Osvaldo

I bambini di quel tempo non avevano giocattoli, per lo più se li fabbricavano: aeroplani di carta, cerbottane, fionde per emulare il biblico Davide dal quale trarre ispirazione e orgoglio per la propria mira. Essendo questa una condizione comune non se ne rammaricavano. Pochi i fortunati che possedevano un pallone da calcio e per fare squadra dovevano condividerlo.

Le bambine, se andava bene, avevano una bambola vera al posto di una di pezza fabbricata in casa … eppure compensavano la privazione esercitando la fantasia: di solito erano principesse che dopo varie peripezie trovavano un principe o fanciulle di straordinaria bellezza cui il destino riservava analoga fortuna.

Erano gli anni del dopoguerra e la sobrietà era costume, accomunati da una speranza di rinascita che si faceva palpabile nell’impegno di ciascuno a riprendere quanto si era perduto. Rinascere e dimenticare ma aggrappati, nonostante tutto, a ruoli d’anteguerra: per le ragazze il matrimonio “conveniente”, il lavoro come opzione in attesa del buon partito ed eri fortunata se dopo riuscivi a mantenerlo quando impegnava tutta la giornata. Insegnanti e, chissà perché, impiegate alle poste, per lo più nubili e poco attraenti, che allo sportello avrebbero preferito un marito. La verginità era un dogma e restare incinta un marchio d’infamia da espiare con la riprovazione familiare e la gogna sociale, se non si riparava col matrimonio. Non era insolito incontrare floridi “settimini”, belli da stupirsi.

Insomma tutto pareva tornato come prima ad eccezione di un’atmosfera che giorno dopo giorno preludeva alla speranza come un lungo respiro rivolto verso l’alto, orbato dalla tentazione di volgere lo sguardo al passato. Rare erano le automobili, la bici il mezzo più diffuso, la Vespa un lusso e le strade erano quasi prive di traffico. A scuola in città i sessi erano rigorosamente separati: classi maschili e classi femminili, in fila per due, si usciva da portoni diversi. I mondi erano così distanziati da suscitare curiosità reciproca senza avere la possibilità di soddisfarla. Vigeva in tal senso uno stato di polizia.

Anna aveva ricevuto in dono un paio di pattini per i suoi sette anni. Era una bimba autonoma e giudiziosa che mai avrebbe messo in discussione il volere dei genitori. Quel regalo inatteso del padre, che aveva intuito il suo desiderio, l’aveva resa tanto felice da ottenere il permesso di scendere subito in strada a provarli, una concessione assai rara per le bambine.

Il padre… . E’ incredibile come verso la fine della vita i ricordi affiorino dalla prima infanzia. Il loro era un rapporto profondo di esclusiva fiducia e di amore ricambiato. Anna, da piccolina e ancora oltre, lo aspettava con l’orecchio contro la porta di casa per ascoltare i suoi passi lungo le scale e aprire la porta prima che suonasse il campanello, ed era un abbraccio col quale volare in alto e poi scendere con sguardo d’amore infinito da sotto in su. Tra loro sarebbe sempre stato così fino alla sua fine precoce quando lei, più consapevole delle affinità fra loro, avrebbe voluto ricambiarlo per un tempo più lungo .

Della madre insoddisfatta ricordava pomeriggi silenziosi, assorta nei doveri domestici cui si era dedicata rinunciando ad un lavoro troppo ingombrante da conciliare con la scelta del matrimonio e della famiglia, una madre attenta ai doveri di cui percepire, attraverso i silenzi, la frustrazione. Era inutile avere rimpianti e quella famiglia doveva essere perfetta: forse per questo nei confronti della figlia era una Medea, autorevole e possessiva, pur stemperata da guizzi d’ironia che la rendevano accattivante.

La sua fuga erano i film in bianco e nero che oggi fanno parte di un’epoca lontana, attori e trame attraverso le quali fuggire dalla realtà ma che per Anna costituirono il tessuto di una pericolosa attitudine al romanticismo e al sentimentalismo di cui pagherà le conseguenze per tutta la vita.

L’eco dei piedini che correvano lungo la scala erano un sottofondo alla felicità. La strada vuota si apriva ai suoi occhi e l’eccitazione per quella nuova libertà quasi sovrastava la gioia per il regalo inaspettato. Seduta sul marciapiede e indossati i pattini Anna cercava un equilibrio difficile da trovare: pensava di poter scivolare facilmente sulle ruote col risultato della prima caduta… e poi un’altra e un’altra ancora. Le ginocchia erano già sbucciate e più che una libellula si sentiva una formica zoppa. Delusa e mortificata era sul punto di desistere poiché la sconfitta le doleva più delle escoriazioni.

Quando alzò gli occhi per accertarsi se qualcuno fosse testimone della sua frustrazione vide un bambino che la osservava, affacciato al balcone della casa di fronte. Non stava ridendo di lei, anzi, con espressione preoccupata le fece un timido saluto con la mano.

Ciao, ti sei fatta male?” le disse. “adesso scendo se vuoi”.

Anna, tra stupore e imbarazzo, non fece in tempo a rispondere che già il ragazzino era sparito e pochi istanti dopo lo vide uscire dal portone. Aveva pochi anni più di lei ma era alto per la sua età e l’espressione rassicurante del viso la fece sentire meglio. Con mano decisa l’aiutò a rialzarsi e a stare in equilibrio accompagnandola passo dopo passo fino al portone di casa.

Io mi chiamo Osvaldo e tu? Se vuoi ci rivediamo domani dopo la scuola” le disse, “porterò i pattini anch’io”.

Tolti i pattini e frastornata per le emozioni del pomeriggio, Anna risalì le scale decisa a nascondere le ginocchia sbucciate e non più doloranti, tanta era la confusione in cui si trovava. Ma non vedeva l’ora che arrivasse l’indomani.

La solitudine ha più volti. Osvaldo era fisicamente solo in casa per molte ore mentre Anna si sentiva sola per assenza di comunicazione con la madre, lunghi silenzi che riempiva inventando storie strappalacrime tra lei e il suo bambolotto che considerava figlio, in cui era povera e sola e non c’era mai un principe che venisse a salvarla. Come la madre di Osvaldo, che aiutava le donne a partorire e praticava iniezioni a domicilio, di cui si diceva non fosse mai stata sposata e chissà che Anna, senza saperlo, ripercorresse nelle sue finzioni lo status di Osvaldo.

L’indomani le ore a scuola le parvero interminabili fino al suono della campanella che segnava la fine delle lezioni. Non pensava ad altro che scendere in strada con i suoi pattini per trovare Osvaldo attenderla al balcone.

Con pazienza le fece da maestro, un giorno dopo l’altro, scoprendo entrambi quanto bello fosse essere diventati amici e confidenti nella pause in cui si sedevano sul marciapiede a raccontarsi. Fino a quando, dopo giorni, Anna si trovò improvvisamente sola con i suoi pattini.

Alzò gli occhi verso il balcone deserto. Poteva suonare il campanello ma era troppo timida per farlo. Delusa per quella stranezza rimase seduta con i pattini in mano. L’avrebbe rivisto l’indomani, ne era sicura, ma la strada era troppo solitaria e silenziosa senza di lui.

Tornata a casa non disse nulla e nulla le fu detto. In cucina trovò la sua merenda preferita e la madre ad accoglierla con una carezza.

Il giorno seguente non accadde nulla di ciò che sperava. Ancora con la cartella in mano corse a vedere se Osvaldo fosse tornato, ma la scena si presentava esattamente come il giorno prima, balcone deserto e persiane accostate. E fu così per tutta la settimana fino a quando un pomeriggio la madre le chiese come mai non scendesse più in strada con i suoi amati pattini.

“… perché non vedo più il mio amico e senza di lui non mi diverto. Aspetto che torni”.

“Il tuo amico non tornerà. Una bambina è bene che giochi con le bambine, non con i maschi. Sono andata dalla sua mamma e questo le ho detto”.

Sorpresa, incredulità e poi un dolore come mai provato l’avevano sopraffatta. Accovacciata sul pavimento, guardava la madre da sotto in su senza voler piangere le lacrime che le rigavano la faccia. Si sentiva tradita dalla figura materna, il suo modello da imitare, e ciò la confondeva in quel momento più della consapevolezza di dover rinunciare all’amico. Anna non sapeva aggiungere altro a quel “perché” che continuava ad occuparle la mente, portandole via altre parole da dire.

L’indomani era tornata a sedersi davanti al balcone di Osvaldo per cogliere qualche movimento oltre le persiane socchiuse. Sperava tanto che lui la vedesse e magari cogliere un gesto di solidarietà, ma nulla accadde allora e per i giorni a seguire, come se madre e figlio fossero improvvisamente scomparsi dalla casa, nonostante lei continuasse ad alzare gli occhi a quel balcone ogni volta che vi passava davanti. Anna non seppe più niente di loro ma quella circostanza segnò profondamente il suo rapporto con la madre.

I pattini furono riposti e mai più indossati senza che nessuno ne facesse parola.

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