“Parasite” di Bong Joon-ho

     – 1. Quanto mai estraneo e, allo stesso tempo, assai familiare appare allo spettatore il film “Parasite” di Bong Joon-ho, vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes 2019. Familiare, perché il regista usa con maestria svariati generi universalmente noti del linguaggio cinematografico. Estraneo, poiché i temi e lo stile con cui sono trattati sono indubbiamente assai ancorati a certe specificità dell’attuale società coreana e della sua cultura. Si tratta dunque di un film effettivamente sincretico, nel senso che fonde continuamente elementi che appartengono ormai ineluttabilmente al mondo globale con gli elementi di una situazione marcatamente locale. La fusione miracolosamente riesce e lo spettatore ha costantemente l’esperienza di un virtuoso straniamento che lo invita a coinvolgersi e, nello stesso tempo, a riflettere con un certo distacco. Insomma, il tutto si colloca alla giusta distanza, verrebbe da dire. Il film è sostanzialmente uno splendido, sebbene come si vedrà alquanto problematico, apologo morale sulle relazioni interpersonali e sulla sociologia della vita quotidiana, come queste si configurano nell’epoca delle catastrofi ecologiche, delle diseguaglianze crescenti e dell’inasprimento della competizione tra gli individui. Proprio per la sua distanza relativa, il film è capace, attraverso questi temi, di gettare uno sguardo critico sulla nostra contemporaneità, uno sguardo decisamente insolito, originale e provocatorio. Nel film, oltretutto, è mostrato abbondantemente lo sconquasso che la penetrazione e diffusione del mercato globale ha provocato e sta provocando, anche in società lontane come quella coreana.

      – 2. Abbiamo accennato alle catastrofi ecologiche. Il film ci parla senz’altro di ecologia, specialmente nel senso originario del termine che, notoriamente, ha a che fare con la “casa” (oikos). Il film, infatti, è una commedia nera che si svolge quasi esclusivamente in interni, in due case antitetiche che corrispondono a due famiglie coreane altrettanto antitetiche. Sono messi in contrapposizione, anche e soprattutto visivamente, due ecosistemi idealtipici costituiti dalle rispettive case in cui vivono i protagonisti. Da un lato, il mondo dell’architettura ultra moderna dell’archistar Namgoong Hyeonja (personaggio del tutto inventato), ideatore e costruttore della casa dove vive la ricca famiglia Park. Dall’altro, quello del tugurio, del seminterrato miserabile con finestrella a livello della strada, in cui vive la povera e sgarrupata famiglia Kim. La contrapposizione è volutamente paradigmatica, poiché pare che Park e Kim siano i cognomi statisticamente più diffusi in Corea.

     – 3. L’avveniristica casa dei Park si ispira alla concezione architettonica razionalistica occidentale, appena corretta da una sensibilità asiatica per la presenza di una ampia vetrata su un grande giardino. La casa corrisponde dunque a un modello culturale d’importazione, come del resto moltissimi altri elementi che si vedono nel film, tutti ampiamente enfatizzati nelle inquadrature, come telefonini, automobili, computer, camicie e cravatte sempre impeccabili, merci da supermarket, e così via. Si tratta tuttavia di una casa fredda, piuttosto impersonale che rispecchia il vuoto di vitalità e il vuoto interiore degli stessi ricchissimi Park. Un vuoto evocato dal numeroso e onnipresente personale di servizio, dalla formalità e superficialità dei rapporti interpersonali e dall’alienazione dei disegni malati del piccolo Da-song, il figlio minore dei Park, che assomigliano un poco al tratto di un Basquiat. Il piccolo Da-song – che è capriccioso e tirannico, tanto che i genitori lo temono e lo assecondano in tutto e per tutto – vive dunque in una casa dal disegno alquanto razionale ma cova, dentro la sua mente, fantasmi oscuri del tutto privi di logica. Nel corso del film si scoprirà la concreta origine di questi fantasmi.

     – 4. La casa dei Kim è invece un povero e piccolo tugurio seminterrato, umido e puzzolente, pieno di oggetti seriali sempre di matrice culturale occidentale, dove le modeste cose sono ammassate le une sulle altre, dove gli ambienti sono assolutamente indistinti e dove, sul lato strada, troneggia un water scrostato. I Kim non possono permettersi l’armonia architettonica della casa dei Park, ma la vita grama cui sono costretti li ha resi solidali, astuti, iperattivi, costretti continuamente a stare sul chi vive, a barcamenarsi per soddisfare le esigenze più elementari. Le prime scene del film ce li presentano mentre cercano di captare il campo telefonico dei vicini di casa. Oppure mentre cercano di sbarcare il lunario piegando i cartoni delle pizze per pochi soldi. Oppure, ancora, mentre cercano di difendere il loro entourage dagli ubriachi che vengono a orinare intorno alle finestre (il loro tugurio ha piccole finestre a livello della strada).

     Il carattere distintivo del loro ambiente, se così si può definire, è un disordine caotico, dai caratteri magari anche pittoreschi, dovuto a tante stratificazioni successive. Dovuto alla competizione, alla lotta per la vita e all’esigenza di soddisfare i bisogni elementari. Tra le prime battute del film, al passaggio in strada delle squadre di disinfestazione che spargono insetticida, i Kim discutono se tenere chiuse le finestre, per non respirare l’insetticida, o se non piuttosto tenerle aperte, per sfruttare gli effetti benefici della disinfestazione anche nei loro locali infestati. Questo è il primo accenno all’equiparazione dei Kim ai parassiti. Nello sviluppo del film, la realtà ecodegradata della casa dei Kim e del quartiere limitrofo sarà ripetutamente mostrata in maniera anche assai cruda, come ad esempio nel lungo episodio, davvero eccezionale sul piano visivo, di un nubifragio battente che si limita a lambire la villa dei Park, che si trova nella parte alta della città, ma che provoca, nelle contrade dove vivono i Kim, nella parte bassa, una vera e propria alluvione, con un fiume misto di fango e spazzatura che corre nelle strade, travolge qualsiasi cosa e penetra ovunque.

     – 5. I luoghi, le cose, le case, i quartieri in cui si vive – questo sembra essere l’assunto implicito del film – sono lo specchio del destino dei loro abitanti, ne determinano le caratteristiche profonde dal punto di vista economico e sociale, ma anche e soprattutto le caratteristiche psicologiche, i loro comportamenti, il modo di affrontare la vita e di relazionarsi con il prossimo. Sbaglieremmo tuttavia se pensassimo di trovare nel film una compiuta “analisi di classe” economica, sociale e politica della società coreana o, ancor più, del mondo globale come oggi si prospetta. Qualche critico, secondo noi frettoloso, a proposito del film ha parlato addirittura di un ritorno della lotta di classe. C’è più che altro, nel film di Bong Joon-ho, una correlazione immediata, che saremmo tentati di definire, appunto, come “ecologica”, tra i due ambienti e le forme di vita che li abitano. Potremmo parlare di una sorta di eco-psico-sociologia. La condizione sociale determina la casa in cui si abita e, viceversa, la casa in cui si abita determina la condizione sociale. Si tratta di un teorema indubbiamente alquanto schematico e semplificatorio, esso tuttavia permette al film di raggiungere un notevole rigore nella descrizione realistica – talvolta iperrealistica – dei diversi ambienti e dei tipi umani che li abitano.

     – 6. Il corollario inevitabile di questa prospettiva è che ciascuno debba stare strettamente ancorato all’ambiente dove abita. Si tratta di mondi caratterizzati da una profonda diversità e destinati dunque a restare tendenzialmente distanti e separati, ma anche destinati – come si vedrà nella trama – a un pericoloso rimescolamento, come per una sorta di attrazione fatale. Il film prende infatti le mosse proprio da una casuale “contaminazione” tra i due ambienti che porta però ben presto a una situazione di infezione generalizzata. Sotto questo profilo, il film può, essere anche considerato come un esperimento mentale in cui si studia – con grande ironia ma anche con estrema freddezza e lucidità – quel che accade quando avviene una contaminazione tra mondi che invece dovrebbero stare a distanza. Lo sguardo di Bong Joon-ho, in questo senso, è del tutto simile – almeno nelle parti più drammatiche – a quello del ben più duro e austero Kim Ki-duk, peraltro suo conterraneo. Vale in proposito ricordare – anche dal punto di vista tematico – il film Ferro 3 di Kim Ki-duk, in cui proprio le case momentaneamente vuote diventano il luogo fisico di una forma equivoca e inconsapevole di convivenza e di scambio sociale, dove tuttavia non è consentita alcuna contaminazione. Anche lì, quando la contaminazione avviene, tutto precipita.

     – 7. I due ecosistemi umani tratteggiati nel film, in seguito alla contaminazione, diventano dunque il terreno di una brutale lotta per la vita senza esclusione di colpi. Qui troviamo un altro motivo conduttore del film e cioè il ruolo del mimetismo e, più in generale, dell’inganno e della menzogna nella competizione ecologica e sociale. Ci ricorda Bong Joon-ho che l’animale semiotico per eccellenza, l’uomo, è anche, per eccellenza, l’animale capace di mentire. Questo accade perché le relazioni sociali sono sempre vincolate dalla necessità, dai bisogni, dalla concorrenza, dall’egoismo e dall’interesse. Ciascuno recita una parte, ciascuno recita la parte che gli conviene, ciascuno cerca di ingannare il prossimo per accaparrarsi una fettina del prodotto sociale, per avere qualche convenienza, per avere un lavoro o per godere di prestazioni sessuali. Il tutto avviene con estrema naturalezza, in una totale assenza di codici morali. Non c’è scrupolo di coscienza, non ci sono dilemmi, non ci sono rimorsi. I comportamenti, le scelte non sono mai problematiche, sono sempre ineluttabili, automatiche, generate dalla meccanica degli interessi. Se forte è la propensione a ingannare, altrettanto forte è la propensione a farsi ingannare, soprattutto da parte di chi non ha bisogni particolarmente urgenti da soddisfare, come suggerisce la stupidità di fondo dei ricchi Park. Il successo nell’inganno non fa che alimentare ulteriori comportamenti fraudolenti, in un crescendo inarrestabile. In questa lotta per la vita, i soli legami interpersonali che contano sono ristretti a quelli per la propria famiglia. Siamo qui in presenza di una sorta di vero e proprio familismo amorale, perfettamente descritto e decisamente paradigmatico. Nessun universalismo, dunque. Non c’è neppure, qui, la speranza di redenzione del buddismo che compare talvolta nei pur crudissimi film di Kim Ki-duk. Così Bong Joon-ho, grazie a questa visione brutale e meccanica della competizione, ha buon gioco nell’usare l’inganno come motore delle vicende narrate, le quali tendono così a volgere spesso verso una sorta di commedia nera degli equivoci, paradossale, sarcastica, divertente e agghiacciante nello stesso tempo.

     – 8. Vediamo ora in sintesi lo svolgimento della trama, che è un passaggio necessario per la discussione del senso del film, alla faccia di coloro che non sopportano lo spoiler. Il giovane studente Ki-woo – la voce narrante che compare all’inizio e alla fine del film e che, come vedremo, offrirà esplicitamente una chiave interpretativa del film stesso – appartiene alla famiglia Kim, quella che vive nel tugurio seminterrato. È raccomandato da un amico per dare lezioni d’inglese alla giovane figlia (Da-ye) della ricca famiglia Park che abita nella bella villa situata nella parte alta della città. Il giovane è piuttosto sveglio e intraprendente e riesce così a farsi accettare dai Park, a compiere una soddisfacente prestazione professionale e a far anche innamorare di sé la giovane Da-ye. Questo inaspettato successo però non gli basta. Così, astutamente, uno dopo l’altro, Ki-woo riesce a introdurre presso i Park, sotto mentite spoglie, tutti gli altri membri della sua famiglia che sono ovviamente disoccupati.

     La sorella Ki-jung, che è esperta di computer – grafica, viene presentata come una professionista di art-therapy per seguire il piccolo Da-song – il fratello minore di Da-ye – che ha dei comportamenti disturbati e alquanto border-line. Il trucco funziona e, dopo questo secondo successo, l’invasione prosegue in forma ancora più aggressiva. La governante della casa, con un malvagio espediente ai suoi danni, è fatta cacciar via e il suo posto è preso da Chung-sook, la madre di Ki-woo. Sempre con un espediente fraudolento, anche l’autista è allontanato e il suo posto è preso da Ki-taek che è il capofamiglia dei Kim (padre di Ki-woo e Ki-jung). Così, in men che non si dica, con una serie d’ingegnosi quanto biechi espedienti, l’intera famiglia Kim si trova a rimpiazzare tutto personale di servizio dei Park, i quali si mostrano alquanto sprovveduti, superficiali e creduloni e non sospettano minimamente che i loro nuovi dipendenti siano tra loro imparentati e che siano privi delle patenti di professionalità dichiarate. La logica che vien mostrata è dunque proprio quella del parassitismo, un parassitismo sociale che comunque rinvia analogicamente ai rapporti di parassitismo diffusi tra le specie animali e vegetali.

     – 9. Quando tutto sembra andare a gonfie vele, la situazione però precipita. In assenza dei proprietari che hanno portato il bambino in campeggio per il suo compleanno, i Kim ne approfittano per organizzare – proprio in quella casa che ormai dominano e considerano come casa propria – una serata nella quale si gozzoviglia e si festeggia in modo piuttosto rozzo e volgare. Nel bel mezzo della festa, nottetempo, ricompare però la governante che era stata fatta licenziare, che bussa alla porta inaspettatamente. La ex governante ha un torbido segreto. Nel rifugio antiatomico della casa, della cui esistenza i Park nulla sanno, vive nascosto da anni suo marito, per sfuggire ai creditori. L’uomo vive lì come un recluso, rifornito e assistito di nascosto dalla moglie. L’imprevedibile situazione scatena un conflitto tra i nuovi parassiti (la famiglia Kim) e i vecchi parassiti (la precedente domestica e il suo marito imboscato). Il conflitto diviene via via uno scontro violento, alla fine del quale la famiglia Kim riesce, seppure maldestramente, a imprigionare nel rifugio sotterraneo i due concorrenti. In un tentativo di fuga, la ex governante, nel parapiglia, fortuitamente muore e il marito, che viene comunque imprigionato suo malgrado nel rifugio, medita furibondo propositi di vendetta. È da notare che la trama del film rende bene evidente come i parassiti siano sempre in aspra concorrenza tra loro, per cui è fuori discussione qualsiasi forma di alleanza tra loro per un qualche progetto comune. La logica è sempre quella di occupare tutto quello che si può a vantaggio esclusivo e unico della propria famiglia, quasi fosse all’opera una sorta di gene egoista.

     – 10. I Park ritornano a casa prima del previsto e i Kim devono far fronte alla situazione, anche se la loro colossale messa in scena si fa sempre più difficile da sostenere, tanto più che ora sono spuntati i parassiti concorrenti. I Park organizzano la festa di compleanno del bambino con molti ospiti, nel giardino della bella casa, e qui avviene il clou tragico di tutta la vicenda. La commedia nera volge a questo punto decisamente all’horror. Il marito della defunta domestica riesce a liberarsi, emerge dal rifugio con le vaghe sembianze di uno zombie e comincia a menare coltellate per vendicarsi, finendo però così per essere ucciso dal padrone di casa. Ki-jung, la figlia dei Kim, la sedicente esperta di art-therapy, è gravemente ferita ed è in fin di vita. Il piccolo Da-song, alla vista dello zombie che aveva evidentemente già visto altre volte, è svenuto. A questo punto scoppia il conflitto decisivo tra il capo famiglia Park e il suo autista, il capo famiglia Kim, per decidere quale dei loro figli infortunati debba essere trasportato per primo all’ospedale, con l’unica auto che c’è. Purtroppo Ki-jung, non soccorsa in tempo, muore e così suo padre, in un accesso di rabbia uccide a sua volta il capo famiglia Park e si dilegua con le mani piene di sangue. Insomma, fuori di metafora, come spesso accade in natura, i parassiti finiscono per uccidere gli organismi stessi che hanno colonizzato. In conclusione, le tre famiglie (compresa quella della ex domestica) sono così distrutte, tanto che la bella casa viene tosto abbandonata e resta disabitata. Ki-taek è sparito, ricercato dalla polizia per l’assassinio compiuto. In chiusura del film, poco a poco si comprende che Ki-taek si è nascosto proprio nel rifugio antiatomico, prendendo il posto del precedente parassita. Il giovane Ki-woo, che è sfuggito al massacro, ha compreso quale sia ora divenuto il rifugio del padre, e si farà carico per intanto di rifornirlo del necessario per mantenerlo in vita.

     – 11. Sono di una certa importanza, per la ricostruzione del senso del film, le riflessioni finali di Ki-woo che – non dimentichiamolo – è il narratore in prima persona di tutta la storia. Egli ammette di essere rimasto affascinato dalla villa nella quale ha potuto soggiornare durante tutta la vicenda. Confessa anche di avere capito che le scorciatoie del parassitismo non portano da nessuna parte e producono disastri. Così si propone, nel prossimo futuro, di studiare e lavorare sodo per arricchirsi e per riuscire a comprare proprio quella villa e a ricongiungersi così, un giorno, con il padre rinchiuso nel rifugio. Insomma, par di capire, il contatto improprio tra i due ecosistemi umani si è rivelato foriero di grandi sventure, ma quello stesso contatto ha permesso a Ki-woo di apprezzare la bellezza e il valore della casa e di trovare quindi un serio obiettivo per la propria vita.

     A prima vista, questa conclusione, cioè il progetto di una bella casa da conquistare con i propri sforzi personali, pare piuttosto debole, soprattutto dopo la critica corrosiva degli assetti sociali sviluppata nel corso del film. Si tratta, infatti, di un progetto che rimane completamente rinchiuso sul piano individuale, esattamente come il progetto di colonizzazione parassita raccontato nel film. La radicalità della pars destruens non porta alla fine ad alcuna effettiva eco – trasformazione. Nessun accenno a regole comuni, diritti e a riforme sociali. L’eventuale successo di Ki-woo, nel suo progetto di arricchire e comprarsi la bella casa, lascerebbe comunque intatto il mondo degradato dal quale proviene. Se tutto ciò è vero, si tratta allora di capire se e come le due anime (lo sviluppo narrativo e il finale) apparentemente contrastanti del film possano eventualmente stare insieme.

     – 12. Azzardiamo qui l’ipotesi che lo spettatore occidentale tenda spontaneamente ad attribuire al film di Bong un intento politico primario che probabilmente proprio non ha. Questo è il motivo per cui la conclusione può sembrarci riduttiva e fuori posto. L’unico modo per conferire al film una sua unitarietà sta nel mettere in secondo piano il suo significato politico, che pure è presente e tende talvolta a emergere prepotentemente. Vediamo meglio la questione. Negli anni Sessanta del secolo scorso il sociologo nord americano Robert K. Merton aveva elaborato – studiando la società nord americana del tempo – una famosa teoria della conformità e della devianza. La sua teoria si basava sulle due variabili dell’accettazione o del rifiuto, sia dei fini che la società prescrive sia dei mezzi ammessi per raggiungerli. Il conformismo è il tipo d’azione di colui che accetta fino in fondo sia i fini stabiliti sia i mezzi consentiti per raggiungerli. Si noti che qui il termine è descrittivo e non valutativo, come spesso è usato nella lingua comune. L’innovazione, invece, è l’azione di colui che accetta fino in fondo i fini, ma “innova” per quel che concerne i mezzi: costui è il deviante per eccellenza, perché usa mezzi scorretti e illeciti per avere quello che vogliono tutti. È esattamente questo il caso del giovane Ki-woo e della famiglia Kim. Il dilemma che è proposto nel film pare essere proprio quello tra la devianza e il conformismo, un dilemma principalmente di tipo morale e non di tipo politico. Non si discute dunque dei fini ultimi, che sono ignorati o dati per scontati, si discute piuttosto di quali debbano essere i mezzi.

     – 13. Il film di Bong potrebbe allora essere interpretato, in definitiva, come la rappresentazione di una complicata peripezia del parassita che, attraverso le sue vicissitudini e i suoi errori, giunge progressivamente alla scoperta dei limiti della sua innovazione deviante e che, infine, è indotto a scegliere la via più lunga e faticosa, ma più efficace e meno distruttiva, del conformismo in senso mertoniano. Di fronte all’attuale confusa situazione globale, sembra dire Bong Joon-ho, la tentazione che pare a prima vista come la più immediata e la più promettente è proprio quella del parassitismo. Si tratta della scelta più diffusa. Anche perché è spinta dall’urgenza del bisogno e dall’onnipervasiva lotta per la vita. Nel film d’altronde lo spettatore è indotto a simpatizzare per gli intraprendenti e devianti parassiti della famiglia Kim e per il loro assalto implacabile ai ricchi Park.

     La scelta del parassitismo, tuttavia, è in ultima analisi del tutto controproducente, perché porta alla lacerazione, allo scontro, e soprattutto perché è, in fin dei conti, autodistruttiva. Allora, come nella fenomenologia hegeliana o, se si preferisce, come in una sorta di laica via crucis, occorre passare attraverso tutte le “stazioni” del parassitismo, come fa effettivamente il giovane protagonista Ki-woo, fino a berne fino in fondo il calice amaro, fino a provarne direttamente le conseguenze più disastrose, per sé e soprattutto per i propri familiari. Soltanto questo percorso permetterà al protagonista di raggiungere, alla fine, una sorta di vera e propria illuminazione e trasformazione personale. Solo grazie a questa nuova consapevolezza gli sarà possibile giungere a scartare la via che immediatamente sembra la più facile e a intraprendere – con una sorta di spirito ascetico – la via più difficile, la via dell’impegno e del sacrificio. Ki-woo diventa capace di padroneggiare se stesso, impara a differire la soddisfazione immediata dei bisogni, impara a darsi una meta e a perseverare per raggiungerla. Prende le distanze dal parassitismo e intraprende un serio impegno nel mondo seguendone finalmente le regole. Se vogliamo una lettura della stessa questione da un altro punto di vista, si potrebbe dire in termini lacaniani che Ki-woo comprende, alla fine della sua amara vicenda, la differenza tra la mera pulsione e il desiderio.

     – 14. Ma chi sono oggi i parassiti? Perché può avere un senso riflettere sul parassitismo? A vedere i poveri Kim disoccupati nel loro tugurio potremmo essere indotti a pensare che si tratti di questioni da Terzo mondo. In realtà la questione del parassitismo ci riguarda piuttosto da vicino. Proviamo ad assumere una definizione provvisoria del fenomeno e cioè che il parassita, nel nostro mondo sociale, sia semplicemente colui che vive a spese degli altri. Ebbene, se ci guardiamo intorno, non abbiamo proprio bisogno di volgerci alle lontane contrade coreane. Facciamo un elenco esemplificativo, un po’ alla rinfusa, di casi che potrebbero essere rubricati come parassitismo: tutti i generi di truffatori, da quelli piccoli a quelli grandissimi. Quelli che si fanno raccomandare. Quelli che non pagano le tasse. Quelli che praticano l’economia sommersa, o l’economia illegale. Quelli che corrompono e quelli che si fanno corrompere. I politici che pensano solo alla loro carriera. Quelli che truccano i concorsi. Quelli che guidano come dei matti, mettendo a repentaglio la sicurezza della circolazione. Quelli che parcheggiano dove non si deve. Quelli che non fanno la dovuta manutenzione e producono distruzione e morte. I falsi invalidi. I fabbricatori di fake news. Quelli che fanno in finanza le manovre speculative. Gli incompetenti che producono danni che devono poi essere riparati. Quelli che timbrano il cartellino e vanno poi per i fatti loro. Quelli che usano mille espedienti per abbassare la loro produttività sul lavoro. I produttori di merci adulterate. Gli assenteisti. I saccheggiatori di risorse naturali. Gli inquinatori, i cui danni vanno poi riparati con grande dispendio. L’elenco potrebbe continuare a lungo. Noi stessi, in modo intercambiabile, svolgiamo il ruolo di parassiti e di vittime colonizzate e sfruttate. E, soprattutto, parassiti non sono solo i ricchi, com’è bene evidenziato dal film. Il parassitismo è certamente trasversale e riguarda tutte le classi sociali.

     Se tutto questo è vero, allora il merito principale del film è forse proprio quello di avere portato alla ribalta dell’attenzione una categoria morale come quella del parassitismo. Siamo, infatti, così circondati dai parassiti che non ce ne accorgiamo neppure e magari li troviamo pure simpatici. Un film tuttavia non basta. Forse, per aprire gli occhi sul parassitismo e sul rischio severo che questo comporta per il mondo globale, abbiamo proprio bisogno di una catastrofe, più o meno analoga a quella accaduta nella guerra tra i Kim e i Park. Forse solo una grande catastrofe – non si tratterà questa volta soltanto di una commedia nera – potrà finalmente produrre, in coloro che riusciranno a sopravvivere, una grande illuminazione.

Giuseppe Rinaldi (14/12/2019)

Sito: https://finestrerotte.blogspot.it/

 

 

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