Il nuovo manifesto del Labour Party

Su segnalazione del civis Renzo Penna pubblichiamo l’articolo di Nicola Melloni*  pubblicato sulla   rivista Iacobin Italia  https://jacobinitalia.it/il-nuovo-manifesto-del-labour-party/

L’ultima conferenza programmatica del partito guidato da Jeremy Corbyn è andata oltre l’abbandono della «terza via» blairiana, immaginando una radicale riorganizzazione dell’economia

Un paio di settimane fa si è tenuta la conferenza programmatica del Labour. Mentre tutti gli occhi erano puntati sulla Brexit – su cui il partito continua ad avere una posizione ambigua – Corbyn e i suoi hanno messo insieme un manifesto con una visione del futuro nuova e ambiziosa. Negli anni scorsi, tra mille polemiche e battaglie interne, si era abbandonata la Terza Via per tornare a formulazioni coerentemente socialdemocratiche: nazionalizzazioni di ferrovie e servizi pubblici, abolizione delle tasse universitarie, aumento delle tasse per i più ricchi. Quest’anno, invece, si è provato ad andare oltre. Non si guarda più solo ai problemi sociali e a come curarli, ma attraverso lo studio delle prospettive economiche e dei cambiamenti tecnologici si è cominciato a immaginare a come organizzare il futuro.

Un nodo chiave  di questa visione sono la progressiva automazione del lavoro e l’avvento di una epoca sempre più “robotizzata”. Normalmente i cambiamenti tecnologici sono ragioni di preoccupazione per la classe lavoratrice, perché rischiano di concentrare ancora più potere nelle mani del capitale e già ora sono una delle cause della crescita delle diseguaglianze. Possono però anche essere un’opportunità. In questi anni sono stati diversi gli intellettuali di area – da Paul Mason a Aaron Bastani – che si sono esercitati nell’immaginare un futuro post-capitalista in cui la tecnologia sia al servizio della società. Sulla scia di questi lavori, il Labour ha deciso di prendere il toro per le corna: forti investimenti in tecnologia soprattutto nel settore pubblico, aumento del salario minimo, un mercato del lavoro regolato con un ruolo attivo dello Stato possono creare le condizioni per una riduzione della settimana lavorativa a quattro giorni, a paga uguale, naturalmente. Si tratta, se vogliamo, di un «ritorno al futuro», a quel modello di società a cui guardavano tanto Marx che Keynes (cfr. Prospettive economiche dei nostri nipoti) – e non a caso il Labour ha incaricato Robert Skidelski, economista e biografo di Keynes, di studiare la fattibilità del progetto.

Di fatto, quello che si sostiene, ed è un punto fondamentale, è che se la tecnologia in sé è neutra, il suo utilizzo e le sue conseguenze sono invece fattori squisitamente politici. Lo stesso vale per reddito e disoccupazione, che non sono il semplice risultato dell’incontro di domanda e offerta sul mercato del lavoro, ma riflettono piuttosto i rapporti di forza nella società. Basta pensare per un attimo che mentre da una parte la mancanza di opportunità di investimenti si traduce in finanziarizzazione dell’economia, dall’altra in tutto o quasi l’Occidente la carenza di medici, infermieri o insegnanti è diventata ormai cronica. Non è dunque un problema di mancanza di risorse, ma della loro allocazione – nelle mani prevalentemente del privato e di una sempre più ristretta oligarchia.

E dunque è proprio attraverso una diversa allocazione delle risorse e all’utilizzo sociale della tecnologia che il Labour punta a ridisegnare tanto l’economia che la società britannica. Si parte da una «decommodificazione» dei bisogni sociali, attraverso inizialmente l’introduzione di un reddito di base universale (universal basic income), per poi passare a garantire servizi sociali universali (universal basic services), dalla sanità all’istruzione (dove Corbyn mette, finalmente, al centro del progetto di riforma scolastica e l’abolizione delle scuole private) ai trasporti all’abitazione – puntando a costruire almeno 3 milioni di nuove case popolari in 20 anni, introducendo, se necessari, controlli sui prezzi e arrivando a proporre la requisizione degli appartamenti sfitti.

Allo stesso tempo si punta su un grande piano di sviluppo, il cosiddetto Green New Deal per puntare alla riconversione ecologica dell’economia: zero emissioni in un decennio, decarbonizzazione da ottenere attraverso una tassazione fortemente progressiva in modo da nazionalizzare tutti i trasporti pubblici e renderli gratuiti o a bassissimo costo, investimenti in ferrovie, retrofitting di tutte le council house ed edifici pubblici esistenti. Il tutto accompagnato dalla creazione di posti di lavoro «verdi» in nuovi settori: da abitazioni a energia solare all’investimento in energia eolica; dall’accelerazione nella transizione alle auto elettriche fino alla riforestazione della Gran Bretagna e la messa in sicurezza del territorio. Ma anche, appunto, maggiori assunzioni in settori a impatto zero come sanità e istruzione. È però chiaro che un programma di così grande ambizione sarebbe possibile solo sotto una guida pubblica e una subordinazione del sistema finanziario al ruolo della politica, come in effetti fece Roosvelt con il suo, originale, New Deal.

E non è dunque un caso che l’ultimo asse del programma di Corbyn sia una rimodulazione del sistema delle corporations. Che il sistema di incentivi del capitalismo finanziario sia dannoso per società, ambiente e democrazia è una ovvietà ormai riconosciuta anche dal Financial Times, che propone una maggiore attenzione per gli stakeholders e minore per gli shareholders. Il Labour pensa invece a un cambiamento più radicale, con l’introduzione di Fondi di Proprietà Inclusiva, ovverosia il trasferimento, ogni anno, dell’1% (e fino al 10% del totale) delle quote azionarie delle aziende con più di 250 addetti dai detentori di capitale ai lavoratori. Si tratta di un meccanismo dal doppio scopo: da una parte come diceva Milanovic in una conversazione di qualche anno fa, se è corretta la teoria di Piketty secondo cui il tasso di rendimento del capitale è maggiore della crescita economica, una delle maniere più efficaci per ridurre la diseguaglianza è intervenire proprio sulla concentrazione del capitale; dall’altra si rilancerebbe la democrazia economica dando voce in capitolo ai lavoratori sulle scelte aziendali che non sarebbero più a vantaggio esclusivo di management a capitalisti.

L’articolazione del programma del Labour punta dunque a una vera e propria riorganizzazione dell’economia per superare quella che Polanyi definiva società di mercato, l’organizzazione liberale che asservisce le esigenze sociali a quelle economiche. L’obiettivo è invertire questa relazione, e mettere le forze economiche al servizio dei bisogni sociali: non è socialismo, ma è quantomeno un ritorno al capitalismo democratico. Per parafrasare gli slogan semplicistici del momento, si tratta di aprire una nuova stagione di diritti, che in quanto diritti non sono negoziabili, e non sono dunque neanche commerciabili.

Per la prima volta in quarant’anni a sinistra si propone dunque non una timida e spesso inutile difesa dell’esistente, e nemmeno un ritorno al passato, ma un superamento se non del capitalismo almeno della sua fase liberista. È un primo, concreto passo per proporre una visione del mondo finalmente di nuovo egemonica.

*Nicola Melloni si occupa della relazione tra stato e mercato e tra cambiamenti economici e politici. Dopo un PhD a Oxford ha insegnato e fatto ricerca a Londra, Bologna e a Toronto. Scrive per Micromega e Il Mulino.

 

 

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