Note su liberalismo e democrazia. I fondamenti

Ho letto con vivo interesse il saggio Il disordine della ragione pubblica dell’amico Marco Ciani pubblicato su “Appunti Alessandrini” il 14 luglio e subito rilanciato da “Città Futura on-line”. Ho pure letto con interesse quanto hanno osservato su ciò – sempre con annotazioni importanti di merito, su “Appunti Alessandrini” – Luigi Lama (17 luglio), Daniele Borioli (18 luglio) e Agostino Pietrasanta (21 luglio). Si tratta di temi per me appassionanti, di cui mi sono occupato innumerevoli volte, anche come docente di “Storia delle dottrine politiche” dal 1974 al 2010, prima presso l’Università degli studi di Torino e poi di Milano1. Anche su “Città Futura” sono intervenuto più volte su ciò , anche con riflessioni storiche e teoriche, affrontando il tema che è poi il vero pungolo che sta alla base del discorso di Ciani: la preoccupazione per la sorte della democrazia che diciamo liberale, specie in Italia. Rinvio pure al mio ultimo articolo in proposito: La decadenza della democrazia.2 Riprendo perciò volentieri tali temi, in modo colloquiale, come se fossi a tu per tu con il mio amico Marco Ciani, ma senza dimenticare gli altri amici interlocutori.

Quando non c’era o non c’è lo Stato “moderno”

Parto da alcune osservazioni di base. La prima concerne il ragionamento ad ampio spettro che ci propone Marco Ciani. Egli parte dagli antichi. Va bene, ma non mi pare il punto chiave. Gli antichi ci hanno dato tanta parte della nomenclatura di cui ci serviamo, significati di base compresi. Vale in medicina; vale ancor di più in filosofia e certo vale anche nel pensiero politico, sol che si pensi ai dialoghi più politici di Platone, alla Politica di Aristotele, alla Repubblica di Cicerone, alle Storie di Polibio (in cui già si delineava una teoria politica ciclica della successione delle forme di governo)3, e così via. Ma il mondo degli antichi in politica era molto diverso dal nostro, non solo perché avevano altra cultura religiosa (politeistica), ma anche perché c’era l’economia allora ovunque schiavistica e, soprattutto – per quel che qui dibattiamo – perché presso di loro non c’era lo Stato “moderno”. Anzi, alcuni studiosi sostengono persino che presso di loro ci fosse sì la politica, ma non “lo Stato”, che sarebbe emerso solo, in taluni grandi paesi, tra fine del Medioevo e inizio dell’età moderna. Per me tale affermazione, propria di quella forma estrema di liberismo che si chiama anarcocapitalismo, non ha senso4. Ma certo non c’era lo Stato “moderno”, o lo Stato “in senso moderno”, che prende a nascere in certi paesi verso la fine del Basso Medioevo (in Francia e Spagna) e si consolida in tutte le aree forti, ora in forma di Stato vasto come una nazione, e ora piccolo come città o regioni, soprattutto dal XV-XVI secolo in poi. In tanti paesi dell’Africa è ancora oggi allo stato nascente, e la sua estrema precarietà provoca, notoriamente, spaventosi guai. Si pensi alla Libia, diventata dopo la liquidazione di Gheddafi, terra di contesa tra fazioni più o meno banditesche. Cosa voglio dire in sostanza?

Lo Stato, in senso moderno è connotato da due caratteristiche: I) Il monopolio territoriale della violenza (o potere di coercizione); II) la personalità giuridica, cioè la pretesa di esercitare il monopolio, e anzi l’esclusiva della violenza territoriale (o potere di coercizione), “in nome della legge”, essendo lo Stato il solo a poter fare e imporre le norme che tutti debbono accettare sul proprio territorio.

Questo sta a significare che se su un territorio ci sono non solo criminali, com’è ovvio, ma criminali che esercitino un potere territoriale “come se” fossero lo Stato (obbediti dalla gente più, o quanto, o più o meno come essa fa con lo Stato), lì non c’è Stato in senso proprio (moderno), o comunque ci sono gravi agenti patogeni che ne attaccano “il corpo”. Questo segna una differenza abissale rispetto al mondo antico o medievale, in cui “l’autorità politica” non aveva mai avuto né il monopolio di tutta la violenza territoriale né della stessa legge. Ad esempio una situazione come quella descritta da Shakespeare in Romeo e Giulietta (1595), in un’immaginaria Verona, in cui due famiglie, i Montecchi e i Capuleti, si picchiavano e spesso ammazzavano odiandosi a morte, indica che lì non c’era Stato moderno, anche se cercava di esserci. E tante situazioni delle tragedie di Shakespeare che ci mostrano, in Inghilterra, efferate lotte di potere, come quelle dello straordinario Macbeth (1605) o dell’ancor più fosco Riccardo III (1592)5 indicano semplicemente la situazione storica in cui lo Stato (moderno) era ancora fluido, per cui il monopolio della forza era segnato – prima di riuscire a consolidarsi storicamente – da assassinii d’ogni genere. Pure nei Promessi sposi (1827) di Manzoni6, il fatto che lo Stato sotto il dominio spagnolo convivesse con il potere di nobilotti con loro guardia armata (i “bravi”), ci fa vedere una vita collettiva in cui lo Stato moderno “vero” tardava ad affermarsi. Anche nell’Italia contemporanea, il fatto che ci siano alcune regioni in cui lo Stato non ha il monopolio della forza e ha poca “personalità giuridica”, tanto che deve contenderli con associazioni illegali e violente di tipo privato come camorra, drangheta o mafia è un dato molto grave di premodernità dello Stato stesso, o è comunque una grave contraddizione rispetto allo Stato in senso moderno. E non a caso questo è poi un forte limite per lo sviluppo delle regioni in cui ciò sia accaduto o accada.

Stato moderno e economia

Un secondo nodo di problemi concerne il rapporto tra Stato ed economia, sia in termini di filosofia della storia che storici in senso stretto. Su ciò c’è una forte divergenza tra economisti classici liberali, e comunisti, da un lato (dal quasi liberista liberale Adam Smith a Marx e a tutto il marxismo), e sostenitori di un qualche primato del politico, o dello Stato (da Machiavelli ai teorici della ragion di Stato, e poi a Hegel, ed a tutti quelli che ritengano che la storia sia incentrata sul conflitto tra gli Stati, o sul potere di decisione politica, da destra e da sinistra, come Hobbes e Spinoza nel XVII secolo, o de Maistre tra XVIII e XIX secolo, o appunto Hegel nel XIX secolo o Meinecke o Carl Schmitt o Gramsci7 nel secolo XX). Dico subito che a poco a poco, dopo un buon quarto di secolo di marxismo, mi sono persuaso che i primi abbiano avuto torto e i secondi ragione. L’idea socialista – la prospettiva di un mondo senza sfruttamento, senza autoritarismo e senza inquinamento – per me resta fondamentale; ma il primato dell’economia sulla politica nella storia (materialismo storico), non mi persuade più8. L’idea dell’Adam Smith di Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776) sull’economia – per lui privatistica – che si autoregola come se una “mano invisibile” la guidi9; o dell’economia che determina la politica, come ha ritenuto il marxismo (almeno “in ultima istanza”), non mi convince. Quasi sempre lo Stato moderno ha sì lasciato l’economia ai privati, ma perché questi la fanno funzionare meglio; ma nel grande gioco sociale le norme – dettate pure ai padroni dei mezzi di produzione – sono sempre calate dallo Stato. Ritengo che tra i due poli dello Stato e dell’economia quello che dirige l’orchestra sia lo Stato (che per Marx invece era – al pari dell’Idea – “sovrastruttura”, e non “struttura” della storia: sicché nella triade in cui l’idealista Hegel vedeva espressa l’eticità collettiva – famiglia, società civile e Stato (in cui società civile stava già per economia) – l’asso piglia tutto, secondo Marx, sarebbe stato la società civile (e non lo Stato, come appunto in Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel, del 182110). La chiave di volta, in altre parole, per me è la politica, che nella storia moderna vuol dire “lo Stato” (o Stato “moderno”).

Lo Stato non è affatto un dio in terra

Sia ben chiaro, non penso affatto che niente debba essere contro lo Stato e tutto debba essere nello Stato e per lo Stato, come per il neohegeliano fascista Giovanni Gentile (che aveva scritto la parte Dottrina del fascismo, della voce Fascismo, firmata tutta quanta da Mussolini, nell’Enciclopedia Treccani nel 1932)11. Per me, infatti – contro Gentile, che pure era un grande filosofo e un uomo stimabile, e contro il fascismo, e pure contro il grande Hegel – lo Stato è solo “una parte” della totalità sociale, e ha da essere pure diviso all’interno in poteri separati e bilanciati l’un l’altro (per non ingoiare, con tragica bulimia, tutto e tutti). Anzi, ritengo persino che lo Stato, ogni Stato, sia un’entità abbastanza pericolosa e spesso “deviante” (cattivello per natura), tanto che se non fosse per la “povera gente” sarei portato a dire che di Stato meno ce n’è e meglio è. Condivido titolo, e tesi, di un bel libro di Gerhard Ritter: Il volto demoniaco del potere.12 Ma ciononostante ritengo che lo Stato sia una specie di “condicio sine qua non” dello sviluppo complessivo: una sorta di precondizione per la buona salute dell’insieme; anche se a mio parere lo Stato, ogni Stato – se preso in dosi eccessive – può pure diventare una medicina che accoppa il malato (come i teorici o fedeli del totalitarismo, nero o rosso, non riescono mai a intendere). Tuttavia è vero che è stato quel che è accaduto nella società civile, nell’economia, a far emergere a un certo punto lo Stato “moderno” (monopolio della forza, in nome della legge) che nell’Antichità e in tanta parte del Medioevo non c’era stato. In sostanza l’economia non ha dominato né domina lo Stato, ma ha creato le condizioni perché “lui”, come Stato moderno, nascesse (e nasca), e dominasse (e domini). Del resto anche certi esseri simili agli scimpanzé hanno reso possibile l’emergere dell’homo sapiens, che però travalica poi ogni scimmia o bestia al mondo.

Stato moderno e Capitale

Qui scatta il fenomeno che ha indotto Marx e il marxismo a chiamare lo Stato, che noi normalmente diciamo “moderno”, “borghese” (lo Stato “guardiano” della legalità, che fa apparire l’interesse della classe dominante nell’economia – che sotto il capitalismo è la borghesia – come qualcosa di oggettivo, mentre lo Stato “sarebbe” solo la macchina burocratico militare e poliziesca custode degli interessi interni e internazionali dei “padroni del vapore”). Cosa sia il capitalismo è molto complesso da dire in modo esaustivo. Comunque in esso c’è sempre – in modo assolutamente prevalente – proprietà privata dei mezzi di produzione, libera concorrenza delle merci sul mercato e lavoro prevalentemente salariato o dipendente, cioè ridotto esso stesso a merce che si compra e vende sul “libero” mercato. In tale assetto fare più soldi che si può, cioè fare più profitto diventa il fine. Marx dirà, per tradurre ciò in simboli, nel Capitale (nel 1867 e volumi postumi sino al 1905) che l’economia reale col capitalismo non è più MDM, Merce-Denaro-Merce, in cui poco cambia nella quantità di beni prodotti di generazione in generazione, anche se una minoranza gode e una maggioranza soffre, ma Denaro-Merce-Denaro (DMD’), ossia incremento continuo del Denaro investito13, in cui la seconda D (o D’), è maggiore della prima; e per ciò – essendo il denaro un equivalente simbolico dei beni – sviluppo all’infinito (sempre più denaro, sempre più ricchezza). Il profitto – volgarmente il “far più soldi” – nel capitalismo è per ciò la molla di tutto, sicché la crescita è illimitata. Quest’espansione del “capitale”, e quindi delle merci – costi quel che costi – è la passione dei liberi investitori, “borghesi”: benedizione e pure catastrofe del genere umano. Nessuno ha mai prodotto più e meglio del capitalismo, ma nessuno ha mai prodotto effetti così catastrofici. Ecco comunque emergere, nel nostro ragionamento, la “borghesia”, che con tutte le sue miserie è sempre “en marche”, come nel finale dello splendido film di Buñuel Il fascino discreto della borghesia (1972).

Ma questa borghesia – come tutti quanti – può svilupparsi – ritengo io – solo all’ombra dello Stato. Si può pure dire che lo Stato sia la sua “longa manus”, “il cane della casa” e non “il padrone della casa”, come affermavano, con indimenticabile metafora, Marx e Engels, contro l’anarchico individualista Max Stirner, in una delle parti più belle dell’Ideologia tedesca (1846, sebbene edito postumo nel 1930).14 Ma lo Stato viene prima e conta di più, sicché il padronato – ritengo io – è “il fattore” della fattoria e lo Stato è il suo padrone. Lo Stato è l’anello fondamentale della catena sociale, tanto che ove manchi o venga a mancare non c’è, o si blocca, ogni sviluppo. Infatti con oro, diamanti, materie prime e spesso petrolio, senza Stato stabile molti paesi africani non possono far niente.

Lo Stato assolutista

Non stupisce che per un periodo abbastanza lungo la forma dello Stato moderno sia stata assolutistica. Il suo grande teorico fu il francese Jean Bodin, il quale nel 1576, in Sei libri sullo Stato, diceva che la base dello Stato è la “sovranità”: il potere del re capo supremo, che può e deve essere perpetuo e soprattutto “indivisibile”, perché dividerlo sarebbe come fare a pezzi la nave su cui si viaggia, e far morire lo Stato stesso, provocando lutti e rovine (la “guerra civile”): anche se “il sovrano” può decidere – nel variare delle circostanze – di governare in prima persona (governo monarchico) o tramite nobili (governo aristocratico) o con cittadini d’ogni ceto (governo democratico), ma sempre dando deleghe revocabili in ogni momento. Il punto chiave per Bodin non era neanche il re, ma che l’organo supremo dello Stato avesse un potere incondizionato. Infatti nella Repubblica di Venezia comandava un Senato nobiliare, e andava benissimo, ma avendo tutto per sé ogni potere (la “sovranità”)15.

In sostanza lo Stato moderno, mentre si affermava, non tollerava limitazioni.

Stato moderno e politica economica

Lo Stato moderno nascente era sempre protezionista; e si potrebbe sostenere che è tale pure lo Stato del Welfare State (anche se nell’era della globalizzazione si è dovuto ridurre il protezionismo al minimo; ma con Trump questo risorge, non per caso). La prima politica economica dello Stato moderno fu il mercantilismo, che praticamente sosteneva l’economia del proprio paese a scapito di quella altrui per rafforzare lo Stato proprio (ma pure la borghesia, i cui buoni affari rafforzavano lo Stato rafforzando il consenso dei cittadini). Su ciò dice cose importanti, anche in economia, già il primo grande teorico della ragion di Stato, il piemontese Giovanni Botero, alla fine del XVI secolo (1589 e infine 1598)16. Lo Stato moderno, ad esempio inglese, talora contro la concorrenza sosterrà pure la pirateria. Il capitalismo mercantile, ma anche il mercantilismo dello Stato, operavano così. Più oltre, a partire dalla rivoluzione industriale della metà del XVIII secolo (prima in Inghilterra, poi in Francia e via via in tutta l’Europa occidentale), il capitalismo si farà industriale. Dopo la spoletta meccanica, il telaio meccanico, la macchina a vapore, base delle decisive ferrovie, e l’economia prima tessile, arriveranno le grandi fabbriche, con eserciti di operai miseramente salariati e eserciti di disoccupati, e la grande miseria urbana, con rovina di innumerevoli artigiani e liberi contadini, ed enorme sviluppo. Più oltre arriverà, dalla metà dell’Ottocento, in un contesto più statalista e tedesco, la rivoluzione dell’acciaio; e ora arriva la rivoluzione informatica, che segna e segnerà sviluppi sin qui mai visti, ora solo agli inizi17.

Ma torniamo all’epoca prevalsa sino alla metà del XVII secolo e, Inghilterra a parte, sino alla Rivoluzione francese del 1789.

Dallo Stato assoluto allo Stato “liberale”

Il modello del moderno Stato assoluto sincronizzato con la “propria” borghesia agraria o commerciale o manifatturiera, aveva due pesi morti: da un lato l’assolutismo, anche per ragioni storiche, era legato -essendo sorto e vivendo all’ombra delle monarche quasi ovunque al potere – ai privilegi della nobiltà e dell’alto clero (privilegi che gli uomini d’affari – anche se i nobili in certi paesi come l’Inghilterra seppero imborghesirsi, cioè farsi imprenditori – ritenevano sempre più duri da “pagare”); dall’altro si sviluppò via via un individualismo sempre più grande, frutto da un lato del privatismo proprio dell’economia di mercato, e dall’altro, dal 1517 in poi – in un crescendo che va sino alla rivoluzione di Cromwell alla metà del 1600 – dalla rivoluzione spirituale protestante, che rende ciascuno libero di interpretare la propria Bibbia, negando l’esclusiva al corpo sacerdotale e alla sua “tradizione” in materia di dottrina e remissione dei peccati (del cattolicesimo), e in sostanza estende massimamente l’idea della libertà di coscienza personale18. L’individualismo, vuoi economico e vuoi religioso, pone il problema del limitare lo strapotere statale, strapotere troppo costoso per i produttori, stanchi di mantenere nobili e alto clero, e troppo fastidioso per il mondo dei singoli in reciproca competizione, desiderosi di non essere più sovrastati da un’autorità monarchica “senza limiti”, oltre a tutto attorniata da tutto un ceto, nobilmente ammantato o “tonacato”, di mantenuti dai produttori della ricchezza.

In base a tale spinta – individualista economica e alla libera coscienza del singolo – nacque non la democrazia dei moderni, ma il liberalismo, che fu soprattutto, e a lungo, istanza di “libertà degli individui” non più nello Stato e per lo Stato, ma “dallo” Stato. Il processo sorge prima nel Paese guida del moderno capitalismo, l’Inghilterra, che è il primo a decapitare il re, nel 1649, con i Puritani di Cromwell19. Poi i sovrani Stuart, al decesso di Oliver Cromwell, son fatti tornare, ma cercano di reintrodurre l’assolutismo ritenuto filocattolico. Dopo di che accade la “gloriosa rivoluzione” – semipacifica – del 1689, che toglie al re il potere legislativo (tra l’altro sostituendo il re Stuart, “legittimo”, col genero olandese, Guglielmo d’Orange), pur mantenendo il re (o la regina), a lungo, a capo del potere esecutivo (sempre regio, per secoli direttamente). Comincia comunque a filtrare la teoria della divisione dei poteri, fondamento istituzionale del liberalismo.

Intanto anche la rivoluzione scientifica del 1600, e su quell’onda l’illuminismo del 1700, danno a tutto ciò una formidabile spinta. Per la verità a lungo – Inghilterra a parte – nel XVIII secolo si ha il dispotismo illuminato, ossia un tentativo di autoriforma dell’assolutismo dall’interno20. Già in quel contesto dispotico riformista si ha una prima importante separazione dei poteri in due: il potere legislativo ed esecutivo restano nelle mani del sovrano, ma il potere giudiziario si autonomizza e umanizza (è milanese il gigante del diritto, Cesare Beccaria, che all’ombra dell’assolutismo illuminato asburgico nel 1764 pubblica il suo decisivo Dei delitti e delle pene, con la sua lotta contro la pena di morte e il suo principio della presunzione non già di colpevolezza dell’accusato, che in tempi anteriori veniva “fatto confessare” torturandolo, ma “di innocenza”, per cui è l’accusa e non l’accusato a dover provare la colpevolezza)21.

L’idea “liberale” da Montesquieu alla Rivoluzione francese

Nel clima dell’illuminismo si ha la prima teoria veramente moderna, e ormai totalmente convincente, della divisione dei poteri: quella dello Spirito delle leggi (1748) di Montesquieu. Lì c’è già tutto. Non solo tutto è detto perduto se il potere esecutivo (governativo) inghiotte gli altri due (legislativo e giudiziario), ma persino se sia il potere giudiziario a prevaricare su quello legislativo ed esecutivo (Libro XI, cap. VI). La cosa formidabile è che queste idee formano i padri fondatori della Repubblica americana, gli autori della straordinaria Costituzione di Filadelfia del settembre 1787, come si vede in un’opera di tre autori, in cui però nella prima edizione compariva solo il curatore, Alexander Hamilton: il Federalist (1788). Lì si ha non solo la più moderna teoria della divisione dei poteri (e in America dello Stato pluricefalo, federale), ma anche del loro necessario reciproco bilanciamento, che postula, nella distinzione, anche talune difese, e per ciò punti di condizionamento di ciascun potere sugli altri due. Chi legge quei formidabili saggi, specie quelli di James Madison, si accorge che sono esplicitamente imbevuti delle idee di Montesqueu (ma pure del Locke del Secondo trattato sul governo, del 1688).22 E questo vale pure per la costituzione francese del 1791. In tali elaborazioni non c’è ancora la parola “liberale”, che nasce solo all’inizio del XIX secolo, ma c’è già il liberalismo.

L’incontro-scontro tra liberalismo e democrazia

Tuttavia la linea dominante, liberale, trova pure un potente contraltare, che schematicamente possiamo far procedere da Rousseau, che anticipa Marx (non nella filosofia, che nel ginevrino era molto “coscienzialista”, e quindi idealista, ma nella teoria politica).

Ma perché non ci si ferma al liberalismo, con il suo apologizzare il libero mercato, l’individualismo privatistico, la laicità dello Stato, la libertà delle opinioni e soprattutto la divisione e bilanciamento tra i tre poteri fondamentali dello Stato? (Mi sembrano questi i tratti di fondo del liberalismo, si chiami o meno subito così).

C’è una ragione sociale e ce n’è una culturale (anche se nella storia tali piani sono sempre intrecciati, e qui li distinguo solo per ragioni espositive). La concorrenza di tutti con tutti, anche con uno Stato a poteri divisi, vedeva (e vede) troppi perdenti: non solo tra forze del passato nobiliare o clericale (prima ridimensionate e poi sconfitte), ma soprattutto nell’immensa massa di povera gente, spesso rovinata da un’economia di mercato più o meno allo stato puro. Quanto al piano culturale, si può sempre vedere che ogni grande movimento innovatore, nella storia, ha una sua ala estrema. Talora accade nei singoli grandi pensatori stessi (nella loro evoluzione), e spesso accade in un’ala più radicale della cultura epocale. Così Montesqueu, nel 1734, quattordici anni prima del suo “liberale” Spirito delle leggi, aveva scritto Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e della loro decadenza, in cui faceva l’apologia della Repubblica romana antica – poi grande mito dei rivoluzionari francesi – in cui era stato vasto l’autogoverno del popolo, che eleggeva, accanto all’aristocratico Senato, tante magistrature decisive come i tribuni (portavoce della plebe in Senato), i massimi capi militari (i consoli), ed esprimeva una virtù civica e militare di tipo alto e diffuso, base della Repubblica stessa. In sostanza, pur considerando l’esistenza di repubbliche aristocratiche come Venezia, “repubblica” era per Montesquieu, lì e successivamente, soprattutto sinonimo di democrazia, e democrazia di autogoverno, in cui il popolo elegge pure le figure decisive a livello del potere esecutivo.23 Ma nello Spirito delle leggi (1748) considerava pure “dispotismo” e “monarchia” (temperata, operante secondo legge, ormai preferita; anche se cercava di valutare le forme di Stato da scienziato sociale).

Rousseau radicalizza tutto ciò. Intanto oppone moderno ed arcaico, con un atteggiamento che – facendo una forzatura deliberata – può ricordare quello antimoderno, e nostalgico del premoderno, di Pasolini. Così nel Discorso sulle scienze e le arti (1750) dice che il progresso delle scienze e delle arti, che era quanto di più sacro ci fosse per gli illuministi, aveva non già migliorato, ma peggiorato l’uomo (e così l’autore poneva alcune basi per il mito del “buon selvaggio”, o ne era condizionato). Quattro anni dopo, nel Discorso sull’origine e il fondamento della disuguaglianza tra gli uomini (1754), Rousseau sosterrà che è stata la proprietà privata – la siepe tra campo e campo – a generare la disuguaglianza tra gli uomini. La cosa irriterà Voltaire, che lo canzonerà come uno che avesse voluto farci tornare a gattonare a quattro zampe, perché il modello di una monarchia legittima e basata su cittadini intraprendenti, come in Inghilterra24, era il suo ideale massimo, che in Francia o Prussia egli giocava tutto all’interno di un dispotismo illuminato da riformare gradualmente.

Rousseau espresse poi le sue idee politiche mature nel Contratto sociale (1762), in cui criticava per la prima volta il modello che poi si dirà liberale inglese come libertà apparente, dicendo che il “popolo inglese crede di essere libero, ma si sbaglia di grosso; lo è soltanto durante l’elezione dei membri del parlamento; appena questi sono eletti, esso torna schiavo e non è più niente”. Egli teorizza un assetto, modellato su esempi di governo tratti dagli antichi e però attualizzati, in cui il popolo stesso fa le leggi, con poca cura per la “liberale”, lockiana e inglese, montesquieuviana divisione dei poteri. In pratica opponeva per la prima volta democrazia delegata e democrazia diretta.25 Su ciò ho anche un piccolo aneddoto da raccontare. Nei miei primi anni di docenza universitaria, quando lavoravo come contrattista presso la cattedra di “Storia delle dottrine politiche” di Gian Mario Bravo, tra il 1974 e il 1978, usavamo un manuale universitario di Jacques Chevallier, Le grandi opere del pensiero politico (1949 e 1966). Allora su Rousseau non sapevo molto più di quel che ci fosse lì, perché i testi richiamati del ginevrino li avevo ben compulsati, ma non ancora meditati a fondo. Di lì emergeva un Rousseau tutto legato all’ideale della democrazia diretta (il popolo legislatore) e che, se questa fosse stata impraticabile, avrebbe preferito il dispotismo. In pratica per Rousseau avrebbero dovuto giocarsela insieme, in relazione di aut aut, potere assoluto della maggioranza o assolutismo regio, democrazia nel senso più etimologico di potere del popolo o dispotismo. C’era un manager alessandrino che era mio amico che venne a fare l’esame, dopo aver sentito le mie spiegazioni. Egli, su quella base, disse all’esame che Rousseau era un “povero illuso”, perché credere a un popolo che si autogoverna a quel modo a lui pareva un’ingenuità senza pari. Anni dopo approfondii la cosa e compresi che c’era qualcosa di importante che mi era sfuggito. Ma la cosa è complessa tanto che, pensando a quanto è facile slittare dalla democrazia diretta al dispotismo, ci saranno importanti studiosi come J. Talmon, in Le origini della democrazia totalitaria (1952), i quali sosterranno che Rousseau è il padre del totalitarismo26. In realtà Rousseau in sostanza democratizzava “semplicemente” – si fa per dire – il ragionamento di Bodin, che già ho richiamato. Egli identifica il detentore della “sovranità” dello Stato (il “sovrano”), che ha il monopolio del potere e della legge (impersonando lo Stato), non con il re (come Bodin), ma con il popolo (che chiama molto spesso “la nazione”). Questo popolo sovrano fa (dovrebbe fare) le leggi, anche se può dare deleghe revocabili, che si esprimono nella diversità delle forme di governo (lo Stato è del sovrano, ma questo fa e disfa i governi, come in Bodin: solo che ora il sovrano è “la nation”, “il popolo”). Il popolo fa le leggi, nel senso che esse possono sì essere proposte persino da un singolo (il “grande legislatore”), ma valgono solo se il popolo stesso le voti direttamente. In pratica Rousseau pensava ad uno Stato piccolo e comunque con un piccolo numero di leggi votate per referendum. Il modello non è lontano da quello della nostra Costituzione, in cui “la sovranità appartiene al popolo”, che “la esercita” tramite sue magistrature elettive. Solo che nell’idealizzazione rousseauiana il popolo deve sanzionare col voto tutte le leggi. Inoltre in Rousseau c’era scarsa cura, pericolosamente, per la sempre decisiva divisione dei poteri. Oltre a tutto Rousseau teorizzava non solo il fatto che la maggioranza degli elettori deve vincere, ma che la minoranza, dopo tale espressione, deve considerare “sbagliata” l’opinione che aveva espresso. In modo esplicito le deliberazioni o leggi più votate dai cittadini sono assunte come “volontà generale” del sovrano (il popolo). Lì nasce già il ben noto “leggicentrismo” francese. In quanto sia espressione della “volontà generale” dei cittadini, la legge è ritenuta sacra.

Dalla Rivoluzione francese al Liberalismo contemporaneo

Il tutto sbocca poi nella Rivoluzione francese, dapprima abbastanza montesquieviana, ma che dopo il processo e decapitazione del re (gennaio 1793), si fa temporaneamente giacobina. La costituzione del 1791 è generalmente considerata liberale, ma quella giacobina del 1793 a mio parere corrisponde in tutto e per tutto alle idee di Rousseau. Robespierre stesso era imbevuto sia delle idee di Montesquieu che di Rousseau. Ad esempio Montesquieu aveva sostenuto che c’erano solo tre forme di governo: Repubblica, monarchia e dispotismo. La Repubblica – lo si è visto – per lui era soprattutto sinonimo di democrazia, e questa di autogoverno del popolo. Ogni forma di governo si reggerebbe – secondo Montesquieu – su una mentalità collettiva (“spirito” del sistema). La Repubblica si reggerebbe su un diffuso senso della moralità e rispetto della legge, che egli chiamava “virtù” (la virtù civica, come negli antichi romani), Se cade la virtù del cittadino come atteggiamento “normale” e diffuso, si cade nel Dispotismo (ossia nel potere arbitrario e tirannico). Robespierre era per ciò ossessionato da quella che oggi chiameremmo questione morale, che pensava di poter imporre a tutti i ceti (ricchi e poveri). Alla fine avrebbe persino voluto fondare una nuova religione naturalistica del cittadino (così da consolidare con la fede in un Ente Supremo e nell’immortalità dell’anima la necessaria moralità pubblica), ma stavano per arrestarlo, sicché i deputati gli risero in faccia. Oltre a tutto, liquidato il potere dei nobili e dell’alto clero, stava emergendo lo spirito del capitalismo moderno nascente: il potere, anche edonistico ed egoistico, dei vecchi e soprattutto nuovi ricchi (borghesi in senso forte). Passato il pericolo d’invasione straniera, Robespierre fu infatti travolto e “decollato” con tutti i giacobini di un qualche rilievo.

Sembrava trionfare il “liberalismo” dei nuovi ricchi (Termidoro), ma poi arrivò il nuovo dispotismo dell’ex giacobino Napoleone Bonaparte, che voleva fare un dispotismo modernizzatore, nella sostanza borghese, sulla punta delle baionette dell’Armata Nazionale dei cittadini sorta dalla Rivoluzione, portando il nuovo Codice civile privatistico, che era stato il suo opus magnum durevole, sino in Russia (purtroppo non ci riuscì). Ma alla fine notoriamente nel 1815 fu definitivamente sconfitto. Era stato sostenuto dai proprietari moderni (“borghesi”, agrari professionali e industriali, professionisti qualificati) più o meno dappertutto, mentre il popolino, che i nuovi rapporti privatistici lasciavano spesso privo di antiche premoderne difese corporative, era spesso ostile. Croce ricorderà i napoletani che al tempo delle repubbliche giacobine o nuovi regni filofrancesi canticchiavano: “Libertà, uguaglianza, e zum zum mi fa la panza”. 27

Il crollo di Napoleone riattualizzò e diede anzi la vera e aggiornata teoria politica del liberalismo, che si opponeva tanto alla risorgente reazione monarchico nobiliare e clericale, pretesa “Restaurazione”, che agli ideali democratici e pauperisti attribuiti a Rousseau e ai giacobini. In pratica nasceva un vero Centro tra le estreme, che stranamente è stato trascurato nella grande riflessione dicotomica (sinistra e destra come antinomia tra uguaglianza e disuguaglianza) proposta nel più famoso saggio del nostro comune maestro di libertà, Norberto Bobbio28.

C’è un testo di questo liberalismo che io considero importante come lo è stato il Manifesto del partito comunista (1848) di Marx e Engels per socialismo e comunismo: La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni (1819) di Benjamin Constant. L’antichismo, che era stato il grande mito da contrapporre a un assolutismo e clericalismo tradizionali che non piacevano, era stigmatizzato genialmente: non già centrando l’attenzione su dati datati e ovvi (la schiavitù, eccetera), ma anche preso nelle sue alte espressioni. La libertà dell’uomo antico – poi ripresa, per Constant negativamente, da Rousseau e dai giacobini – era stata la libertà dell’”uomo pubblico”, ossia del cittadino come membro della sua città o anche repubblica. Se la volontà generale dissente, in quel contesto antico o “antichistico”, il singolo può essere facilmente ammazzato o esiliato. Perciò, secondo Constant, l’uomo antico era libero come cittadino, ma schiavo come uomo privato (in balia della cittadinanza o collettivo). Per contro la libertà dei moderni è libertà “dallo Stato”. Sono libero – nel Moderno, nel nostro mondo – perché, o nella misura in cui, mi si lascia usare e abusare dei miei beni, e delle mie opinioni, e guai a chi me li, e me le, tocca. Questa è la libertà dei moderni, che richiede uno Stato diviso al suo interno, tanto che Constant, nel Corso di politica costituzionale (1837), avrebbe voluto che i poteri dello Stato fossero divisi non solo in tre (legislativo esecutivo e giudiziario), ma persino in cinque: potere “di conservazione” (re); potere “esecutivo” (governo, nominato dal re); potere legislativo bicamerale, frutto di suffragio ristretto, con una Camera elettiva dei deputati espressa da cittadini paganti un certo livello di tasse, ed una ereditaria (il Senato, tipo Camera dei lord, in cui il sovrano sostituisce i maggiorenti quando muoiono); e il potere giudiziario, del tutto indipendente. Era un modello liberale, ma niente affatto democratico (Constant era per un suffragio ristretto e fortemente censitario)29.

Tuttavia il liberalismo, nato all’ombra dell’economia privatistica di mercato e contro i due o forse tre dispotismi (quello nobiliare-clericale d’ancien régime, quello “rivoluzionario” giacobino e quello conservatore borghese napoleonico), non poté a lungo restare separato dalla democrazia, e neanche disinteressarsi della questione sociale in termini d’interventismo statale “limitato”. Ma quest’evoluzione democratica del liberalismo, vista luminosamente da Tocqueville per l’America e per il mondo in La democrazia in America (I, 1835 e II, 1840)30, in Europa occidentale sarà soprattutto storia procedente dal 1848 ai giorni nostri. Anzi, i giorni nostri, come si vedrà, sono drammatici perché la lunga storia dal 1848 al 2000 circa sembra finita. L’Italia, nel bene e nel male, è sempre un bel laboratorio delle grandi innovazioni storiche. Infatti credo che oggi essa sia – come altri paesi, ma più nettamente – in profonda, anche se non irrimediabile, decadenza. Ma di ciò – e di molto altro – parlerò la prossima volta.

(Segue)

1 Rinvio in particolare ai seguenti miei libri: Stato e libertà. Questioni di storia del pensiero politico, Torino, Tirrenia Stampatori, 1992; Coscienza e politica nella storia. Le motivazioni dell’azione collettiva nel pensiero politico contemporaneo. Dal XIX al XX secolo, Torino, Giappichelli, 2003; I concetti politici nella storia. Dalle origini al XXI secolo, Giappichelli, 2008 (in cui segnalo in particolare le parti su “Ragioni profonde e stato degli ‘ismi’ tradizionali”, “La terra di nessuno della globalizzazione e le nuove tendenze emergenti” e “Tendenze emergenti nel XXI secolo”, pp. 181-360.

2 In “Città Futura on-line”, 6 aprile 2019.

3 Si vedano: PLATONE, Opere complete, a cura di G. Giannantoni, Bari, Laterza, 1967, due volumi. Con particolare riferimento a: La Repubblica e Le leggi; ARISTOTELE, Politica, a cura di V. costanzi, Laterza, 1948; M. T. CICERONE, Opere politiche e filosofiche (con testo latino a fronte): I. Lo Stato, Le leggi, I doveri, a cura di L. Ferrero – M. Zorzetti, Torino, UTET, 1974; POLIBIO, Storie, Introduzione e cura di G. Zalasco, Milano, Mondadori, 1988.

4 M. N. ROTHBARD, L’etica della libertà, a cura di L. M. Bassani, Macerata, Liberilibri, 1996.

5 W. SHAKESPEARE, Le tragedie. “Romeo e Giulietta”, “Macbeth” …, con testo inglese a fronte, a cura di G. Melchiori, Milano, I Meridiani-Mondadori, 2005; I drammi storici, 2. … “Riccardo III”, ivi, 1989.

6 Biblioteca Universale Rizzoli, 2004.

7 Naturalmente in Gramsci, che si diceva e credeva marxista, il “primato del politico” non era così chiaramente visibile o chiaro.

8 Per tutti questi riferimenti rinvio ai miei libri citati. Per la discussione su materialismo storico si vedano, nel mio Coscienza e politica nella storia, cit., i capitoli: “La critica marxista della civiltà capitalistica e il superamento del materialismo storico” e “Idee per una concezione psicologica della storia”, pp. 253-298.

9 A cura di A. Roncaglia, Roma, Isedi, 1995.

10 Si veda l’ed. dell’opera di Hegel a cura di G. Marini, Laterza, 1987. Nel mio: Coscienza e politica nella storia, cit. discuto specificamente del libro alle pagg. 95-103-

11 B. MUSSOLINI, Fascismo, in: “Enciclopedia italiana Treccani”, Roma, 1932, vol. XIV, pp. 847-857.

12 Bologna, Il Mulino, 1958.

13 La miglior raccolta tematica degli scritti di Marx e Engels, e altri sullo Stato è: I marxisti e lo Stato. Dai classici ai contemporanei, a cura di D. Zolo, Il Saggiatore, Milano, 1977. Molto utile è pure: K. MARX – F. ENGELS, Il partito e l’Internazionale, a cura di P. Togliatti, Roma, Rinascita, 1948. Si veda inoltre: K, MARX, Il capitale (1867), a cura di D. Cantimori, Editori Riuniti, 1962. Mi sono occupato più volte di Hegel e Marx. Per ora la mia trattazione in cui mi riconosco di più sono i capitoli miei Coscienza e Stato in Hegel e : Karl Marx: il filosofo, il politico e l’economista, in: L. A, BASSANI – S. B. GALLI – F. LIVORSI, “Da Platone a Rawls. Lineamenti di storia del pensiero politico”, Giappichelli, 2012, pp. 259-302.

14 K. MARX – F. ENGELS, L’ideologia tedesca, Critica della nuova filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, Bruno Bauer, Stirner e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti (1846, ma 1930), a cura di F. Codino, Roma, Editori Riuniti, 1958, specie pp. 338-339.

15 J. BODIN, I sei libri dello Stato (1576), tr, di M. Isnardi Parente, a cura della stessa e di D. Quaglioni, UTET, I, 1988 e II, 1997.

16 G. BOTERO, Della ragion di stato (1598), a cura di L. Firpo, Torino, UTET, 1948.

17 Qui la letteratura è immensa. A titolo meramente orientativo rinvio a: R. THOMPSON, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra (1964), Mondadori, 1969; K, POLANYI, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca (1955), Einaudi, 1981; J. SCHUMPETER, Capitalismo, socialismo e democrazia, Milano, Comunità, 1954; M. DOBB, Problemi di storia del capitalismo (1964), Roma, Editori Riuniti, 1971.

18 L’opera più classica sulla Riforma è: R. H. BAINTON, La Riforma protestante (1956), Torino, Einaudi, 1958.

19 Per la rivoluzione puritana è sempre importante: C. HILL, Il mondo alla rovescia. Idee e movimenti rivoluzionari nell’Inghilterra del Seicento (1972), Einaudi, 1981.

20 Rinvio ai miei libri citati. Ma per un quadro complessivo convincente si veda: P. CASINI, Scienza, utopia e progresso. Profilo dell’Illuminismo, Laterza, 1994.

21 L’opera di Beccaria compare a cura di Franco Venturi a Torino presso Einaudi nel 1965.

22 J. LOCKE, Due trattati sul governo (1689), a cura di L. Pareyson, UTET, 1948; (A. HAMILTON, J. MADISON, J. JAY), Il Federalista (1788), a cura di A, Hamilton, con Introduzione di L. L. Levi, M. D’Addio, G. Negri, Il Mulino, 1997.

23 MONTESQUIEU, Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e della loro decadenza ( 1734 ), a cura di M. Mori, Torino, Einaudi, 1980; Lo spirito delle leggi (1748), tr. di B. Boffitto Serra e a cura di R. Derathé, BUR, 1989, due volumi.

24 VOLTAIRE, Lettere inglesi, a cura di P. Alatri, Editori riuniti, 1971.

25 J.-J. ROUSSEAU, Scritti politici, a cura di P. Alatri, UTET, 1970. Comprendono in forma integrale tutti i testi citati.

26 Il Mulino, 1967,

27 Sulla Rivoluzione francese è sempre da vedere: A. MATHIEZ . G. LEFEBVRE, La Rivoluzione francese, Torino, Einaudi, 1960, due volumi, ma a confronto, nell’immensa letteratura in proposito, con: F. FURET – M. OZOUF (a cura), Dizionario critico della Rivoluzione francese (1988 e 1992), Milano, Bompiani, I, 1988 e II, 1994, che per temi affronta tutti i grandi nodi problematici. Per il tipo di analisi che vengo qui svolgendo è importante: A, SAITTA (a cura), Costituenti e costituzioni nella Francia moderna, Einaudi, 1952. Si veda pure: G. LEFEBVRE, Napoleone, Laterza, 1969.

28 N. BOBBIO, Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, Roma, 1994.

29 B. CONSTANT, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni (1819), a cura di G. Paoletti, Einaudi, 2005; Cours de politique constitutionelle, Bruxelles, Hauman, 1837.

30 Si veda il testo in: A. de TOCQUEVILLE, Scritti politici, a cura di N. Matteucci, UTET, 1969, II.

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