Lutto, quando diventa malattia

Il tema del lutto è tornato in primo piano con la pandemia. Spiace rilevare che il DSM-5 (quinta e ultima edizione del più importante manuale di classificazione dei disturbi psichiatrici) consideri il lutto grave uno specifico stato patologico tale da richiedere cure, in vero a tutto beneficio di psichiatri e case farmaceutiche. Di per sé il lutto è una reazione normale, anche quando si soffre molto per la morte di una persona particolarmente cara; può tuttavia degenerare in disturbi di diverso tipo a seconda della personalità del soggetto, del tipo di legame col defunto, delle circostanze della morte.

Nel caso di questi sviluppi disadattivi si suole parlare di lutto “complicato”. La melanconia ne è la forma più significativa: rispetto ad altri possibili disturbi conseguenti al lutto (disturbi d’ansia, psicosomatici, ipocondriaci e altri) è quello che presenta maggiori affinità sintomatiche col lutto, come sto per dire. Inoltre questa grave patologia – per fortuna percentualmente modesta tra le persone in lutto – proprio per le sue abnormità permette di evidenziare taluni aspetti sorprendenti che nel lutto normale restano sotto soglia come il senso di colpa e la rabbia.

In effetti, al pari del lutto la melanconia – che per altro può derivare anche solo da abbandoni, da cadute dello status sociale e da altre perdite – comporta uno stato di profonda prostrazione, il disinteresse per ogni attività o pensiero che non riguardi l’oggetto perduto, un ripiegamento su di sé e il rifiuto di nuove relazioni. Ma a differenza del lutto “normale” in essa compaiono forti denigrazioni e svalutazioni di sé, nonché autoaccuse circa malefatte che è impossibile il soggetto abbia commesso. Il dolore per l’oggetto perduto, proprio del lutto, nella melanconia si trasferisce sul soggetto stesso che si sente perso: «L’ombra dell’oggetto ricade sull’Io», secondo l’icastica espressione del Freud in Lutto e melanconia (1917).

Come è possibile uno sviluppo tanto conturbante? Molto dipende dal tipo di legame affettivo vigente prima della perdita. Vi sono in effetti legami in cui la persona amata, non già sentita come indipendente da sé, è invece oggetto di identificazione. Vale a dire, essa è “amata” quasi fosse una parte di sé, o addirittura incorporata immaginariamente, come può accadere nel rapporto madre figlia/o; oppure, viceversa, il soggetto si sente parte dell’altra persona, come accade in rapporti di particolare dipendenza affettiva dalla persona amata, idealizzata e divenuta indispensabile.

Ebbene, queste forme d’amore già compromesse sono la premessa di sviluppi melanconici del lutto: la morte della persona cara, a seguito dell’identificazione con essa, è la propria stessa morte. Di più, nella misura in cui v’erano o vi sono moti di ostilità verso quella persona – perché si è stati offesi da lei, ci si è sentiti traditi, o anche solo per una certa rabbia conseguente al sentirsi abbandonati con la sua morte – si sviluppano per contropartita le suddette autoaccuse e sensi di colpa. È colpa per l’attacco alla persona pur amata, e ad un tempo è attacco rivolto a sé, in quanto il melanconico si è identificato all’altro nel suddetto ambiguo amore.

L’elaborazione del lutto

Lo studio delle fasi del lutto permette di individuare quei momenti critici che possono volgere il lutto in senso normale o invece patologico, anche senza arrivare alle forme più gravi come la suddetta melanconia.

Se ha un senso periodizzare il lutto distinguendo in esso delle fasi, è perché il lutto non è solo uno stato, ma anche un processo che si sviluppa nel tempo e richiede un “lavoro” di riadattamento. La periodizzazione non va però intesa come una rigida successione di fasi, le quali invece possono ritornare e intersecarsi. L’individuazione di fasi tipiche, poi, paga lo scotto di trascurare le tante differenze tra un individuo e l’altro. Fatte salve queste avvertenze, spesso citata – vedasi ad esempio Di Caro (2017) – è la periodizzazione del lutto sulla falsariga delle ricerche della psichiatra svizzero-americana Kübler-Ross (1969). La quale in vero si occupò dell’accettazione della morte in malati con diagnosi infausta, riconoscendovi cinque fasi tipiche. Schematicamente sono: 1) Rifiuto e isolamento alla notizia funesta; 2) Rabbia (non doveva capitare proprio a me”); 3) Depressione (per le perdite in corso e per quelle che si sta per subire); 4) Patteggiamento (specie di contrattazioni per poter vivere ancora un poco); 5) Accettazione (a seguito della rassegnazione). Si notano però delle forzature nell’applicazio-ne al lutto di talune fasi del percorso di accettazione della propria morte; infatti antitetico nei due casi è il fine del processo di elaborazione mentale: rassegnazione alla morte nel malato terminale, ritorno alla vita nella persona in lutto.

Comunque, al di là del mero reperimento di fasi, appare proficuo ragionare in termini di soluzioni ai nodi ricorrenti che presenta la condizione di lutto. Questa impostazione consente di rintracciare il bivio tra sviluppo normale del lutto e sviluppo complicato, in funzione delle soluzioni, più o meno adattive, operate dal soggetto a fronte di quei nodi. A tal fine espongo nello schema qui sotto momenti e aspetti tipici del lutto grave, raccogliendoli in tre essenziali fasi logico-cronologiche: la presa d’atto della morte, l’elaborazione emotiva, la risoluzione. I nodi cui alludo sono evidenziati nella fase 2.

1. Senso di irrealtà e ritiro

  1. Smarrimento alla notizia; diventa shock e incredulità a fronte di morte traumatica, con reazioni somatiche importanti.
  2. In generale e per un tempo più o meno lungo: tristezza profonda, ripiegamento su di sé, disinteresse per tutto ciò che non riguardi il caro defunto e perdita di iniziative.

2. Elaborazione conflittuale e il difficile cambio di script

  1. Tra attesa dell’oggetto perduto e accettazione della realtà.
  2. Tra idealizzazione paralizzante e ‘’rilascio’’ nell’affettuosa rimemorazione
  3. Tra rabbia (verso il mondo e/o verso l’oggetto perduto) e rassegnazione
  4. Tra colpa (altrui e propria) e tolleranza, perdono

3. Riapertura delle relazioni, riconfigurazione dello script

Condizioni favorevoli: socializzazione della perdita, pratica di riti

  1. Reinvestimento affettivo di persone e cose; ripensamento del Sé familiare e sociale
  2. Valorizzazione creativa dei segni interiorizzati (le “in-segne”) del caro defunto

Intendendo nel prosieguo illustrare punto per punto lo schema testé esposto, ricordo anzitutto che la nozione di script, invalsa nella psicologia cognitivista, si riferisce al canovaccio di azioni e reazioni abitualmente adottate in tipiche circostanze di vita, ad esempio quando si partecipa a un matrimonio. Così è pure di tante consuetudini relazionali tra persone che abitualmente convivono, le quali però vengono messe in questione a seguito della morte di un membro del gruppo. In effetti il lutto grave in un gruppo familiare non è la mera somma dei rapporti tra il defunto e i membri del gruppo singolarmente presi. Piuttosto è l’assetto relazionale del gruppo come tale che subisce un contraccolpo: tendenzialmente mutano sentimenti, ruoli, comportamenti pure dell’un membro rispetto all’altro, sollecitando pertanto una ristrutturazione dello script vigente prima della morte del membro. Insistere invece a rapportarsi secondo script precedenti risulta disadattivo per ciascun membro del gruppo. Emblematico, al limite del delirio, è il caso di una madre di famiglia che, persi due giovani figli nella medesima circostanza, continuò per mesi a imbandire la tavola per cinque, lei, il marito, i figli scomparsi e quello rimasto, come se prima o poi tutti dovessero rientrare a cena.

Un iniziale senso di smarrimento (punto 1a dello schema) si rileva anche quando la morte del caro era attesa: con la sua malattia era divenuto parte integrante dell’orizzonte di vita del curante, quanto più questi gli si era dedicato. Nel caso invece di morti improvvise e drammatiche possono manifestarsi nelle persone più prossime sintomi ascrivibili al disturbo da stress post traumatico (PTSD secondo la classificazione del DSM), dove rilevanti sono i malesseri psichici e somatici correlati. Va da sé che il grado di parentela sia variabile importante nel predire l’intensità del cordoglio (altro la morte di un genitore avanti negli anni, altro quella di un figlio).

È pure ipotizzabile la variabile data dal genere della persona in lutto: non conosco studi specifici, ma l’esperienza clinica, benché abbia solo un valore aneddotico, mostra il carattere tendenzialmente più “viscerale” delle reazioni femminili. Segnatamente la madre che perde il figlioletto, a differenza del padre, può arrivare a sentirlo come se glielo si fosse strappato dal seno, o dal ventre. Altrettanto viscerale è la reazione di una giovane vedova che percepiva il proprio corpo, al limite dell’allucinazione sensoriale, come trapassato da quegli stessi pallini di piombo che avevano ucciso il marito in un incidente di caccia: sentiva il corpo del marito deturpato e ormai in putrefazione come se fosse il suo, tanta era l’identificazione empatica col corpo di lui teneramente amato.

I fenomeni di ripiegamento su di sé, di rinuncia a ogni iniziativa, di disinteresse per tutto ciò che non riguardi il caro defunto (punto 1b) sono abbastanza noti e comuni. Importa qui rilevare che la tristezza colora di sé ogni cosa e ogni rapporto, determinando – per dirla con gli psicologi di orientamento fenomenologico – una diversa modalità “intenzionale” (nel senso di un diverso modo di rapportarsi ad alcunché): cose o persone, già oggetto di interesse e affezione, nel vissuto del lutto assumono altra “valenza”, caratterizzandosi ora come irrilevanti, svalutate, rifiutate. Indimenticabile a proposito, per quanto sovraccarica di enfasi, è la descrizione del lutto per la morte di un giovane amico che fa Agostino di Ippona (V sec.) nelle sue Confessioni.

Nodi critici ricorrenti

Momenti di intima conflittualità, che aggravano la sofferenza della perdita, non sempre sono di immediata evidenza, ma proprio la mancata soluzione di quei conflitti porta a forme di lutto complicato, se non a franche patologie, come prima accennato.

Ammettere fino in fondo la perdita (punto 2a), abituarsi a essa anche nelle immediate associazioni mentali sono processi che richiedono tempo. Pure alla persona più sana possono accadere episodi curiosi: per una sorta di riflesso condizionato può avere l’impressione, sentendo cigolare la porta di casa, che sia proprio lei o lui che sta rientrando; o l’impressione fugace, mentre sta pensando di sfuggita a lei/lui per strada, di intravvederla/o in quella persona là nella folla. All’estremo, tanto è forte il desiderio di aver vicina la persona cara, che può crearsi l’illusione di sentirla davvero presente e operante. L’accettazione a tutti i livelli psichici della perdita, come fatto reale e irreversibile, è dunque un cammino non sempre lineare e scontato.

Il frequente fenomeno dell’esaltazione delle qualità positive del caro defunto, a scapito di quelle meno nobili (punto 2b), e pure il ricordo insistito sui momenti felici vissuti assieme diventano motivo di legame ulteriore e ad un tempo motivo di incremento del dolore, a causa della sopravvalutazione di quanto si è perduto. Si profila pertanto l’ambiguità tra il rendere a sé più amabile la sua persona e la dimensione narcisistica delle qualità esaltate di mio padre, mia moglie, mio figlio. Il che rende più difficile l’accettazione della scomparsa e soprattutto la possibilità di intraprendere nuove relazioni (esemplarmente il vedovo/a quando afferma che nessun’altra persona potrà mai essere come lei/lui). Non è dunque scontato neppure il cammino che porti dall’idealizzazione paralizzante al suo stemperamento nel nostalgico, caro ricordo.

I sentimenti di rabbia e di colpa (punti 2c e 2d), infine, il più delle volte sotto traccia, sono suscettibili di esitare in sviluppi particolarmente nefasti nella misura della loro intensità e permanenza. La rabbia si sviluppa comprensibilmente verso chi sia stato in qualche modo responsabile della morte. Spesso accade però che il rifiuto di una morte pur naturale porti a cercare capziosi motivi di responsabilità in altri, specie nei medici che non sarebbero stati tempestivi, non avrebbero fatto abbastanza. Il carattere patologico di questi comportamenti si manifesta nell’enfasi che solo a posteriori assumono i sospetti, così da dar luogo a insistenti ruminazioni mentali e a propositi di “farla pagare”. A volte, poi, la rabbia è indirizzata contro il destino (“Perché quella disgrazia proprio a noi?”) o, per certi credenti, contro Dio che avrebbe permesso… L’elaborazione di atteggiamenti di tolleranza, che attenuino rabbia e vendicatività, richiede tempo e non sempre riesce; ma lo richiede anche il riuscire a “farsene una ragione” a fronte di una morte naturale ma “ingiusta”, come può esserla quella di un figlio in tenera età.

Dal canto suo la colpa nel corso del lutto è suscettibile di essere attribuita sia ad altri, sia a sé. Per taluni soggetti la colpa è da imputare comunque a qualcosa o a qualcuno, pure laddove la morte sia stata accidentale: in una visione in fondo animistica del mondo, deve esserci una causa identificabile in una volontà malevola. L’animismo non appartiene solo al pensiero primitivo o a quello magico; piuttosto, per quanto esso sia riconosciuto irrazionale, v’è una spontanea tendenza a proiettare su ogni entità agente i nostri caratteri psicologici di esseri dotati di intenzioni, di volontà; ed è quanto palesemente accade nel corso dello sviluppo del bambino (stadio del “pensiero egocentrico” secondo Piaget). Sedimenti di quello stadio restano in ciascuno e sono suscettibili di riaffiorare; ma quando trovano riscontro in talune culture improntate ad animismo – come accade in poveri africani qui immigrati – sono difficili da confutare: il lutto diventa occasione di elaborazioni paranoidee su presunte malevoli forze oscure.

Quanto alla colpa attribuita a sé stessi, va da sé che diventi sentimento atroce quando la morte del caro deriva da una propria imprudenza. Vi sono però sensi di colpa più difficili da delimitare in una precisa responsabilità: per certi soggetti ossessivi difficile è perdonarsi, esagerata o solo immaginaria che sia la propria colpa. In essi ricorrono ritornelli tormentosi del tipo “se avessi fatto…”, “se non lo avessi lasciato uscire quel giorno…”: come in una moviola, vorrebbero tornare indietro per ricostruire diversamente il corso degli eventi. Frequente, poi, è l’autorimprovero di chi sente di non aver fatto abbastanza per curare la persona cara, ma esso sorprende in chi si era prodigato fino allo stremo. Viene il sospetto che siffatti sensi di colpa, che si manifestano solo dopo la sua morte, siano la contropartita dei moti di insofferenza per il sacrificio, psicologico e materiale, richiesto da cure assidue e protratte. Ed è un indizio di quella stessa ambivalenza di amore e odio che, esagerata, troviamo nel melanconico.

Non si può, infine, misconoscere che talora sensi di colpa affiorano come contropartita di una schietta ma inconfessabile soddisfazione per la morte del coniuge detestato, del parente divenuto di peso. Se, da una parte, la sua morte è sentita come una liberazione, dall’altra parte è suscettibile di promuovere sensi di colpa per quella stessa soddisfazione, quasi che la coscienza suggerisse: “Hai desiderato che morisse, eccoti accontentato”.

In conclusione, dove la propria responsabilità per la morte di un caro è di chiara evidenza, essa è vivibile nella forma del rimorso, il quale dovrebbe poter diventare la premessa per una riparazione grazie a qualche forma di compensazione. Invece il superamento di sensi di colpa irrazionali e di rabbie esagerate è meno gestibile: il soggetto può dover ricorrere a un aiuto psicologico.

Sviluppi creativi

Va da sé che il buon esito del lutto si manifesti nel riadattamento di sé alla nuova realtà e nella disponibilità a nuovi rapporti (per quanto la persona cara, data la sua unicità rispetto a ogni altra, sia in certo modo insostituibile). Di più il lutto, a certe condizioni e in certe personalità, diventa occasione di maturazione, di acquisizione di nuove sensibilità, promuovendo anche iniziative particolarmente generose a compensazione “creativa” della perdita.

Comunque, condizione ampiamente riscontrata per superare più agevolmente il lutto è la vicinanza di parenti e amici, capaci di ascolto empatico. È convinzione unanime tra gli psicologi che esprimere il dolore a persone fidate, ben lungi dall’essere segno di debolezza, sia cosa salutare, mentre la repressione del dolore, fino a pensare di poter proseguire la vita come se nulla fosse accaduto, che si nota in certi soggetti, lascia presagire sviluppi patologici in seguito.

Anche il rito sembra avere una certa importanza: dai riti funerari, alle commemorazioni, al raccoglimento periodico dinnanzi alla tomba. Di contro, non aiuta a elaborare il lutto la sepoltura nel quasi anonimato delle grandi città. Inoltre, come già sosteneva Parkes nell’importante lavoro del 1972 (Il lutto: Studi sul cordoglio negli adulti, riedito più volte nella versione inglese), ombre sono gettate sulla crescente pratica della cremazione: in mancanza di un segno rilevante del defunto, quale il sepolcro che ne custodisca le spoglie, è reso meno facile il dialogo immaginario con lui.

Questo tipo di dialogo, che potrebbe sembrare una follia, alla luce dell’esperienza clinica si è invece rilevato utile nel limitare lo sviluppo di lutti complicati: l’immaginario ha una sua funzione laddove non debordi nel delirio. Alludo al dialogo che la persona viene a istituire con ciò che di caro e prezioso il defunto gli ha lasciato nel ricordo, con la sua parola, il suo esempio. (Del resto, fuori della ricerca psicologica, in letteratura questo tipo di rapporto non è una novità: si pensi ai Sepolcri di Ugo Foscolo). Il dialogo insomma qui avviene con l’immagine interiorizzata della persona cara, qual è a posteriori rielaborata nel ricordo. «Ma sarebbe contenta tua mamma, se ti vedesse così depressa, distruttiva di te e della tua carriera?»: questa fu la domanda che, posta dal terapeuta a una giovane donna in rabbioso lutto per la morte della madre – e poi da lei elaborata nel dialogo interiore – segnò l’avvio di una svolta risolutiva.

Insomma, le tracce positive lasciate dalla persona cara – ovvero l’“oggetto buono interno” come avrebbe detto la psicoanalista Melanie Klein (1940) – fungono da “in-segne” suscettibili di essere coltivate dentro di noi. Non solo permettono di superare eventuali sensi di ostilità verso di essa, ma, al meglio, possono fornire indicazioni atte a guidare l’esistenza successiva. In questo senso la persona cara continua a vivere fecondamente in noi.

Appendice. Un caso di sviluppo creativo del lutto

Trascurando iniziative esemplari improntate a grande generosità, promosse per compensare la perdita della persona cara, viene in mente come esempio di sviluppo creativo del lutto la figura del giovane Boriska nel film Andrej Rublëv di Tarkovskij. Rimasto orfano del padre, ultimo costruttore di campane – siamo nel corso di una pestilenza in Moldavia a inizio ’400 – questo adolescente osa offrirsi al principe del luogo per il rischioso lavoro di fusione di una campana, poi perfettamente riuscito. Se ha un senso il suo pianto a dirotto mentre confessa che nulla suo padre gli aveva insegnato, è perché gli erano rimaste impresse talune “in-segne” del padre – magari interiorizzate passando nel laboratorio paterno – ora intelligentemente sviluppate. Ne risulta segnata la sua vita successiva: seguirà Rublëv nelle peregrinazioni di villaggio in villaggio, quest’ultimo famoso pittore di icone, lui eccellente costruttore di campane.

Mauro Fornaro

Riferimenti bibliografici

American Psychiatric Association (2013), DSM-5, Cortina, Milano 2017.

Di Caro S. (2017), La psicoterapia del distacco. Dinamiche intrapsichiche, funzionamenti familiari e trattamenti del lutto in terapia relazionale, Alpes, Roma.

Freud S. (1917), Lutto e melanconia, in O.S.F., Vol. 8, Boringhieri, Torino 1976.

Klein M. (1940), Il lutto e la sua connessione con gli stati maniaco-depressivi, in Scritti 1921-1958, Boringhieri, Torino 1978.

Kübler-Ross E. (1969), La morte e il morire, Cittadella editrice, Assisi 2018.

Parkes C.M. (1972), Il lutto. Studi sul cordoglio negli adulti, Feltrinelli, Milano1980.

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