L’Italia s’è rotta.

L’Italia s’è rotta è il titolo di una vecchia commedia all’italiana diretta da Steno nell’ormai lontano 1976. Il film vede come protagonisti due immigrati siciliani nella fredda e razzista Torino, intenzionati a liberarsi dal giogo dei loro scabrosi rapporti con ambienti mafiosi locali e a ritornare alla loro terra natia, e una donna veneta giunta nel capoluogo piemontese in cerca di lavoro e finita per sventura a battere il marciapiede. Personaggi di un sottobosco sociale ed economico, che nel loro avventuroso viaggio di ritorno in Sicilia, nell’ attraversamento dello stivale incontrano personaggi di varia natura, legati alla corruzione e al malcostume endemicamente presenti in questo Paese.

Dunque l’intento del film di Steno era quello di dare, nei toni agrodolci tipici della commedia all”italiana, uno spaccato sociale dell’Italia contraddittoria e a più facce degli anni settanta. Eppure se confrontata con l’Italia attuale quella «Italia rotta» di allora sembrerebbe una sorta di paradiso terrestre.

Per rimanere alle citazioni d’antan, analizzare e paragonare la situazione attuale con epoche passate non avrebbe lo scopo di materializzare operazioni nostalgiche, non si tratterrebbe insomma di rimpiangere «i mitici anni 60 » vagheggiati dal giornalista Gianni Minà, ma di prendere atto degli orrorifici anni 10 del ventunesimo secolo, per cercarne una via di uscita, anzi di salvezza.

Per rimanere al linguaggio marxiano (totalmente dimenticato da coloro che pur si proclamano paladini della sinistra, difensori delle classi popolari, un linguaggio che invece dovrebbe costituire il loro background culturale permanente), quella frattura «sovrastrutturale », del malcostume, risulterebbe irrisoria o assolutamente secondaria rispetto alle fratturazioni che avrebbero fatto seguito nella «struttura», nel corpo sociale ed economico, da lì a pochi anni. Quante fratture o rotture ha subito la struttura socioeconomica italiana negli ultimi 40 anni?

Potremmo partire rammentando la fine degli Accordi di Bretton Woods e la costituzione dello SME ( serpente monetario europeo ) alla fine degli anni settanta; potremmo proseguire con il famigerato divorzio tra Ministero del Tesoro e Banca Italia nel 1981; rammentare la firma dei trattati di Mastricht per l’ingresso nell’ Unione Europea e nella moneta unica Euro nel 1992. Potremmo poi citare in rapida sequenza: la fissazione dei cambi tra le valute europee denominata ECU nel 1997, l’ingresso effettivo dell’Euro per gli scambi tra gli Stati nel 1999 e l’entrata in vigore della moneta unica all’interno degli Stati nel 2002, le politiche economiche messe in campo dalla UE in seguito alla crisi finanziaria dei Subprime del 2008, tra cui il piano di risanamento dei debiti sovrani degli stati membri dell’Unione denominato Fiscal Compact di cui si è fatto sacerdote sacramentale tra il 2011 e il 2012 il neo-senatore a vita Mario Monti. Non andrebbe nemmeno dimenticato «l’esperimento dal vivo» dell’applicazione del regolamento dell’Unione Bancaria Europea denominato Bail in su banche e risparmiatori italiani nel 2015.

Di tutto questo progressivo processo di sgretolamento e fratturazione del tessuto economico e sociale italiano, i segni delle più grandi fenditure e spaccature telluriche si sono manifestati in particolare negli ultimi 10 anni sotto la seguente fenomenologia: perdita di un quarto della produzione industriale e di un terzo della produzione manifatturiera o per fallimento delle imprese o per loro assorbimento da parte di multinazionali estere; aumento esponenziale della disoccupazione ufficiale e ufficiosa; deflazione salariale, riduzione dei diritti sul lavoro, precarizzazione occupazionale generalizzata; tagli rilevanti allo Stato sociale (sanità, scuola pubblica, blocco del turnover nella pubblica amministrazione); pauperizzazione della classe media e conseguente blocco dell’ascensore sociale; emigrazione forzata dall’Italia di 2 milioni di persone a partire dal 2010 di cui circa 280.000 giovani sotto i 40 anni; infine tasso demografico di denatalità sempre più preoccupante.

Fatto sta che dal quinto posto nel ranking delle potenze industriali raggiunto intorno al 1980 siamo precipitati all’attuale 40 posto; inoltre il livello di PIL già stagnante del 2007, cioè precedentemente alla crisi del sistema finanziario, non è ancora stato recuperato. Su questa situazione già precaria è poi, nell’ anno di grazia 2020, «planato dal cielo » l’angelo sterminatore della pandemia virale Covid 19, che ha dato il colpo di grazia all’integrità sociale di questo Paese.

La necessità oggettiva di attuare un blocco degli assembramenti pubblici, di isolare il più possibile le persone tra di loro e ridurre ai minimi termini le loro relazioni sociali per evitare il diffondersi del contagio, di proclamare insomma il cosiddetto lockdown, ha prontamente mostrato l’altra faccia della medaglia: le conseguenze della paralisi semintegrale del sistema produttivo. Tralasciando la discussione se le modalità e la tempistica seguite dal governo nazionale per attuare la quarantena sanitaria siano state le più opportune o meno, un fatto rimane lampante: uno Stato che è obbligato a paralizzare la sua economia con una decisione repentina, altrettanto tempestivo e duttile deve dimostrarsi nel porre rimedio alle inevitabili conseguenze catastrofiche di tale decisione.

Nel caso ciò non avvenga, il «re è nudo».

E’ il caso dell’Italia di oggi e del prossimo immediato futuro. L”Italia come sistema Paese rischia veramente di frantumarsi. Prendiamo come esempi paradigmatici di più recente e grave spaccatura del Paese la «revisione » della concessione di Autostrade per L’Italia e il cosiddetto «trionfo» del governo Conte in Europa per la costituzione del Recovery Fund.

Nel primo caso, innanzitutto va osservato che, da lungo tempo, si attendono notizie dalla magistratura intorno all’ andamento dell”inchiesta penale sulle cause e responsabilità del crollo del Ponte Morandi di Genova che il 14 agosto 2018 causò la morte di 43 persone. Si parlò già in allora di ipotesi di omicidio colposo plurimo da parte dei gestori di quel tratto autostradale, causa una grave mancata adeguata manutenzione delle strutture portanti del ponte.

Il gestore di quel tratto autostradale, come di circa altri 3000 chilometri di autostrade italiane, come è noto è la società Autostrade per l’Italia, che attraverso un sistema di scatole cinesi riconduce alla società Atlantia, e da questa alla famiglia dei Benetton. Ora, al di là dei gravissimi problemi legati al crollo e conseguente carneficina del ponte Morandi, in generale risulta che da quando Autostrade per l’Italia( ASPI) è diventata la società concessionaria di un monopolio naturale dello Stato quale sono le infrastrutture viarie, cioè dal lontano 1998, e più precisamente tra il 2001 e il 2017, la società dei Benetton ha incassato dai pedaggi autostradali 43,7 miliardi di euro a fronte di 18,6 miliardi spesi per la manutenzione. Tra il 2006 e il 2018 i ricavi sono aumentati del 29 % mentre gli investimenti sono calati quasi del 50%.

L’attuale governo Conte, come si sa, ha preso la decisione non di revocare autenticamente la concessione ai Benetton, né tanto meno di nazionalizzare Autostrade per l’Italia, ma di ridurre progressivamente il possesso di quote azionarie della stessa ASPI. Il processo che dovrebbe avvenire in due fasi prevedrebbe l’ingresso nel CDA di ASPI della semipubblica Cassa Depositi e Prestiti che dovrebbe acquisire il 51% delle azioni, ridurre progressivamente la dotazione azionaria attuale di Atlantia dall’attuale 88% fino al 10/12% delle azioni, una nuova quotazione in borsa delle Autostrade che consentirebbe l’ingresso di nuovi azionisti fino a una quota intorno al 40%, trasformando così dal punto di vista giuridico Autostrade per l’Italia in una Public Company

Numerosi sono i punti che suscitano perplessità in questo risultato delle trattative. Non è chiaro ad es. se la quota di azioni in possesso dei Benetton si attesterà intorno, sopra o sotto il 10 % delle azioni complessive. La differenza non è irrilevante perché sotto quella soglia si perde il diritto di partecipare al CDA della società. Dunque le nuove operazioni previste di capitalizzazione e nuova quotazione borsistica assumono un ruolo importante da questo punto di vista. A questo proposito non si sa chi potrebbero essere i nuovi azionisti da affiancare a CDP e Atlantia nella società autostradale, ma non si esclude che vi si possano annoverare anche fondi speculativi stranieri.

Un altro nodo scoperto consiste nel fatto che in previsione che i Benetton scendano progressivamente nel possesso di quote, queste quote da loro cedute gli verranno pagate. Ora se le stime sul valore complessivo di Autostrade variano attualmente tra i 5 e i 10 miliardi, se saranno cedute quote intorno al 75 % del totale, queste potrebbero valere per i Benetton un incasso tra i 3,5 e i 7,5 miliardi di euro.

Dato che i Benetton dovrebbero pagare misure compensative ( cioè debiti) intorno ai 3/4 miliardi, debiti contratti con i fondi speculativi per acquistare a suo tempo la concessione di Autostrade, questi ultimi sarebbero ampiamente ripagati e dalle cessioni delle azioni e dai guadagni che la quota superstite in proprio possesso garantirà come dividendi azionari. Insomma nel caso della famiglia Benetton il principio, tanto caro ai neoliberisti, «socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti», vale più che mai.

Si trattasse solo di perdite economiche, sarebbe già grave, ma nulla in confronto alla «socializzazione» della perdita di vite umane che questa triste vicenda ha presentato. Se giustizia, non solo dal punto di vista economico, ma soprattutto da quello penale, nemmeno in questo caso fosse fatta, e si aggiungesse un nuovo capitolo alla storia di stragi senza colpevoli e responsabili certi di questo Paese, la fratturazione tra società e istituzioni, tra popolo e Stato raggiungerebbe un livello decisamente intollerabile, sopratutto per i parenti delle vittime.

Ma un ulteriore, ancor più grave frattura dell’Italia, perché in grado di ipotecare il suo futuro, potrebbe essere l’esito delle trattative europee per il cosiddetto Recovery Fund. Nonostante il trionfalismo manifestato dal nostro «democratico e pluralista» sistema dei media main stream nazionale, l’accordo raggiunto per la costituzione di un bilancio europeo comune pluriennale ( 2021/ 2027) denominato appunto Recovery Fund, destinato a dare liquidità ai Paesi Membri dell’Unione Europea alle prese con la recessione economica post Covid, non è né un trionfo e neppure probabilmente un risultato vincente e auspicabile, almeno per il nostro Paese.

Dopo prolungate, serrate e litigiose trattative, si è stabilito di costituire un bilancio specifico comunitario di circa 740 miliardi di euro di cui 350 sotto forma di prestiti e 390 a cosiddetto «fondo perduto». All’ Italia in particolare toccherebbero 209 miliardi di euro di cui 127 sotto forma di prestiti e 82 a fondo perduto. Fin qui tutto bene. Ma veramente «tutto bene ciò che finisce bene?».

Andiamo a vedere nel dettaglio ciò che è scritto nelle carte e non affidiamoci allo story telling dei nostri media nazionali. Non essendo l’Unione Europea dotata di un proprio bilancio finanziario autonomo, la quota di miliardi di euro sotto forma di prestiti ( 350 in totale, 127 per noi) dovrà reperirla sui mercati finanziari in cambio di titoli specifici da lei emessi. Ora osserviamo sommessamente che, non essendo stato il debito pubblico del nostro Paese degradato a «titoli spazzatura» nel rating internazionale, questi prestiti potevano tranquillamente essere reperiti dal nostro Ministero dell’Economia mediante le ordinarie aste dei titoli a lunga scadenza italiani.

Per quanto riguarda la quota di miliardi sotto forma di «a fondo perduto», l’uso del virgolettato è d’obbligo perché in realtà non sono realmente tali. Gli 82 miliardi, che ci toccherebbero in sorte come tale quota, presentano tutta una serie di garanzie pregresse e condizionalità tali da suscitare forti perplessità e dubbi sulla loro convenienza, efficacia e desiderabilità.

Innanzitutto questi «sussidi» sarebbero erogati tutti tra il 2021 e il 2024, e non prima della metà del prossimo anno. Inoltre essi dovrebbero essere rimborsati a partire dal 2026 fino al 2058. In che forma e modalità andranno rimborsati? Con una costituzione di un bilancio europeo comune, di cui la quota di versamento spettante all’Italia, pari al 13,5 % del totale ( in base al Pil annuo) sarebbe di circa 50 miliardi sugli 82 totali. Per cui la quota di ricezione a fondo perduto scenderebbe a 32 miliardi spalmati in 3 anni. Nel documento ufficiale del Recovery Fund non sono specificate le condizionalità a cui uno Stato deve sottostare per accedere ai cosiddetti sussidi, ma si parla comunque di riforme necessarie da parte degli Stati membri, e finora le riforme che sono state richieste dall’Unione europea in quasi trent’anni di esistenza sono andate notoriamente in un ‘unica direzione: taglio delle spese pubbliche, taglio delle pensioni, aumento delle tasse, aumento dell’età pensionabile, riduzione media degli stipendi, etc.

Inoltre è previsto il diritto di veto di un singolo Paese membro sull’erogazione dei fondi destinati a uno Stato, se a suo giudizio la condotta di quello Stato non sia stata consona con gli accordi presi. L’erogazione può di conseguenza essere bloccata dalla Commissione Europea per 3 mesi in attesa di giudizio. Una sorta di supervisione estera da parte della Troika dell’Unione Europea viene così introdotta di contrabbando in questo accordo. I toni trionfalistici, in cui la propaganda si mescola con l’ignoranza, la superficialità e l’incompetenza, da parte dei nostri media main stream, con cui è stato spacciato il raggiunto accordo sul Recovery Fund, si mostrano in tutta la loro povertà.

Nel frattempo l’emergenza economica è già in atto da alcuni mesi, e in misura peculiare in Italia, in cui i provvedimenti presi dal Governo Conte mediante decretazione fin’ora non hanno sortito effetti rilevanti sul sostegno ai nostri attori economici paralizzati nelle loro attività dal lockdown.

Le tappe dei decreti governativi Cura Italia, Liquidità e Rilancio, non hanno fin’ora consentito a tutti coloro che ne avessero avuto diritto, né a tutti i lavoratori rimasti disoccupati di avere la cassa integrazione, né a tutte le partite iva di ricevere la modesta somma di risarcimento a loro spettante( dai 600 agli 800 euro), né a tutti i lavoratori in nero di ricevere l’altrettanto modesto reddito di emergenza ( dai 400 agli 800 euro), né alla totalità degli piccoli e medi imprenditori, che ne abbiano fatto richiesta, di avere finanziamenti agevolati dalle banche private ( ancora a fine giugno risultava che solo un 10 % sul totale delle 600.000 aziende richiedenti fosse riuscito ad accedere ai prestiti bancari).

Questo non apparirà strano e incomprensibile se pensiamo che finora, tra monetizzazione del debito ( acquisto diretto di titoli di Stato italiani da parte della BCE ) e emissione di nuove categorie di titoli riservati se non esclusivamente principalmente ai piccoli risparmiatori italiani( BTP Italia e BTP futura), il Tesoro alias Ministero Economia e finanze ha racimolato circa un centinaio di miliardi euro, una somma ancora largamente insufficiente per affrontare le urgenze sunnominate.

Eppure la BCE, per bocca della sua presidentessa Cristine Lagarde, si è detta pronta ad acquistare fino a 200 miliardi di euro di BTP italiani e, nel mese di maggio, il nostro ministero dell’Economia ha emesso Btp Italia per circa 22 miliardi di euro, a fronte di una domanda per 108 miliardi, con una sproporzione tra domanda e offerta di oltre 80 miliardi.

Se le previsioni del FMI, o quelle un po’ più ottimistiche di Banca Italia, con un range di una perdita prevista di PIL nazionale a fine anno che va da un massimo di 12,8 punti percentuali a un «più contenuto » 11,5 punti percentuali, sono fondate, ciò significa che ballano ancora, cioè mancano, da un minimo di 100 miliardi di euro a un massimo di 140.

Oltre la quantità pesano sulla mancata efficacia fin’ora dell’azione del nostro Ministero dell’Economia sia la tempistica che la modalità messe in campo.

Il Cairos o «tempo opportuno » per compiere una determinata azione è fondamentale in queste operazioni di salvataggio di un sistema economico paralizzato da cause esterne.

Se si lasciano andare in crisi, per mancanza di liquidità da fatturato, medie, piccole e microimprese che già vivono sul filo della sopravvivenza tra pesanti obblighi fiscali, mutui da locazione, prestiti bancari e scarse entrate dettate dalle dinamiche macroeconomiche, bè è difficile pensare che si possono resuscitare una volte lasciate andare sull’orlo del fallimento. E’ così che la stima di moria già in corso, e destinata a crescere esponenzialmente nei prossimi mesi, di piccole imprese, in particolare di settori quali le infrastrutture turistiche, la ristorazione e tante aziende dell’artigianato e del commercio, prevede una falcidia tra le loro file( un terzo, un quarto del loro totale?).

Questa potremmo considerarla la frattura delle fratture, il punto in cui il processo di rottura dell’ Italia attuale – rottura del sistema economico e frantumazione del tessuto sociale– minaccia di rovesciare in modo irreversibile, per anni se non per decenni, quel modello dell’Italia che fu, dal dopo guerra agli anni novanta del novecento.

Di fronte a quest’«Italia s’è rotta » quell’altra «Italia s’è rotta » degli anni settanta della antica commedia di Steno rischia di illanguidire come un gioco per fanciulli.

Esiste la possibilità di evitare questo estremo, funesto passaggio d’epoca ? Tutto è nelle mani della volontà della politica.

Nicola Boidi

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