L’utopia possibile di Occhetto

A dare retta ad alcuni ci sarebbe da rammaricarsi del fatto che la pandemia da Covid-19 non sia scoppiata prima. Questi, infatti, vedono nei nostri attuali globali problemi sanitari una opportunità preziosa per rinnovare il mondo, per capire quello che finora non abbiamo capito e, addirittura, per diventare migliori. Mentre la scienza compie l’impresa storica di consegnarci subito un vaccino contro il virus che continua a mietere centinaia di migliaia di vittime, alcuni scrivono libri nei quali sostengono, con un certo inspiegabile malcelato compiacimento, che quella indicata dalla scienza non è la via più sicura per la soluzione dei nostri problemi e che proprio il Covid-19 ha reso evidente la verità –solo a loro nota da tempo- che essa non è portatrice di una conoscenza oggettiva e che, invece, tanto lo scienziato sociale quanto il suo collega in laboratorio sono completamente in balia delle leggi del caos. Infatti, a conferma di ciò, alla prova già fornita in passato dalla rivoluzione della fisica della relatività, che –a loro dire- avrebbe introdotto l’indeterminazione e l’alea dove invece, con la scienza classica, regnava il determinismo, sarebbe possibile ora aggiungere i litigi pubblici, diventati quotidiani e sempre più accesi, tra i virologi sulla natura del virus che ci sta aggredendo. Pur presentate con un certo piglio, si tratta con tutta evidenza di considerazioni non troppo robuste. Innanzitutto perché è proprio la discussione aperta fra gli addetti ai lavori a portare alla conoscenza oggettiva dell’ “oggetto” . In secondo luogo, perché la fisica della relatività è proprio l’opposto del “relativismo”. Gerald Holton, un noto fisico americano, ci dice che paragonata alla fisica classica la relatività moderna è semplice, universale e, in un certo senso, assoluta. Sono parole che contrastano esplicitamente con quelle pronunciate da non pochi intellettuali, artisti, letterati, filosofi che tendono a relativizzare tutto, teorie scientifiche comprese. En passant, si potrebbe aggiungere che, come ci ha fatto sapere qualcuno, non fu Einstein a chiamare la sua teoria “relatività”. Fu Plank a dare ad essa quel nome. Einstein preferiva chiamarla “teoria delle invarianti”: Invariantentheorie. C’è chi ha fatto un elenco dei presunti aspetti positivi della pandemia: che ci ha ricordato di essere vulnerabili (sic!) e di aver trascurato l’ambiente, la salute pubblica, la scuola; di godere di un benessere dai costi molto elevati; di aver smantellato la rete diffusa degli ospedali nei territori e depotenziato la medicina di base; di avere sottovalutato il ruolo dello Stato senza il quale, invece <<si è abbandonati al proprio destino, più soli, più deboli >>;di avere privilegiato il privato rispetto al pubblico. Ovvietà, sicuramente, cose risapute che, però, nel contesto che si è determinato, senza una spiegazione causale, possono indurre al disimpegno, ad abbassare il livello della propria vigilanza , a ritenere, al limite, che per migliorare le persone e le loro condizioni materiali e spirituali e intellettuali, l’organizzazione dello Stato e della vita pubblica sia più comodo fare affidamento su qualche evento inatteso –magari su qualche pestilenza ciclica- anziché sulla laboriosa costruzione di una coscienza critica, sulle lotte contro l’ingiustizia, sull’ampliamento della libertà, sulla crescita della conoscenza e della scienza. Nella prima parte del suo ultimo libro, “Una forma di futuro. Tesi e malintesi sul mondo che verrà” (Marsilio Editori), Achille Occhetto tenta proprio di allertare su queste “ovvietà” e su altri “malintesi” generati dalla epidemia in atto. Il risultato, per la verità, non sempre è efficace, ma corretta è l’indicazione di metodo per contrastare meglio proprio il più grave dei malintesi: l’adagio che a seguito di questa pandemia <<nulla sarebbe stato più come prima>>. Per Occhetto non si tratta altro che di una espressione retorica che <<nasconde la direzione verso cui muove il cambiamento e che fa erroneamente pensare che gli eventi storici producano una sorta di tabula rasa su cui edificare le future sorti progressive dell’umanità>>. L’esperienza storica insegna, invece, che bisogna imprimere <<una direzione precisa al cambiamento, anziché abbandonarsi acriticamente all’esaltazione del ‘nuovo’>>. Con questa puntualizzazione metodologica, perché la sinistra non rischi di rimanere sepolta dalle macerie delle grandi trasformazioni in atto, Occhetto procede <<a mettere a nudo>> non pochi malintesi, e a fare chiarezza <<su alcuni ‘fondamentali’ del nostro essere comunità>>: sulla confusione tra sovranità e nazionalismo; tra vero e finto europeismo; sul rapporto fra partiti e movimenti; fra maggioranza e opposizione; fra libertà formale e libertà sostanziale; sulla distanza fra “idolatria del PIL” e benessere reale. E su altro ancora. Bisogna dire che su questi punti non c’è una particolare originalità di pensiero: molti ragionamenti, infatti, sono (erano) comuni al dibattito corrente della sinistra. C’è però l’impegno di dare comunque un contributo, cosa con i tempi che corrono sicuramente da apprezzare. Nella seconda parte del libro viene fuori la natura “visionaria” dell’autore, quell’ “oltrismo” col quale smantellò il vecchio PCI. C’è l’ansia di dar fondo all’universo che lo porta a scaricare d’emblée concetti e proposte colossali senza l’indicazione di un percorso da seguire, come un semplice ricettario per “l’osteria dell’avvenire”. Non manca proprio nulla: dalla riforma dell’Unione Europea alla riforma dell’ONU. Dal desiderio di un nuovo modello di sviluppo a quello di una società al femminile; a quello di un Green Deal nazionale, europeo e mondiale; a quello di un nuovo internazionalismo. Per concludere con l’elencazione dei capisaldi di una riforma radicale della politica. Ma tutto questo Occhetto non ci dice come tentare di realizzarlo o, perlomeno, come cominciare per tentare di realizzarlo. Non ce lo dice perché la sua <<utopia del possibile>> è solo puro desiderio: non indica soggetti storici organizzati (tali non possono essere considerati i movimenti a cui intende affidarsi), né strategie politiche, né analisi, né strumenti conoscitivi adeguati, né forze materiali e di pensiero su cui far leva. E così, come conforto ad una impotenza reale, <<come medicina dell’animo in un’epoca malata>> non gli resta che rifugiarsi nel ricordo bambino di <<un altro 25 aprile>>.

Egidio ZACHEO

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