Il linguaggio della chiarezza

Fanno fatica i leader a trovare le parole per affrontare il Covid. Si sa, la politica contemporanea si nutre di comunicazione. Anzi, è comunicazione. Prima la televisione, poi i social hanno imposto nuovi canali, e nuovi codici, al rapporto tra governanti ed elettori. E nuovi linguaggi, che si specchiano narcisisticamente negli utenti. Ma la pandemia ha messo tutto sottosopra. Siamo tornati ai bollettini di guerra, all’economia peggio che nel ’29, a un’incertezza di futuro che calpesta aspettative che ormai davamo per scontate. E la comunicazione si è inceppata. Le leadership rampanti che, fino a pochi mesi fa, accumulavano consensi a go-go sfruttando le alchimie della connettività e le trappole delle fake news si sono ammutolite. Rendendo ancora più fragorosi gli schiamazzi delle movide e degli assembramenti in spiaggia, gli esorcismi per la nottata passata. Che, invece, non è passata.

Il monito del Presidente Mattarella rompe questo imbarazzato rumore. E riesce a farsi sentire non per l’autorevolezza della fonte, ma per la semplicità delle parole. Per la loro dura umanità. Ed impietosa verità. Segnano – simbolicamente – lo spartiacque di questa stagione. Annunciano, con la preveggenza di chi ha la massima responsabilità del paese, la fine della grande illusione. In cui ancora vorremmo crogiolarci approfittando del solleone di agosto. E il ritorno di un’emergenza che sembrava uscita di scena, ma soltanto dai video nazionali. Mai come in queste settimane il mondo è sotto attacco del virus. E nel mondo globalizzato non ci sono frontiere antivirali.

«Conservo i dati di contagi e vittime. Li ho riletti: quattro mesi fa sono morti in un solo giorno 800 cittadini. Non possiamo rimuovere». Non possiamo. Ma è proprio quello che oggi la maggioranza della popolazione vorrebbe. Lasciarsi rapidamente alle spalle l’incubo del lock-down, tornare alla normalità. Fisica, occupazionale. Mentale. Con il governo che cerca di mediare. Da un lato la preoccupazione crescente per i focolai che si moltiplicano. Ancora sotto controllo, ma più numerosi di quanto qualche settimana fa si prevedeva. Dall’altro la spinta ad abbassare tutte le restrizioni. Lo si è visto con il dietrofront sui treni ad Alta Velocità, le FS alla ricerca del via libera, il Ministro della Sanità che ha dovuto affrettarsi a ribadire che le norme restavano in vigore. Uno stop-and-go che diventerà – purtroppo – inevitabile appena arriverà a settembre la madre di tutte le battaglie anti-covid, la riapertura delle scuole. Non c’è chi non condivida l’appello del Capo dello Stato che «l’apertura regolare è l’obiettivo primario, una sfida da raccogliere e vincere». Ma per riuscirci, avremmo bisogno – fin da ora – di dirci che non ci sono formule – e bacchette – magiche. La complessità, varietà e precarietà dei contesti in cui in autunno si combatterà la battaglia per tornare a scuola imporrà, inesorabilmente, risposte molto differenziate. Sfruttando al meglio le opportunità, tamponando le criticità, valutando di volta in volta, e caso per caso, tempi e modalità degli interventi. Ancor più che una prova di efficienza, sarà una prova di maturità.

Per le fasce più adulte – superiori e università – si potrà fare ricorso al supporto prezioso del digitale. Sperando che, nel frattempo, sia cresciuta la preparazione dei docenti a utilizzare al meglio piattaforme e – soprattutto – metodologie che per le nuove generazioni fanno ormai parte della quotidianità. Per i più piccoli, invece, il problema può tornare ad essere drammatico. Se non si riuscisse a garantire la socializzazione tra i banchi, rischia di aprirsi un vuoto formativo che lascerebbe segni profondi. Tra le incognite di autunno, questa è la più insidiosa. Perché colpisce una generazione che non ha ancora voce politica. C’è da augurarsi che il Capo dello Stato, come ha cominciato a fare in questi giorni, diventi il portavoce morale dell’obbligo che funzioni la scuola dell’obbligo.

di Mauro Calise.

(“Il Mattino”, 3 agosto 2020).

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