnti, piccole imprese, enti pubblici, etc.

Ma la configurazione peculiare è anche quella, come già accennato, del «leveraggio» o «effetto leva», per cui una banca è tenuta unicamente ad avere una minima quota nei propri bilanci di ogni somma prestata, mediamente tra un decimo e un dodicesimo, arrivando però alla vigilia della crisi ad operare, tanto le banche statunitensi che quelle europee, con un effetto leva pari fino a 1 a 31. Abbiamo già accennato alla regola bancaria della «riserva frazionaria». E’ inutile sottolineare come questo sistema abbia incitato a «delinquere», finanziariamente parlando, anche se si tratta di operazioni del tutto legali.

Infine la stessa smisurata dimensione degli attivi a bilancio di questi colossi finanziari li ha resi come il classico «elefante » nel corridoio, un pachiderma troppo ingombrante e condizionante per poterlo liquidare.

Basti considerare che i principali gruppi finanziari, come abbiamo visto, non sono più semplici banche ma vere e proprie bank holding companies che ricomprendono al loro interno anche fondi d’investimento comune ( fondi speculativi), fondi pensione, e compagnie assicurative ( i cosiddetti «Investitori istituzionali») dalle polivalenti funzioni finanziarie. Se prendiamo i dati degli attivi dell’ eurofinanza degli ultimi 10 anni, sistema ombra incluso, sono arrivati a superare il 600% del Pil dell’Unione europea dei 19 paesi che hanno adottato la moneta unica euro, ( tra attivi ufficiali e attivi al di fuori dei bilanci ufficiali), con un Pil complessivo corrispondente a 60 trilioni di euro contro i 14 trilioni del Pil dell’Eurozona.

I maggiori gruppi finanziari europei hanno una dimensione eccezionalmente grande rispetto ai Paesi in cui risiedono( l’olandese ING possiede attivi finanziari superiore all’intero Pil dell’Olanda, la sola Deutsche Bank fa registrare attivi corrispondenti al 17% del Pil aggregato della Ue : 2,2 trilioni di euro su 14). Tra le 48 prime aziende per bilancio nella classifica mondiale, tutti enti finanziari, ben 18 sono europee, che competono alla pari con i colossi statunitensi.

Il problema delle «banche troppo grandi per essere lasciate fallire » si abbina a quello della loro natura di «banche universali» e a quello di loro eccessivo potere di «leveraggio».

Qui abbiamo focalizzato solo alcune tra le principali questioni che il Monstrum finanziario ,costituitosi in questi decenni, ha sollevato coinvolgendo direttamente nella sua patologia Stati, società e popoli.

Altre questioni, altrettanto importanti, potrebbero essere evidenziate, tutte legate a questa complessiva architettura della finanza internazionale, ( ma che in realtà esulano dalla limitata trattazione del nostro discorso, essendo state precedentemente analizzate in altra sede, in un articolo pubblicato on line, intitolato : Il capitalismo finanziario è civilizzabile? Parte seconda).

Per una legge generale di filosofia dialettica– il principio di «negazione determinata» – l’individuazione o determinazione precisa, di dettaglio, di ciò che in un oggetto o processo analizzato si è dimostrato sbagliato, da confutare o negare, già di per sè può dare indicazioni importanti, anche se non esaustive, sul modo in cui si può e si deve intervenire.

Ad esempio sulla questione cruciale del potere di leva delle banche, esso potrebbe essere sanato con un regolamento inter e intrabancario per cui una banca non può più valersi del principio della «riserva frazionaria », cioè la facoltà ormai diventata pressoché illimitata di concedere prestiti non coperti da deposito o da capitale proprio.

Come proposto già da tempo da studiosi della materia la «riserva frazionaria» andrebbe abolita con la restaurazione della «riserva totale ». Ipotizzando che una banca possieda denaro contante equivalente al 10% dei depositi a vista, il restante 90% «denaro digitalizzato o virtuale» ( il compendio di tutto il denaro circolante presso la banca medesima tramite operazioni al computer) dovrebbe essere consegnato come «collaterale »( una sorta di cauzione) a una «Commissione monetaria» governativa che in cambio verserebbe alla banca l’equivalente in contanti o in denaro digitale, poco importa, purché formato da denaro legale da essa creato sotto controllo governativo.

Per legge dovrebbe essere obbligatorio che i prestiti concessi dalla banca siano appoggiati al 100% da denaro legale o denaro base ( la «riserva monetaria totale » a garanzia dei depositi da parte della Banca centrale) anziché da «denaro digitalizzato o virtuale», cioè creato dal nulla, senza controllo, dalla banca privata alla tastiera del computer . Questa procedura regolamentata e legalizzata in sostanza restituirebbe allo Stato e alla sua banca centrale il potere e il monopolio di creare denaro a beneficio della collettività nel suo insieme. Attualmente il denaro bancario virtuale o digitale, creato dal nulla senza controllo governativo, costituisce il 95 % del totale del denaro circolante.

Questa situazione ha obbligato gli Stati ( e ciò si è accentuato dopo il crack finanziario del 2007/8) e in particolare, come vedremo nel prossimo capitolo, a quelli soggetti alle regole dell’Eurozona, a indebitarsi prendendo a prestito dalle banche private, tramite l’emissione di titoli o obbligazioni, somme crescenti di denaro ad un elevato tasso d’interesse anziché creare essi stessi, a tasso d’interesse zero, il denaro da impiegare per sostenere l’economia, l’occupazione e la spesa sociale .

Ugualmente il ritorno della separazione statutaria tra banche d’affari e banche commerciali o limitare per legge i bilanci attivi di questi colossi della finanza, sarebbero misure salutari, benvenute.

Altre proposte di riforma dei regolamenti bancari sono state formulate dagli esperti, ma al pari delle precedenti già viste, non sono mai state prese seriamente in considerazione, nè tanto meno applicate dal sistema finanziario, dalle istituzioni internazionali, o dagli Stati, nei 15 anni intercorsi dalla crisi finanziaria. Anzi al contrario ciò che è accaduto, in particolare negli Stati membri dell’Unione Europea e della zona monetaria a moneta unica Euro, è stato quello di scaricare una crisi da debito privato sui bilanci degli Stati, di trasferirla al debito pubblico, attaccando nei fatti ciò che era già implicito formalmente, negli atti giuridici e nelle Istituzioni costitutive di questa architettura giuridico-politica europea : la sovranità stessa dei singoli Stati, la loro autonomia economica, sociale e politica.

E’ l’esperimento peculiare di modello neoliberale applicato agli Stati europei, a partire dai Trattati di Maastricht del 1992, dall’introduzione della moneta unica Euro dal 2002, e poi sopratutto dalle misure adottate dalle Istituzioni europee dal 2010 in poi, per fronteggiare gli effetti della crisi economico-finanziaria, che dovrà essere preso in considerazione, tanto a livello della dottrina economica, che delle prassi politico-economiche, nel prossimo capitolo.

Si tratterà di valutare l’esperimento di modello neoliberista totalitario, ispirato da una peculiare versione del neo liberismo, l’«ordoliberismo » tedesco, che è stato messo in campo e subito, in particolare dagli Stati membri più fragili, più deboli della compagine europea, cominciando come è noto dalla Grecia per giungere ahimè alla situazione della stessa Italia.

Qui possiamo solo anticipare la seguente considerazione: il finanzcapitalismo, la cosiddetta civiltà del denaro, da enorme costruzione artificiale dalle fondamenta d’argilla, da castello di carte pronto a precipitare in qualsiasi momento, è riuscita ad imporsi come una legge di natura, come un processo fatale irreversibile, grazie alla complicità delle istituzioni internazionali e degli Stati nazionali, mostrando nel caso dei Paesi europei la sua faccia più cinica, sadica, crudele, totalitaria.

Le vicende della gestione dell’emergenza sanitaria da Covid 19 di questi ultimi anni, ha ulteriormente inasprito il quadro della situazione, attaccando le libertà fondamentali della persona, che dovrebbero essere, in una democrazia, costituzionalmente garantite. Ma questo è il punto : è proprio sulle emergenze ( terroristiche, economiche, sanitarie) che si costruisce lo Stato ‘d’eccezione o duale ( formalmente democratico, sostanzialmente autoritario) in cui l’experimentum neoliberista può trovare il suo «brodo di coltura».

Nicola Boidi

1 Commento

  1. correggo solo i dati delle riserve frazionarie, stabilite dalle banche centrali nazionali e in alcuni stati anche lasciate alle decisioni degli istituti bancari (in UK ad esempio). In Italia l’obbligo di riserva frazionaria è 0,01, cioè un euro di deposito per 100 euro impiegati, mentre invece il dato reale medio è circa 1:3,il sistema bancario nel suo insieme, cioè, presta 3 volte i depositi.

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