L’insegnamento del Buddha – Rahula Walpola – Adelphi

Rifacendomi alla classica (ed apolitica!) scala di valutazione gastronomico-alberghiera, assegnerei un cinque stelle al libro di Walpola Rahula, L’insegnamento del Buddha (Adelphi), da consigliare senz’altro a chi voglia farsi un’idea di questa millenaria forma di spiritualità/religiosità. Il testo è apprezzabile per vari motivi. Innanzitutto la chiarezza/freschezza espositiva, raggiunta tramite un linguaggio semplice/essenziale, per quanto assai circostanziato nel far costante e tuttavia mai retorico riferimento ai sutra (discorsi/sermoni) buddhisti; la puntualità con cui l’autore tratta i temi principali affrontati ‒ in che consistono le Quattro nobili verità e l’Ottuplice sentiero, la dottrina del non-sé (Ansattā), la meditazione, il significato del nirvāṇa, l’insegnamento buddhista in rapporto alla modernità ‒; infine la pacatezza con cui l’autore illustra con spirito laico le varie tematiche in oggetto, non disgiunta da un entusiasmo contagioso che il lettore avverte profondo e autentico.

Basterebbe il primo capitolo di questo testo ‒ in cui viene analizzato l’atteggiamento mentale buddhista nei confronti del mondo, della vita e dell’uomo ‒ a farne una perla riflessiva d’intensa luminosità. Eccone i punti chiave. Tra i fondatori di religioni, il Buddha fu l’unico a non ritenersi inviato da questa o quella divinità od un suo profeta, bensì un semplice essere umano. Egli non fece mai riferimento ad alcun Dio, piuttosto: “ammonì i suoi discepoli a «essere un rifugio per se stessi» e a non cercare mai rifugio o aiuto in nessun altro. E ciò in quanto: “l’uomo ha il potere di liberarsi da tutti i legami per mezzo di uno sforzo personale e della sua intelligenza”. Quindi se, in un certo qual senso, è possibile considerare il Buddha una sorta di salvatore, tale sua funzione liberatoria è da ritenersi appena nel senso che l’Illuminato ha indicato ai suoi seguaci il sentiero che conduce all’illuminazione (nirvāṇa): un sentiero da percorrere individualmente/responsabilmente.

Nel buddhismo inoltre, a differenza che in tante altre religioni, non esistono peccati ‒ la causa di tutti i mali è sempre e soltanto l’ignoranza (avijjā) ‒, né vi sono dogmi in cui credere; anzi, tipica del buddhismo in ogni epoca è stata una grande tolleranza nei confronti delle credenze altrui. Cosa che, nei Paesi in cui esso ha preso piede, ha evitato qualunque tipo di persecuzione nei confronti di altre espressioni religiose. La non-violenza nei confronti di qualunque forma di vita ha altresì costantemente caratterizzato questa compassionevole tradizione culturale. Degno di nota, poi, il fatto che, puntualizza Rahula: “L’insegnamento del Buddha è qualificato come ehi-passika, perché invita a «venire a vedere», non venire a credere”. Gautama Siddhārtha infatti era un Maestro pragmatico, poco amante delle teorizzazioni e per nulla interessato alle questioni metafisiche, ma inteso solo a liberare gli uomini dalla sofferenza.

A mo’ d’esempio citerò una pagina, tratta dal Kālāma Sutra, dove l’antidogmatismo e il pensiero liberale dell’Illuminato emerge con gran chiarezza: “o Kālāma, non fatevi guidare da dicerie, tradizioni o dal sentito dire. Non fatevi guidare dall’autorità dei testi religiosi, né solo dalla logica o dall’inferenza, né dalla considerazione delle apparenze, né dal piacere della speculazione, né dalla verosimiglianza, né dall’idea: «Questo è il nostro maestro». Invece, o Kālāma, quando capite da soli che certe cose non sono salutari (akusala), ma cattive e sbagliate, allora abbandonatele … e quando capite da soli che certe cose sono salutari (kusala) e buone, allora accettatele e seguitele”.

Altro che pessimismo o nichilismo: atteggiamenti di cui è stato imputato sbrigativamente/scorrettamente il più noto Maestro indiano da parte di taluni anche autorevoli critici occidentali. Dice bene invece Rahula: “il buddhismo non è né pessimista né ottimista. Se occorre definirlo, esso è realista”. E la realtà, per l’Illuminato è dukkha: termine polisemico di non agevole traduzione, che forse in modo sin troppo semplicistico viene di solito tradotto col vocabolo italiano “dolore”. Tuttavia dukkha non significa (non si limita ad esprimere solo) sofferenza, ma pure impermanenza, insostanzialità, vacuità, imperfezione. Come a dire: nulla a questo mondo è stabile, autonomo, eterno, duraturo, soddisfacente appieno.

È questa la prima nobile verità proclamata dal Buddha. La seconda riguarda l’origine di tale dukkha, che possiamo cogliere in una catena di cause: “il desiderio, la volontà di essere, di esistere e ri-esistere, di diventare sempre di più, di accumulare sempre di più”. La terza afferma che vi è però modo di affrancarsi dal persistere di dukkha. Da ultimo la quarta indica la via per giungere alla cessazione di dukkha e al nirvāṇa: altro termine di non facile resa in italiano e che tradurre con estinzione o illuminazione può risultare fuorviante. Meglio forse rendere il significato profondo di detto termine al negativo (un po’ come fa la teologia apofatica con la parola Dio), asserendo ciò che esso non è, ossia non-attaccamento, non-condizionamento, non-desiderio e non-avversione. Ma, come nota Rahula, la negazione di stati negativi non è cosa negativa; ovverossia il nirvāṇa ‒ che il Buddha auspica tutti raggiungano ‒ “è libertà da ogni male”, vacuità che diviene pienezza, equilibrio e gioiosa quiete.

Francesco Roat

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