L’idea del “paradiso in terra” nei “Manoscritti economico-filosofici” del 1844 di Karl Marx

Nel saggio del 1844 Critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, Marx sosteneva da un lato che la religione è il paradiso immaginario della povera gente (“l’oppio del popolo”), e dall’altro che ha senso rinunciare a tali visioni di vita beata non già per essere privati persino dell’illusione, ma per cogliere “il fiore vivo”: in sostanza per realizzare nell’al di qua il paradiso immaginario che era stato proiettato nell’al di là.[1]

Il paradiso da fare

Su ciò abbiamo anche un’osservazione pungente, ma non per questo meno perspicua, del fondatore della psicologia analitica, Carl Gustav Jung, nel suo ultimo grande saggio, del 1959, Introduzione alla psicologia analitica, in cui scriveva: “Il mondo comunista, bisogna riconoscerlo, ha un grande mito (che noi chiamiamo un’illusione, nella vana speranza che il nostro superiore giudizio valga a farlo scomparire). Si tratta dell’antichissimo sogno archetipico di una Età dell’Oro (o Paradiso), dove ci sarà abbondanza di tutto per tutti e grandi giuste e sagge leggi a regolare una specie di giardino d’infanzia del genere umano. Questo potente archetipo nella sua versione infantile si è impadronito di loro [comunisti], ma esso non scomparirà mai dal mondo alla semplice vista della nostra superiore civiltà. Anzi, noi ce lo trasciniamo dietro fin dalla fanciullezza poiché la civiltà occidentale è prigioniera della stessa mitologia. Inconsciamente noi nutriamo i medesimi pregiudizi, le medesime speranze, le medesime attese. Anche noi crediamo in una civiltà del benessere, nella pace universale, nell’eguaglianza degli uomini, nei suoi eterni diritti umani, nella giustizia, nella verità e (ma non diciamolo troppo ad alta voce) nel Regno di Dio sulla terra.”[2]

Jung sottolineava subito l’illusorietà di tale visione di un mondo senza grandi contraddizioni, ma questo, nel presente contesto, non ci interessa. Piuttosto ci preme rilevare il fatto che il tema dello svelamento dello Spirito Assoluto in forma di vita beata “da fare” ha un’indubitabile aura idealistica, che secolarizza il tema di Hegel del divino nella nostra mente (che per lui era da vedere come diluito, e sempre meglio espresso, anche nello spazio e nel tempo, nella contingenza del mondo, nella storia dell’umanità in cammino, oltre che nelle religioni e, nel suo verace essere, nello svolgimento tra loro correlato delle filosofie, della filosofia)[3]. Ciò fa poi balzare in primo piano la grande questione del legame di affinità e continuità, o di estraneità e discontinuità, tra idealismo e materialismo storico, tra la “scuola” di Hegel e quella di Marx.

Marx: filosofo idealista o scienziato sociale?

Diversi studiosi – non tra i minori – hanno accentuato molto la rottura d’impostazione tra Marx e Hegel, talora enfatizzando i legami tra Marx e Rousseau[4]. Penso, in particolare, a Galvano della Volpe, che ha cercato di riportare Marx alla linea illuministica compresa tra Rousseau e Hume, pur senza negare affatto i residui idealistici delle Opere filosofiche giovanili di Marx, che egli ha curato in un modo che se non erro in Italia resta il migliore.

Su una linea ugualmente anti-idealistica, ma più impegnata a sostenere la scientificità economica e sociale del Capitale di Marx[5], sino a fare del suo parziale idealismo di sinistra, reale o parzale, dei primi scritti, sino al 1844, un mero residuo, o una sorta di errore giovanile, c’è poi stato Louis Althusser e, in casa nostra, un grande studioso come Lucio Colletti. Vezzeggiava con tali posizioni anche l’ultimo Cesare Luporini, che pure per tre decenni aveva cercato di coniugare insieme esistenzialismo umanistico e marxismo. Per tutti costoro la dialettica hegeliana era fumisteria, e il problema era quello di verificare se la teoria economica, in specie sulle crisi economiche e sul legame tra esse e la rivoluzione proletaria, in specie nel Capitale di Marx, reggesse o non reggesse. Per anni Colletti ha pensato che reggesse (a dispetto della per lui sterile “dialettica” hegeliana, che in Marx si sarebbe infilata qua e là). Ha interpretato così pure il Lenin dei due rilevanti suoi libri filosofici; ma poi ha concluso per la scientificità mancata di Marx e del marxismo “vero”; e, di “realismo” in “realismo”, è diventato berlusconiano, e come tale è alla fine morto, sicché a tutt’oggi la destra si raduna in Parlamento in un’aula a lui dedicata.[6]

Altri studiosi, per contro, hanno accentuato la continuità tra il giovane Marx (idealista di sinistra o comunque molto influenzato dall’idealismo hegeliano) e il Marx ulteriore, economista. Ha iniziato il giovane Giovanni Gentile, già idealista e antimaterialista, alla fine del XIX secolo, con un bellissimo libro sulla filosofia di Marx apprezzato anche da Lenin (libro in cui tra l’altro portava per la prima volta in Italia le fondamentali Tesi su Feuerbach del 1845 dello stesso Marx). Ha seguitato un grande marxista riformista, che ha scritto opere fondamentali su Marx e Engels, oltre che sulla filosofia antica: Rodolfo Mondolfo (cui Gentile, quando sotto il fascismo divenne il promotore e direttore dell’Enciclopedia Italiana, la mitica Treccani, affidò le voci sul marxismo); e da Mondolfo viene, tra l’altro, pure il termine “filosofia della prassi”, caro a Gramsci per indicare il marxismo. Hanno seguitato, su tale linea “hegelo-marxista”, leader e teorici del comunismo come Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti (che secondo me era un hegeliano di sinistra più ancora che un marxista). E su quella scia sono poi stati notevoli gli studi di Nicola Badaloni. Lo stesso grande socialista di sinistra e teorico importante del marxismo europeo, Lelio Basso, quantunque niente affatto gramsciano, era un hegelo-marxista. Ma, su un piano internazionale, i grandi esponenti di questo genere di marxismo sono stati Ernst Bloch, Karl Korsch e Gyorgy Lukàcs[7]. Per tutti costoro il giovane Marx, influenzato da Hegel, è la chiave di volta pure per capire Il capitale di Marx, grande opera economico-filosofica (per loro), che ne sarebbe il culmine (all’opposto dell’altro gruppo, che svaluta il Marx giovane d’ascendenza idealistico hegeliana in nome della pretesa “scienza”).

Rispetto alla linea della discontinuità tra Hegel e Marx – ma pure tra Rousseau e Marx, ossia tra idealismo filosofico e materialismo storico, economico, “scientifico” – ho sempre trovato quella della continuità scientificamente più persuasiva. Ma siccome una certa continuità nella novità era ammessa pure dal della Volpe, il contrasto negli anni Sessanta non mi era parso drammatico. Oggi sono più “continuista” che mai, ritenendo che Marx sia stato contemporaneamente, e a livelli sempre molto alti, filosofo, politico ed economista (tre cose in uno).[8]

La continuità era pure con Rousseau, che con buona pace di una nota studiosa cattolica del pensiero politico, era il punto di riferimento centrale dei giacobini[9], e di lì del comunismo nascente di Babeuf e della “congiura degli eguali” del maggio 1796, repressa nel sangue dal Direttorio e da Napoleone[10]. Gli echi del Discorso sulle origini e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini (1754) di Rousseau in Marx sono forti. E il roussoismo di estrema sinistra, già dicentesi “comunista”, proprio della congiura “degli uguali” dei giacobini di sinistra, sedicentisi già “comunisti”, di Babeuf (emersi e repressi a Parigi nel 1796), arriva “per li rami” sino a lui. Marx ha pure condiviso l’idea rousseauiana della natura in sé buona dell’uomo, anche se l’aggettivo “buono” l’avrebbe certo rifiutato con un’inquietante risata di scherno per il “moralismo astratto” che sottende (ma dire che saremmo antropologicamente permeati da tutta l’umanità, e quasi comunisti per la natura nel nostro inerire, nel profondo, all’intersoggettività sempre in cammino, come Marx faceva intorno al 1844, non è tanto diverso dal dire che siamo buoni nativamente; e infatti in Marx e Engels fa persino capolino sino alla fine, rivestito di antropologia culturale aggiornata, il mito rousseauiano del buon selvaggio[11]).

Anche Hegel aveva molto a che fare con Rousseau e la Rivoluzione francese, ma solo negli anni della sua lunga formazione. Da giovane (era nato nel 1770) era stato molto influenzato da Rousseau e aveva piantato alberi della libertà inneggiando alla Rivoluzione francese (che persino da vecchio festeggiava ogni anno), e nella prima maturità come filosofo ammirava moltissimo Napoleone Bonaparte, notoriamente sino a vedere in lui, dopo la battaglia di Jena del 14 ottobre 1806, lo “spirito del mondo” che passava a cavallo alla testa della sua Armata, sotto la finestrella della stanza in cui lui era sfollato[12].

Hegel filosofo “religioso”, prima e oltre che politico

Ma Hegel aveva due dati differenziali forti rispetto a Marx. Il primo è che nel suo profondo idealismo era uno spirito religioso. Da giovane era stato in un rapporto di incontro-scontro con Cristo: cosa che nessuno dei contemporanei e della sinistra hegeliana formatasi contro la destra hegeliana dopo la sua morte (1831), avrebbe potuto sospettare, ma che balza fuori in modo palmare vuoi dalle successive analisi stupende di Dilthey sul giovane Hegel, vuoi dalla ricorrente e quasi stupita annotazione di Löwith sul fatto che i giovani hegeliani, Feuerbach e Marx compresi, senza saperlo dicevano cose che il giovane Hegel aveva già detto o fortemente anticipato, e vuoi dagli scritti teologici giovanili postumi dello stesso Hegel, che per chi sia appassionato al problema della religiosità in cammino sono, insieme alle lezioni di filosofia della religione tenute sino alla fine dal grande filosofo, una miniera d’oro.[13] Hegel aveva la tempra di un grande riformatore religioso, nella sua maturità filosofica convintosi – nel suo per lui irrinunciabile realismo – che il cristianesimo non fosse da rifiutare, ma appunto da riformare nuovamente, in modo non meno profondo di quanto per lui avesse fatto il grande Lutero dal 1517 in poi. Si doveva proseguire la grande rivoluzione protestante, per cui Dio non vive nei dogmi di una chiesa, ma nella coscienza profonda del singolo credente: sino a identificare ormai Dio con la stessa coscienza umana profonda, infinita ed eterna, contratta in ciascun essere umano e per così dire diluita, di lì, nella storia dell’umanità in cammino: coscienza per lui implicita e imperfetta nel divenire inconscio della natura non umana, ma compiuta nel divenire storico dell’umanità[14]. Hegel riteneva che la radice, mentale dell’essere umano sia un tesoro d’infinità, eternità e fratellanza umana, identificato con la coscienza dell’infinità, o Logos, immanente in noi. Si tratterebbe dello “spirito assoluto”, che si autoconosce infinito come arte religione e filosofia, in nuce sempre vivo ed operante[15]: un tesoro cui però si potrebbe accedere solo al culmine di una lunga trasformazione di sé, collettiva e personale; in certo modo esso in noi c’è da sempre, ma si rende cosciente di sé, “Spirito”, solo dopo una lunga avventura umana (è insomma anteriore ontologicamente, ossia come “essere” in sé e per sé, ma è posteriore nella nostra conoscenza, come una specie di infinità che dobbiamo ritrovare come umanità e come individui in cammino, nella misura in cui “ci arriviamo”, che va da un barlume dell’Assoluto, presente anche nell’uomo peggiore tra noi o della preistoria, al suo splendore).

Razionalità del reale e conservatorismo politico-sociale in Hegel

La cosa è assai bella, ma non esente da complicazioni, o aporie. Infatti ogni visione per cui la mente infinita pervada la realtà (cioè idealistica) tende al panteismo (essendo la mente la matrice di tutto, il tutto è divino, come già per Spinoza). Anche Vito Mancuso ha apprezzato molto Hegel come teologo, o filosofo religioso, in un suo libro, ma rimproverandogli di negare il diavolo, nel senso del “male” in sé e per sé[16]: male che se in noi e nella vita vi sia – come radicale – la mente infinita, non si capisce nemmeno come potrebbe venir fuori, se non come parziale oscuramento del bene, in certo modo da questo voluto, o comunque determinato. Perciò Hegel nel 1821, nella nota Prefazione a Lineamenti della filosofia del diritto (1821), scandalizzò molti dicendo che tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale (panlogismo, “il tutto è razionale”). La cosa fu letta come un’incredibile forma di giustificazionismo storico, per cui tutto quel che accade è frutto della Ragione infinita, o Logos immanente in noi, che tutto domina. Invano Hegel cercò poi di spiegare che razionalità e realtà non sono da identificare meccanicamente, ma che aveva voluto dire che il vero reale è quello che tende all’ideale (al “razionale”) e viceversa[17]. Anche Marx lo accusava di ciò ancora nel 1843[18]. La cosa – come la capisco io oggi – sta a significare che c’è un piano in cui la realtà empirica trova – in atto, in modo corrispettivo – il suo modello ideale, nella mente “autocosciente”: piano “razionale”, ideale, modellistico, cui la stessa realtà empirica deve tendere, ed anzi sempre tende, in ciascuno a suo modo e tutti insieme, come se fosse ferro attratto da una calamita. Sicché nel Sé, o Logos – o mente infinita ed eterna “nostra” alla scaturigine – c’è l’ideale cui l’umanità anela; c’è davvero l’eterno, il Cristo interiore che tutti siamo alla radice, uno e tutto (tutti), e la fratellanza d’essere, cui aspiriamo. Per quanto degradati (“alienati”, oscurati nella naturale nostra humanitas), alla radice saremmo così. Tutto ciò sarebbe vero pure nelle istituzioni collettive in divenire, cioè nello Stato: come un “tendere verso” quell’ideale; e per ciò “il divino”, nostra radice, ci sarebbe pure nel mondo “di fuori”, in mezzo a noi, nel nostro e suo perenne farsi nella “Storia”. Siccome non c’è nulla di più comune a tutti i cittadini dello Stato, essi debbono (dovrebbero) considerarlo – secondo Hegel – come una specie di “dio in terra”: il corpo collettivo del “bene comune”, ossia l’“eticità” incarnata e in atto, che è vincolante per tutti (“il fine”, e “non solo” un mezzo, per ciascuno). Ognuno di noi dovrebbe sentirsi un uomo di Stato, ma anche un uomo dello Stato. E qui si sente pure il prussiano (oltre a tutto del 1821, all’acme della Restaurazione, iniziata nel 1815), un filosofo prussiano che però non rifletteva affatto un piccolo mondo reazionario, ma il contesto europeo, a partire dalla Rivoluzione francese e dal bonapartismo, cui il filosofo si era abbeverato (come Marx spiegava a chiarissime lettere proprio nei saggi pubblicati sugli “Annali franco-tedeschi” del 1844 su cui ci si è soffermati, in cui Hegel riflette la Rivoluzione francese, scontate le differenze inessenziali).

Dialettica e spirito della Negazione in Marx

Mentre per Hegel la lezione da trarre dagli accadimenti grandiosi e tragici svoltisi in Francia, in Europa e in Germania tra il 1789 e il 1815 era però, nel 1821, il mix di cristianesimo immanentizzato[19] e di civismo prussiano di cui si è detto, Marx (nato nel 1818 e laureatosi in Filosofia nel 1841), pensava che le conseguenze da trarre da quel contesto storico, e pure dall’hegelismo stesso, fossero ateistiche e ultrarivoluzionarie. Intanto, al pari di tutta la sinistra hegeliana, non credeva che immanente in noi ci fosse lo “spirito assoluto”. Per Feuerbach la nozione di spirito sarebbe stata da sostituire con quella di specie umana (o “genere”) vivente in noi, e la comunione umana sarebbe stata “da fare” (umanità “naturale” da ritrovare)[20]. Per gli hegeliani di sinistra, o ex tali, la dialettica (tesi antitesi e sintesi) restava valida, ma senza il substrato di infinità, eternità e comunione interiore, che era stato decisivo per Hegel. Mancando a monte e a valle ciò, ossia il dio contratto in ciascuno e in tutti noi – ossia l’infinità già in fieri, il paradiso nella Ragione o Logos, il grande sintetizzatore che opera all’interno dei perenni rapporti storici e ideali tra tesi antitesi e sintesi – l’antitesi diventava mero annullamento (Nulla) della realtà data (Essere, inteso ormai come “datità”) in vista del “futuro” (Divenire). Il ritmo della realtà sarebbe stato quello già indicato da Hegel, insomma, ma senza “Logos” in ogni passaggio. In tal caso la chiave di volta diventava l’antitesi, e “solo” l’antitesi (senza infinità già a priori in noi).

Marx era assolutamente convinto – in ciò come i più estremisti della sinistra hegeliana o post-hegeliana – che il mondo scaturito dalla Rivoluzione francese fosse da rifare; che i diritti dell’uomo del 1789 fossero “borghesi”, privatistici e ingannevoli, volti a nobilitare vanamente solo un’uguaglianza tra disuguali, e che solo la fine del capitalismo – contro quel che diceva allora Bruno Bauer – avrebbe potuto portare ad una vera uguaglianza, persino tra ebrei e non ebrei (come proprio negli Annali Franco-Tedeschi del 1844 in cui si trova l’apostrofe sulla religione come oppio dei popoli, ma in altro saggio, sosteneva)[21].

L’universalmente umano e il comunismo antropologico nel Marx del 1844

Tuttavia Marx manteneva, al pari di Feuerbach, due punti chiave dell’hegelismo: il primato dell’universalmente umano (in Hegel umano-divino) nella vita delle persone e nella storia, e il conseguente convincimento che un mondo a tutti comune fosse da realizzare. Su questo punto c’era anzi una torsione più estrema (o “estremista” in termini di universalismo filosofico) che in Hegel stesso. Nel vecchio filosofo, infatti, l’umano-divino, infinito eterno e solidale, è una sorta di stella polare che torna sempre a emergere in noi e che guida i naviganti, in un viaggio comunque molto “procelloso”; per Marx la vita universale, a tutti comune e “beata”, è un’istanza teleologica, un télos, una finalità di liberazione, da realizzare “in concreto” perché altrimenti tutto per noi sarebbe – come già in passato – perduto. Per lui non c’era “spirito assoluto”, “beato” alla radice. Bisognava in certo modo “farlo”. Ci sarebbe stato (e ahinoi c’è più che mai) un mondaccio da superare. Ma questo è possibile solo negandolo radicalmente (negazione, antitesi), in vista della comunione umana, da porre come ideale da realizzare. Ma da parte di chi? Ed è poi possibile?

A questo punto si è in grado di comprendere a fondo i testi – specie dei Manoscritti economico-filosofici – che volevo porre in luce, tramite questa ahimè troppo lunga premessa.

Il primo punto chiave è antropologico, frutto della sostituzione dello Spirito Assoluto “hegeliano” con la nozione feuerbachiana di specie o “genere” umano (che pure di lì a poco, nelle Tesi su Feuerbach del 1845, verrà “sciolta nella storia”)[22]. Nei Manoscritti è ancora centrale la nozione dell’uomo come specie, nel senso di uomo vissuto – anche come singolo – dalla specie. Questa nozione di un uomo vissuto dalla specie dall’interno, tra l’altro, è anche tipicamente junghiana; ma lo è pure quella hegeliana dell’infinità implicita da sempre nella nostra finitezza umana[23].

Scrive dunque Marx, usando il termine “genere” invece di specie (genere umano), ed enfatizzando al pari di Hegel, rispetto a tutte le specie, l’universalismo dell’ànthropos, che è “sempre oltre” ogni situazione vitale in cui stia, oltre ad essere sempre, anche a nostro dispetto, tutti noi: “L’uomo è un ente generico non solo in quanto egli praticamente e teoricamente fa suo oggetto il genere, sia il proprio che quello degli altri enti, ma anche – e questo è solo un altro modo di esprimere la stessa cosa – in quanto egli si comporta con sé stesso come col genere presente e vivente; in quanto si comporta con se stesso come con un ente universale e però libero. (…) L’universalità dell’uomo si manifesta praticamente proprio nell’universalità per cui l’intera natura è fatta dal suo corpo inorganico. (…) La natura è il corpo inorganico dell’uomo: cioè la natura che non è essa stessa corpo umano.”[24]

Questa visione della natura come corpo inorganico per l’uomo avrebbe fatto inorridire Goethe come Schelling, ma non Hegel, che in gioventù aveva visto persino le Alpi svizzere come mero mucchio di ghiaccio[25], né tanto meno l’ebraismo, degli avi di Marx, che avevano sempre opposto, dualisticamente, la materia come il non-Dio e lo spirito di Dio (trascendente). Tuttavia Marx era pure un lettore entusiasta del panteista Spinoza[26], per cui temperava quell’idea della materia morta, che ben presto contrapponendosi a Feuerbach avrebbe definito addirittura “sordidamente giudaica”, con la nozione della soggettività della materia (nelle Tesi su Feuerbach del 1845). E infatti, un po’ spinozianamente, cioè un tantino più panteisticamente, già lì proseguiva: “Che l’uomo vive della natura significa: che la natura è il suo corpo, rispetto a cui egli [l’uomo] deve rimanere in continuo progresso per non morire. Che la vita fisica e spirituale dell’uomo è congiunta con la natura non ha altro significato se non che la natura si congiunge con sé stessa, ché l’uomo è una parte della natura. (…) L’animale fa immediatamente uno con la sua attività vitale, non si distingue da essa, è essa.”

Ma l’uomo è l’essere che pensa-fa, per sua natura, sempre al di là di sé stesso; è aperto per natura all’universale (sarebbe così, se la divisione in classi non lo alienasse, ossia non lo snaturasse): è, infatti, il solo animale che lavora, crea e produce: “L’attività vitale consapevole distingue l’uomo direttamente dall’attività vitale animale. Proprio solo per questo egli è un ente generico.” Appartiene a un genere che pensa e fa, nella natura, senza essere mai risolto in una vita particolare, come l’animale: “Ossia è un ente consapevole, cioè ha per oggetto la sua propria vita (…), fa della sua attività vitale, della sua essenza, solo un mezzo per la sua esistenza.” Risulta “ente che si rapporta al genere come al suo proprio essere, ossia si rapporta a sé come un ente generico.”[27]

Si potrebbe anche pensare che Marx, da tale punto di vista, sia addirittura un “filosofo della tecnica”, teorico dell’homo faber che domina la natura con il lavoro, il quale uomo arriva al capitalismo ed oltre, com’è pure stato sostenuto.[28] C’è del vero, ma Marx traeva da questa creatività sovrana dell’uomo e da questo universalismo che lo fa essere altro dal “qui e ora” diversamente da ogni altro vivente, l’idea del suo essere – se così possiamo dire, semplificando – comunista per natura. Diceva addirittura che l’uomo, per questa sua natura in cui la specie vive il singolo e che interiorizza il tutto, non solo è un animale sociale, ma addirittura più sociale delle api (se la divisione in classi non l’alienasse). Sicché in conclusione si può dire, su questo punto, quanto segue: “L’attività e lo spirito come sono sociali per il loro contenuto, lo sono anche per il loro modo d’origine: attività sociale e spirito sociale. L’umanità della natura c’è soltanto per l’uomo sociale: giacché solo qui la natura esiste per l’uomo come legame con l’uomo, come esserci dell’uomo per l’altro e dell’altro per lui; e solo in quanto elemento vitale della realtà umana essa è fondamento della umana esistenza. Solo così l’esistenza naturale dell’uomo è per lui la sua esistenza umana, e la natura per lui è umanizzata. Dunque la società è la compiuta consustanziazione dell’uomo con la natura, la vera resurrezione della natura, il realizzato naturalismo dell’uomo e il realizzato umanismo della natura.”[29]

Creatività umana e comunismo nel Marx del 1844

Ciò ci dovrebbe disporre al comunismo, nel senso letterale per cui siamo uno per tutti e tutti per uno, e tutto è di tutti, “naturalmente”. Ma ciò implicherebbe una società senza divisione cristallizzata del lavoro (dei lavori), in cui tutti si scambiano le parti, come nelle mitiche origini per Rousseau o nel tribalismo dei pellirossa per l’amico antropologo Morgan. E per quanto possa essere strano a prima vista così dovrebbe essere il comunismo.

Non sfugga la profonda ispirazione anarchica di tipo collettivista, pur poi col ponte del potere dei senza potere, cioè del proletariato “in prima persona”, che però in Marx era solo un preludio, una sorta di antefatto dell’anarchia comunista, la quale sarebbe stata ben intravisibile sin dall’inizio. Infatti nella straordinaria opera che segna per tutti il superamento di ogni hegelismo (si verum est quod nemo dubitat) – a mia conoscenza l’unico grande libro di seria e profonda filosofia scritto in una forma spesso umoristica: L’ideologia tedesca (1846, ma 1932) – Marx e Engels dicevano: “ … appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere; laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico.”[30] Si noti che gli autori parlavano di “società” che “regola” (si autoregola), e non di Stato.

A questo punto del discorso ciascuno dirà che questa è palesemente soltanto un’utopia, Né più né meno del comunismo di Thomas More o di Tommaso Campanella (magari da benedire come tale nel nome di Ernst Bloch[31], molto citato e poco letto). Ma invece Marx era assolutamente convinto che tutto il contesto storico, grazie all’emergenza di una forza produttiva primaria privata di ogni umanità e che potrebbe liberarsi solo abolendo ogni forma di dipendenza e anche di scambio tra merci (o commercio) – il proletariato – tutto ciò sarebbe stato non solo possibile, ma persino inevitabile. Se così fosse stato o fosse potremmo anche non rimpiangere – o quantomeno voler tornare a verificare – l’infinità posta da Hegel come punto alfa e omega nella mente umana, che nella storia cerca poi sé stessa; ma è proprio stato, o è, così?

di Franco Livorsi

  1. K. MARX, Critica della Filosofia del diritto di Hegel. Introduzione (1844), in: AA. VV., “Annali franco-tedeschi”, a cura di G. M. Bravo, Edizioni del Gallo, Milano, 1965, pp. 125-142. Ma si veda qui, il 28 dicembre 2019, il mio articolo Karl Marx e la religione come “oppio dei popoli”.
  2. C. G. JUNG, Introduzione all’inconscio (1959), in: “L’uomo e i suoi simboli”, a cura di C. G. Jung (1964), Casini, Firenze, 1967, pp. 18-103, ma v. p. 85.
  3. G. F. W. HEGEL, Lezioni sulla filosofia della religione, a cura di G. Lasson nel 1925 e in it. a cura di E. Oberti e G. Borruso, Laterza, Roma-Bari, 1983, tre voll. (da confrontare con Lezioni di filosofia della religione, a cura di R. Garaventa e S, Achille, Guida, Napoli, 2001, due voll.). E, dello stesso Hegel, Lezioni di filosofia della storia (1822/1831, ma postumo 1834), a cura di G. Lasson e in it. a cura di G. Calogero e C. Fatta, La Nuova Italia, 1941/1955, tre voll., da confrontare con: Filosofia della storia universale (1822/1823), a cura di S. Dellavalle, Einaudi, Torino, 2001; Lezioni sulla storia della filosofia (1825-1886, ma 1986/1996 a cura di P. Garniron e W. Jaeschke, e in it. a cura di R. Bordoli, Laterza, 2009.
  4. Per la critica della civiltà e della proprietà privata di Rousseau, si veda: J.-J. ROUSSEAU, Discorso sulle scienze e le arti (1750) e Discorso sulle origini e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini (1754), in: “Scritti politici”, a cura di P. Alatri, UTET, Torino, 1969, pp. 207-370, ma ivi si veda pure: Contratto sociale (1762), pp. 719-843.
  5. K. MARX, Il capitale (I, 1867), a cura di D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma, 1967. I successivi due volumi, o tre se consideriamo il testo sulle teorie del plusvalore, furono pubblicati dopo la morte di Marx (1883) – due a cura di F. Engels e l’ultimo, se tale può essere considerato il testo sulle teorie del plusvalore, a cura di Karl Kautsky – sino al 1895.
  6. G. della VOLPE, Rousseau e Marx, Edizioni Rinascita, Roma, 1956; Umanesimo positivo e emancipazione marxista, SugarCo, Milano, 1964: K. MARX, “Opere filosofiche giovanili”. 1. Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (1841/1843, ma 1927); 2. Manoscritti economico-filosofici del 1844 (1844, ma 1932), Editori Riuniti, Roma, 1963.

    L. COLLETTI, Il marxismo e Hegel, Laterza, Roma-Bari, 1969. Ma lo stesso ha curato pure: LENIN, Quaderni filosofici, Feltrinelli, 1958. Le opere filosofiche di Lenin cui ci si riferisce sono: Materialismo e empiriocriticismo (1909), Edizioni Rinascita, Roma, 1954; Quaderni filosofici, a cura di L. Colletti, Feltrinelli, 1958 (in cui il grande rivoluzionario russo, negli ultimi anni della sua vita, leggeva e commentava la Scienza della logica di Hegel, del 1812, “per Colletti” confermando lo scientismo del libro cit. del 1909).

    L. ALTHUSSER, Per Marx (1965), Editori Riuniti, Roma, 1972; L. ALTHUSSER – E. BALIBAR, Leggere il Capitale (1965), Feltrinelli, Milano, 1972.

    C. LUPORINI, Dialettica e materialismo, Editori Riuniti, 1978.

  7. G. GENTILE, La filosofia di Marx, Spoeri, Pisa, 1899. Ma si veda, dello stesso: “Opere filosofiche”, a cura di E. Garin, Garzanti, 1991, che alle pp. 95-231 ripropone anche tale opera.

    R. MONDOLFO, Sulle orme di Marx, Cappelli, Bologna, 1919.

    G. LUKÀCS, Storia e coscienza di classe (1923), Sugar, Milano, 1967.

    K. KORSCH, Karl Marx (1938), Laterza, 1971; Marxismo e filosofia (1923), Pgreco, Milano, 2012.

    A, GRAMSCI, Quaderni del carcere, edizione dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, Einaudi, 1975, quattro volumi. Per i rapporti con l’idealismo si vedano: N. MATTEUCCI, Antonio Gramsci e la filosofia della prassi, Giuffré, Milano, 1951 e 1977 (accentua il legame con l’idealismo di Croce); A. DEL NOCE, Il suicidio della rivoluzione, Rusconi, Milano, 1972 (accentua il legame con Gentile); N. BADALONI, Il marxismo di Gramsci. Dal mito alla ricomposizione politica, Einaudi, 1975 (il più equilibrato e completo). Ma di N. BADALONI si veda qui soprattutto: Il marxismo come storicismo, Feltrinelli, 1962.

    P. TOGLIATTI, “Opere”, I (1917-1926), Introduzione e cura di E. Ragionieri, Editori Riuniti, 1967. L’ampio saggio introduttiva è illuminante anche sui legami del leader del comunismo con l’hegelismo.

    L. BASSO, Socialismo e rivoluzione, Feltrinelli, 1980. Risulta sempre forte il legame teorico con Lukàcs. Come emerge bene in: R. LUXEMBURG, “Scritti politici”, a cura dello stesso, Editori Riuniti, 1967.

  8. Tutti i testi di cui sto parlando sono stati da me commentati nella mia tesi di laurea, inedita: Il problema dell’emancipazione nella filosofia politica di Marx, incentrata sul periodo 1841/1853, discussa avendo come relatore il compianto filosofo spiritualista e liberale Carlo Mazzantini, presso l’Università di Torino, l’11 luglio 1968. Richiamo pure alcuni altri miei scritti in proposito: L’idea della comunità senza classi e senza Stato nella storia del marxismo, in: G. Cavallari (a cura), “Comunità, individuo e globalizzazione. Idee politiche e mutamento dello Stato contemporaneo”, Carocci, Roma, 2001, pp. 95-124; Coscienza e politica nella storia. Le motivazioni dell’azione collettiva nel pensiero politico contemporaneo, Giappichelli, Torino, 2003, pp. 51/274 (è la parte su idealismo e marxismo); Sentieri di rivoluzione. Politica e psicologia dei movimenti rivoluzionari dal XIX al XXI secolo, Moretti & Vitali, 2006, pp. 11-176. Ma conclusivamente si vedano i capitoli Coscienza e Stato nel pensiero di Hegel e Karl Marx: il filosofo, il politico e l’economista, in: L. M. BASSANI – S. B. GALLI – F. LIVORSI, Da Platone a Rawls, Giappichelli, 2012, pp. 259-302.
  9. A. M. BATTISTA, Il Rousseau dei giacobini, Università di Urbino, 1988. Si confronti con: F. FURET – M. OZOUF, Dizionario critico della Rivoluzione francese, Bompiani, Milano, 1988 e 1992, due volumi, in cui in saggi specifici su Rousseau e la Rivoluzione francese si dimostra quanto fosse stato forte il legame tra il pensatore ginevrino e i protagonisti, specie ginevrini, dell’evento.
  10. F. BUONARROTI, Cospirazione per l’uguaglianza detta di Babeuf (1928), a cura di G. Manacorda, Einaudi, Torino, 1946. Si confronti con: M. DOMMANGET, Babeuf e la Congiura degli Uguali, Feltrinelli, Milano, 1976.
  11. Marx e Engels non solo subirono l’influenza forte dei cit. Discorsi di Rousseau del 1750 e soprattutto 1754, ma furono colpiti dalle ricerche antropologiche presso gli indiani, soprattutto irochesi, del loro amico antropologo Lewis Henry MORGAN, per cui è da vedere soprattutto: La società antica. Le linee del progresso umano dallo stato selvaggio alla civiltà (1877), Pgreco, Milano, 2013. Queste ricerche dimostravano sia il carattere necessariamente da superare delle culture arcaiche (come credeva lo storicismo di quel tempo, oggi respinto dagli antropologi culturali), ma anche quanto fossero comunitarie e quasi comuniste, e persino sessualmente molto libere, le abitudini dei “selvaggi”. Ciò indusse F. ENGELS a scrivere: L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato. In rapporto alle indagini di Lewis H. Morgan (1884), a cura di F. Codino, Editori Riuniti, 1986.
  12. K. ROSENKRANZ, Vita di Hegel, cit., pp. 245-247. Su tutti questi temi è assolutamente illuminante: J. HYPPOLITE, Genesi e struttura della Fenomenologia dello spirito di Hegel (1946), con Introduzione di V. Cicero, Bompiani, Milano, 2005.
  13. W, DILTHEY, Storia della giovinezza di Hegel, cit.; G. W. F.. HEGEL, Scritti teologici giovanili, cit.; Lezioni di filosofia della religione, cit. : testi da confrontare con il classico, straordinario e, oltre a tutto, esemplarmente chiaro: K. LŐWITH, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX (1949), Einaudi, 1949 e 1994.
  14. L’op. cit. di Hyppolite lo spiega e dimostra ampiamente e in dettaglio.
  15. G. W. F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1830), a cura di B. Croce, Laterza, 1907.
  16. V. MANCUSO, Hegel teologo e l’imperdonabile assenza del principe di questo mondo, Piemme, Casale Monferrato, 1996.
  17. G. W. F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto (1821), a cura di G. Marini, Laterza, 1987, p. 14. La precisazione compare al par. 48 della cit. Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio di Hegel del 1830.
  18. K. MARX, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, cit., in più luoghi.
  19. “Immanentizzato”, nel senso di essere divino identificato con la prima radice, mentale, dell’essere umano.
  20. Qui il riferimento fondamentale va a: L. FEUERBACH, La filosofia dell’avvenire (1843), a cura di N. Bobbio, Einaudi, 1971.
  21. Nel 1843 Bruno BAUER pubblicò in Germania un saggio intitolato La questione ebraica. Bauer, che intorno al 1828 era stato allievo di Hegel, aveva una tendenza, in politica, molto conservatrice, con tratti antisemiti come emerse ancor più nettamente in seguito. La sua critica del cristianesimo colpiva tutta la tradizione ebraico-cristiana. Diceva che erano stati ed erano gli stessi ebrei a incunearsi ovunque negli interstizi del mondo borghese, mentre all’ombra dello Stato di diritto basato sui diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, in cui la legge è uguale per tutti, avrebbero potuto emanciparsi benissimo, purché rinunciassero alla loro volontà di essere diversi dai cittadini d’altra fede, ormai giuridicamente uguali. Marx lo contestava, nel saggio La questione ebraica degli Annali franco-tedeschi del 1844 (a cura di G. M. Bravo, Edizioni del gallo, Milano, 1965, pp. 262-301), sostenendo che i diritti del 1789 erano libertà apparente, uguaglianza tra economicamente disuguali, ma sostenendo anche – con affermazioni che oggi nessuno oserebbe fare, ma che “in quel tempo”, e tanto più in un discendente di rabbini come lui, nessuno stigmatizzava – il nesso tra spirito dell’ebraismo e spirito del capitalismo. Ma il punto chiave era l’idea che solo l’abolizione del capitalismo potrebbe dare a tutti, ebrei compresi, una vera uguaglianza e libertà.
  22. Il porre la specie umana, con i suoi bisogni, sensazioni e passioni come l’a priori dell’uomo da parte di Feuerbach, al posto dello spirito come Logos o Ragione ininita di Hegel, aveva entusiasmato Marx tra il 1841 e il 1843. Ma la scoperta del primato assoluto dell’essere economico sociale nella vita umana (materialismo storico) indusse Marx a ritenere che non ci fosse una natura umana relativamente perpetua, ma un essere umano sempre mutabile in base al contesto sociale. Uno dei punti principali delle Tesi su Feuerbach del 1845 era proprio questo. Il breve, ma fondamentale, scritto marxiano comparve postumo, in appendice a: F. ENGELS, Ludovico Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca (1886), Edizioni Rinascita, Roma, 1950, pp. 77-80.
  23. Per quest’aspetto, che vede l’uomo dei primordi (voce della specie), tramite gli archetipi, sempre vovo nel nostro inconscio, si veda soprattutto: C. G. JUNG, Il significato della psicoterapia per i tempi moderni (1933), in “Opere”, Bollati Boringhieri, 1985, vol. 10/1, pp. 201-224. Ma le affinità concettuali, specie tra Jung e Hegel sono messe in luce soprattutto da S. MONTEFOSCHI, in: C. G. Jung. Un pensiero in divenire, Garzanti, Milano, 1985 e L’essere vero. Il pensiero consapevole di sé quale unico esistente, G. Olivieri, Roma, 1996.
  24. K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, al cap. “Il lavoro alienato”, in: “Opere filosofiche giovanili”, cit., pp. 198-199.
  25. Goethe e Schelling erano sostanzialmente panteisti (anche se nella vecchiaia il secondo divenne pure teista), portati a vedere lo spirito infinito nella sensibilità (esteticamente), e non nella “Ragione” prima di tutto come Hegel. L’attitudine si vedeva sin dal 1796, quando le Alpi intorno a Berna gli apparvero appunto così, come risulta pure da; K. ROSENKRANZ, Vita di Hegel (1844), a cura di R, Bodei, Oscar Mondadori, Milano, 1974, p. 64.
  26. Su ciò si veda: K. MARX, Quaderno Spinoza (1841), a cura di B. Bongiovanni e con un saggio di A. Matheron, Bollati Boringhieri, 1987.
  27. K. MARX, Manoscritti economico-filosofici, al cap. “Il lavoro alienato”, cit., pp. 198-199.
  28. K. AXELOS, Marx pensatore della tecnica. Dall’alienazione dell’uomo alla conquista del mondo, Sugar, Milano, 1965.
  29. K. MARX, Manoscritti economico filosofici, al cap. “Proprietà privata e comunismo”, op. cit., P. 227.
  30. K. MARX – F. ENGELS , L’ideologia tedesca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti (1845/1846, ma 1932), Editori Riuniti, 1958, p. 29.
  31. T. MORO, Utopia (1516, ma 1551), a cura di L. Firpo, UTET, Torino, 1971.

    T. CAMPANELLA, La città del Sole (1602, ma in latino nel 1623), a cura di L. Firpo, Laterza, 1997.

    E. BLOCH, Lo spirito dell’utopia (1918), a cura di F. Coppellotti, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2009.

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