Omero Antonutti e Antonello Falqui: un palcoscenico e un teleschermo perduti …

Due scomparse susseguitesi di poche settimane nel mondo dello spettacolo italiano, quelle dell’attore e del regista, apparentemente distanti e non connesse: i due percorsi personali non si sono mai incrociati. Ma che in realtà presentano un risvolto comune, perché conducono entrambe a riflettere su realtà così qualitativamente intense (nel cinema, nel teatro e nella televisione) di cui si viene rapidamente perdendo tanto la diretta esperienza che la conseguente memoria.

Non stupisca o sembri eccessivo voler rispolverare, per il primo, il titolo di un celebre e rivoluzionario saggio vichiano, La discoverta del vero Omero, per ricordare un grande attore soprattutto di teatro, in un paese e in una temperie in cui non sempre la categoria sembra sortire la riconoscibilità e i riconoscimenti adeguati.

Certo, allo spettatore cinematografico attento e informato (ma che abbia oggi almeno sui 55 anni…) il nome di Antonutti, mancato a 84 nella sua Udine lo scorso 5 novembre, richiamerà alla mente immediatamente i protagonisti, da lui indimenticabilmente incarnati, di Padre padrone dei Taviani (1977) e poco dopo di O’ Megalèxandros di Anghelopulos (1980). Poco importa sia venuto, con quelle due in sé memorabili prestazioni, a trovarsi al centro non dei più riusciti tra i film dei due maestri in quegli anni. Rossellini, inesausto mentore della Palma d’Oro ’77 alla trascrizione tavianea da e su Gavino Ledda, lo aveva del resto diretto personalmente, tre anni prima, nel purtroppo a sua volta non felicissimo Anno uno: vi impersonava, del resto brevemente) un anonimo comunista milanese. Ma nella sessantina di film interpretati in oltre mezzo secolo esatto (Mercato nero dell’amore di Hofbauer e Le piacevoli notti di Crispino e Lucignani sono del ’66; Dalla quercia alla Palma – I 40 anni di Padre padrone di Naitza del 2017) ci sono molti passaggi che decisamente spiccano. Rinviando chi legga ad autodocumentarsi, volendo, ulteriormente in facili approfondimenti, vanno ricordati in primo luogo i successivi momenti, ravvicinati e non, del sodalizio con gli stessi fratelli Taviani: La notte di San Lorenzo, ‘82; Kaos, ’84; Good Morning Babilonia, ’87; Tu ridi, ‘98. Ma c’era già stata la partecipazione a La donna della domenica di Comencini (’75) e sarebbero seguite tra le molte altre, volendosi contenere, almeno quelle centrali con Carpi (Quartetto Basileus, ’81), Villi Hermann (Matlosa, id.; Bankomatt, ‘89), la Berlinguer (Il disertore, ’83), Erice (El Sur, id.), Saura (El Dorado, ’88), Bellocchio (La visione del sabba, id.), Emidio Greco (Una storia semplice, ’91), Olmi (Il segreto del bosco vecchio, ’93; Genesi, ’94), Placido (Un eroe borghese, ’95), Giraldi (La frontiera, ‘96), Virzì (N, 2006), Molaioli (La ragazza del lago, 2007), Spike Lee (Miracolo a Sant’Anna, 2008) e Giordana (Romanzo di una strage, 2012).

Oltre alle voci narranti messe a disposizione di Benigni per La vita è bella e dello stesso Olmi nel Mestiere delle armi. E qui si innesta per contiguità il secondo argomento: il doppiaggio, così giustamente caro, visto che dobbiamo tenercelo e siamo comunque i primi al mondo, al caro Claudio G. Fava, inventore in Liguria del relativo festival. [In una recente filmografia straniera per una pubblicazione locale, mi sono tolto per la prima volta la voglia, ma veniva da lontano, di precisare, accanto alle generalità di ciascun attore e del personaggio interpretato, anche il nome del doppiatore (sia pure, come qui ora, tra parentesi quadre). E’ un elementare adempimento di dovere, che oggi finalmente la dedizione degli appassionati e l’onniscienza fino a prova contraria della rete renderebbero presso che sempre possibile]. Un altro campo in cui Antonutti l’ha fatta letteralmente da padrone (come per i Taviani allora…): facendo ripetutamente parlare italiano, tra gli altri, Christopher Lee e a Robert Duvall, Donald Sutherland e John Hurt, Rutger Hauer (ancora per Olmi, nel magnifico Il villaggio di cartone) e a Max von Sydow, Joe Mantegna e Denis Hopper, Christopher Plummer e Omar Sharif. E anche qui l’elenco potrebbe continuare a lungo, senza contare le altre numerose “voci” narranti per film stranieri e animazione.

Neppure la stessa tv, della quale si dirà maggiormente tra poco a proposito di Falqui, tra il ’70 e il 2008 è stata reciprocamente avara con lui. Si ricordi soltanto, tra il molto, che era Karsky nella bella trascrizione sartriana de Le mani sporche realizzata da Elio Petri (’78); il padre di Verdi nel capolavoro a puntate di Castellani (’82); il protagonista del bel Mio figlio non sa leggere ancora di Giraldi da Pirro (’84); il nonno nel magnifico e ingiustamente dimenticato Cristallo di rocca di Zaccaro (’99). E ancora almeno il Come Quando Fuori Piove di Monicelli (2000).

Ma a modesto avviso di chi scrive è stato soprattutto proprio in teatro che la bravura, anzi la grandezza, appunto del “vero Omero” ha potuto rifulgere in maniera e misura incontrastabili. Omettendo per brevità i pur numerosi apporti iniziali degli anni Cinquanta all’allora Stabile di Trieste (già alle prese da lì anche con Goldoni, Pirandello, Shakespeare, Svevo e Brecht) e quelli conclusivi con l’altro, del Friuli-Venezia Giulia, culminati tre anni fa nel Genius loci di Andrea Collavino voluto da Franco Però. Perché è soprattutto nell’aureo e mai abbastanza rimpianto quindicennio genovese le sue doti con estrema quanto autorevole versatilità hanno trovato abbondante pane per i propri denti. Dei trentuno spettacoli complessivi allestiti da Luigi Squarzina, negli altrettanti anni della di lui rifulgente condirezione, con Ivo Chiesa, dello Stabile locale, Antonutti ha infatti preso parte a ben quattordici. Partendo dall’altro Sartre de Il diavolo e il buon Dio dov’era Karl (1962), per concludere col Rosa Luxemburg dello stesso regista-autore con Vico Faggi (il giudice Alessandro Orengo) in cui si concedeva il lusso di incarnare tanto Lenin che Liebknecht. Per gli stessi, sette anni prima, aveva già impersonato il prefetto dell’epoca, Garroni, in Cinque giorni al porto e, nel medesimo filone di rievocazione critica storico-civile, due più tardi, si sarebbe ripetuto col generale Carboni in 8 settembre, che di nuovo il regista aveva steso con Enzo De Bernart e Ruggero Zangrandi. Le sue origini friulane avevano facilitato anche qui splendide prestazioni nel repertorio goldoniano: Brighella nell’intramontabile I due gemelli veneziani (dal ’63), “sior Mòmolo manganar” nell’irraggiunto Una delle ultime sere di Carnovale (’68), i protagonisti Anzoletto e Canciano rispettivamente de La casa nova e I rusteghi (entrambi nel ’73).

Era in grado di passare imperturbabilmente, nella stessa annata -1966- dalla tragedia (Penteo nelle Baccanti) al vaudeville (Étienne de La pulce nell’orecchio: di questo allestimento una non qualitativamente felicissima copia tv, https://www.youtube.com/watch?v=vj5AwoTvEBs). Poteva essere un sottoproletario nella guerra dei Trent’anni (Eilif, il figlio maggiore della Madre coraggio brechtiana Lina Volonghi, 1970) e addirittura il re Sole nell’”appendice” Vita, amori, autocensura e morte in scena del signor di Molière nostro contemporaneo di Bulgakov -nell’allestimento del Tartufo straniato e contaminato con la nuova traduzione Garboli- l’anno dopo. Sapeva transitare con imperturbabile appropriatezza da Svevo (Copler nella Coscienza di Zeno resa scenica da Kezich, dal ’64) a O’Neill (Oban in Arriva l’uomo del ghiaccio, ’66); da… Diego Fabbri (l’usuraio Bruno de L’avvenimento, ’67) a Shakespeare (Cassio nel Giulio Cesare, ’67) e a Pirandello (uno dei “signori” di Questa sera si recita a soggetto, ’72).

Una volta tanto, sia pure per poco, non è stato necessario attendere la scomparsa di un grande dello spettacolo o dell’arte per rendergli il debito onore. Il bel libro edito due anni fa da Comunicarte a Trieste, intitolato al suo nome per le cure del bravissimo Guido Botteri (purtroppo scomparso invece prima di vederlo stampato!), con una lunga intervista autobiografica all’interessato, e scritti dei Taviani, di Giraldi, Pagni, Savioli e due saggi da par suo di Sergio Germani, gli ha reso il suo. Ne possiamo estrapolare due affermazioni, rispettivamente di Paolo e Vittorio e di Franco Giraldi, atte a ben sintetizzarne i discorsi: «Oggi Omero Antonutti è uno di quei veri attori cinematografici che calcolano con lucidità e acutezza la recitazione, ogni gesto o parola, in rapporto agli obiettivi, ai movimenti della “camera”, alle ipotesi di montaggio che la regia avanza in sede di ripresa. Una cosa noi due amiamo in particolare in Antonutti: la sua camminata, anzi la sua figura intera. Nel suo presentarsi alla “camera”, Omero connota subito il personaggio con pochi tratti radicali. E con l’azzardo dell’estro, della fantasia. Soprattutto per questo, forse, la sua capacità di raccontare attraverso la fisicità del corpo, noi abbiamo voluto e potuto costruire con lui figure tanto diverse». E: «Secondo me gli attori si dividono in due categorie: quelli che quando recitano “sono” e quelli che “fanno”. Ho sempre considerato Omero un attore che sullo schermo è».

La medesima considerazione distintiva tra chi “fa” e chi “è”, parlando invece di registi, si potrebbe estendere proprio ad Antonello Falqui, spentosi a 94 anni il 15 novembre nella sua Roma. Nonostante si fosse ormai da un trentennio ritratto dall’attività spettacolare diretta, la sua opera è davvero annoverabile tra quelle capaci, quasi loro malgrado, di segnare il crinale di un’epoca. Non è neppure qui il caso di affliggere chi legga di un dettaglio di… tv-grafia insieme troppo estesa per essere annoverata e troppo facilmente raggiungibile, su carta e non, per divenire indispensabile qui. Basterà ricordare gli esordi del figlio di uno dei più illustri (e oggi ingiustamente poco valorizzati) tra i critici letterari italiani, Enrico (1901-1974). Dopo la frequenza del Centro Sperimentale di Cinematografia sul finire del decennio Quaranta, superata l’esperienza di aiuto regista (insieme a Umberto Scarpelli e Paolo Heusch; lo scenografo era Tamburi…) col Malaparte della sua opera unica Il Cristo proibito, diviene temporaneamente milanese al principio dei Cinquanta, perché registicamente coinvolto dalla Rai nella tv sperimentale, alcuni anni prima dell’inizio della programmazione regolare pubblica. Iniziata la quale sfonderà in maniera tanto perentoria quanto irreversibile: prima col “Musichiere”, che dal ’58 al ’60 riempie il sabato sera dei bar italiani ancora stracarichi di clientela impossibilitata a permettersi il monoscopio domestico, in misura pari e forse superiore agli antecedenti giovedì sera di “Lascia o raddoppia?”. Contemporaneamente e appena dopo, con la serie delle più smaglianti “Canzonissima”, che abitueranno i connazionali a un week end serale sontuoso, imitando, eguagliando e forse qualcos’altro la tradizione spettacolare americana di Busby Berkeley e del cinema musicale danzato degli anni Trenta-Quaranta. Da quel momento un ulteriore trentennio a cascata, che magari poteva far storcere la bocca a puristi, moralisti e irriducibili di allora -diciamo degli anni aristarchiani- ma che ripassato oggi tra Rai Storia, RayPlay e la rete dà l’impressione di possedere sempre lo scintillìo dell’intramontabile e l’autorevolezza del classico: Vette conseguite, certamente, anche grazie al consiglio e al fiuto dell’inseparabile Guido Sacerdote. E il sodalizio tra il giovane romano del quartiere Prati e l’ex-farmacista di Alba avrebbe regalato la più impeccabile e ricca tv di intrattenimento spettacolare e di varietà -musicale e non solo- che l’Italia mai si sarebbe sognata, e che nessuno ha più saputo ritrovare. Decenni popolati, tra i tantissimi altri, da Delia Scala e da Mina, dalle Kessler e da Zizi Jeanmaire, dai Cetra e da Walter Chiari, da Patty Pravo e da Morandi, e l’elenco così è esiguo e potrebbe continuare a lungo. La sua lezione, come ha efficacemente sintetizzato Aldo Grasso, “resta il più perfetto paradigma di varietà televisivo ‘classico’, la più elegante trasposizione del teatro di rivista nel nuovo mezzo”.

Come ha ricordato a suo tempo uno che di televisione ne ha masticata tanta, Dante Guardamagna, poi “le tv private hanno fatto la concorrenza alla peggiore Rai, non certo alle riviste di Falqui e di Trapani, non certo ai film televisivi nei quali si riteneva di non dover incoraggiare la pigrizia degli spettatori”. Così, alla tv pubblica ma non sempre letargica degli anni democristiani, sarebbe seguita quella “privata” e libera ben altrimenti capace di portare i cervelli all’ammasso. Ed ecco allora le furbate di Berlusconi, Confalonieri e Galliani; l’illusione veltroniana (e felliniana) di contrastare l’”interrompere le emozioni”; il prendere piede prepotentemente “libero” di Mediaset; il mediasettizzarsi progressivo della Rai, e in particolare il… canale5sizzarsi di RaiUno; la legge Mammì e poi il digitale terrestre di Gasparri. E alcune situazioni irresistibilmente tragicomiche, come quella pur transitoria che vide ad esempio la mediasettissima e futura onorevole FI Deborah Bergamini tramutarsi in alta dirigente Rai: insomma tutto quello che sappiamo, fino alla salvinizzazione anche mediatica e social dello stesso Berlusconi, che oggi potrebbe persino apparirci un incauto apprendista stregone mediatico e politico.

Falqui, in qualche misura, era finito per uscire di scena al momento giusto, immediatamente alla vigilia di quel fatale ‘94. Infatti la sua convinzione profonda era rimasta quella che giustamente ancora Grasso ha citato a conclusione della relativa “voce” enciclopedica della Garzantina tv: “Odio tutto ciò che è casuale, fortuitamente lasciato agli eventi, fuori dall’orbita del pensiero. Accanto all’esigenza di accontentare il pubblico nei suoi desideri, ci deve essere anche una volontà di stimolo al buon gusto, a un minimo di senso critico”. Il punto ovviamente è proprio quest’ultimo, e non a caso oggi ci ritroviamo come e dove ci ritroviamo. Falqui era l’esponente ideale di un gusto e di un equilibrio, insomma di una perfezione televisiva oggi perduta: esatto specchio infranto, non sembra di esagerare, di un paese -se non interverrà qualche miracolo, oggi davvero arduo da divinare- altrettanto inesorabilmente perduto.

Nuccio Lodato (“Diari di Cineclub”, 78, dicembre 2019)

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