Sono sempre stato appassionato di film western, fino dalla più tenera età.
Ricordo, nella mia città natale, un cinemino di poche pretese, che proiettava praticamente ogni sera dei film western d’annata.
La proprietaria, una donnina occhiuta e occhialuta, si premuniva di rifornirsi delle “pizze” che contenevano i migliori film westerrn, da quelli in bianco e nero a quelli a colori.
Un’autentica sagra, da John Ford a Howard Hawks, e poi da Anthony Mann a Sam Peckinpah, non dimenticando il sottile Budd Boetticher.
Centinaia e centinaia di film, da me visti e rivisti, e poi rimasticati sino a fondare una poderosa cultura della Frontiera.
Tantissimi film visti, tanti i capolavori, tali anche al di fuori della denominazione di genere, ma recentemente mi è tornato alla mente un piccolo gioiello, che conserva un posto particolare nel mio cuore.
Partiamo dal regista, un Richard Brooks che ebbe rinomanza e successo anche in altri generi negli anni ‘50.
Il film è” L’ultima caccia” (1956), in cui i temi classici del western vengono incrociati, discussi e innalzati a mito.
I protagonisti sono tre, l’eroe è Stewart Granger, che dall’alta figura di gentiluomo inglese si ritrova nelle praterie del west, disilluso cacciatore di bisonti.
L’antieroe è un tenebroso Robert Taylor, descritto come un crudelissimo razzista che affida tutte le sue risorse umane alla sua fulminea colt.
Il terzo protagonista sono i bisonti, che talora vediamo, talora no, ma di cui si sente il perenne scalpitare, che potrebbe essere anche il rumore di fantasmi; perché, lo sappiamo, decine di milioni di bisonti furono sterminati per la caccia alle pellicce e, perché no, per togliere il sostentamento agli indiani.
L’improbabile alleanza fra Stewart Granger e Robert Taylor si spezza quando si ritrovano ad uccidere un bisonte bianco, forte elemento religioso per i nativi, che lo considerano quasi una divinità.
Di fronte al differente valore che i due danno a questo simbolo, inizia un’altra caccia, non più quella fra uomo ed animale, ma quella fra uomo ed uomo.
Il finale, a sorpresa e scioccante, vede un Robert Taylor avviluppato in una pelliccia di bisonte, che non è però riuscita a salvarlo dal gelo notturno e l’immagine è quella di un pezzo di ghiaccio con dentro un uomo, ma con la pistola ben stretta nella mano, pronta a vomitare fuoco anche nell’oltretomba.
Non si può dire che sia uno dei grandi capolavori del western, ma questo film racchiude alcuni elementi tipici e topici del genere: l’eroe che attraverso vari errori riesce a ritrovare la propria umanità; l’antieroe, che raccoglie in sé tutti i dati negativi dell’epoca, razzismo, antifemminismo, assoluto disprezzo per la natura e l’ambiente.
Il bisonte poi rappresenta la vita per gli Indiani, una grande risorsa per l’avanzante capitalismo americano ed un rimpianto per gli ambientalisti, che lo ritrovano oggi sparso in poche mandrie tra Stati Uniti e Canada, ridotto ormai ad animale “domestico”.
Ma la cosa più sorprendente del film è l’intreccio fra le varie vicende, che compone un tutto manicheo, di cui ci deliziano le riprese ed i panorami sfolgoranti.
Bene il regista, benissimo gli attori, due fra quelli che io ho ammirato già nella mia giovinezza, belli i colori che variano tra il verde irlandese delle pianure e le nevi gelate delle montagne.
Un piccolo film, che non ha pretese di grandezza o di epicità, come quelli di John Ford, ma che si crea uno spazio tutto suo nella storia del cinema western e che io amo rivedere spesso e a cui sono molto legato.
Giorgio Penzo
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