I partiti nel pantano dei microleader

Sono almeno trent’anni che i partiti – in tutto l’Occidente – hanno imboccato la china discendente. Per due ragioni, che si cumulano. La prima è che hanno sempre meno risorse da scambiare con i propri elettorati, di destra come sinistra. Meno welfare, più diseguaglianze: come meravigliarsi che i votanti si allontanino e si ribellino? Come se non bastasse, a questa crisi economica si aggiunge il crollo organizzativo. Per colpa del virus che ha cambiato la nostra vita nel nuovo millennio, il virus della personalizzazione. Complici i media – vecchi e nuovi – il narcisismo è diventato la chiave della nostra epoca. I partiti, che erano nati come organismi collegiali, si sono trasformati – suo malgrado – in partiti personali.

All’inizio sembrava che bastasse a contenere le spinte crescenti alla frammentazione. Vedi il successo di Berlusconi, e quello – iniziale – di Renzi. Poi – come ha scritto Cazzullo sul Corriere – anche questo modello è entrato in crisi: «Paradossalmente, al tempo dei partiti personali, sono proprio i leader che mancano». Come mai? Crisi delle vocazioni? Certo, i leader veri non si sfornano come le ciambelle. Ma la risposta – peggiore – è un’altra. Dopo la stagione iniziale della personalizzazione macro – grandi leader, grandi progetti e, più o meno, grande tenuta – siamo entrati nel mondo di mezzo. Dove pullulano i microleader. Quella galassia di vecchi e nuovi notabili che oggi tengono in ostaggio qualunque tipo di partito.

Prendete la macchina da guerra digitale dei cinquestelle. Sembrava un nuovo Leviatano, un esercito para-robotico al comando di un capo politico, e del suo partner informatico. Ma è bastato che la bolla espansiva scoppiasse sotto i denti di Salvini perché si rompessero le righe, all’insegna dell’uno vuole uno. Ognuno per se, e io per tutti. E il Pd che, sondaggi alla mano, spera ormai nell’encefalogramma piatto, riesce a crescere solo intercettando un po’ di esodi parlamentari. Perfino Renzi che, solo quattro anni fa, aveva preso il volo in pochi mesi grazie al fascino di macro leader, non fa mistero di essere pronto ad accogliere gli orfani berlusconiani che non vogliono morire leghisti. In queste condizioni – di continui flussi in entrata e uscita a somma boh – come può un partito governare?

E non si tratta di una malattia italiana. Il mercimonio di voti che la May, prima, e ora Boris Johnson hanno cercato di racimolare alla Camera più antica e blasonata del mondo, fanno apparire i trasformisti nostrani una falange di puritani. E che dire del record spagnolo – quattro elezioni in quattro anni – che ci fa, almeno per il momento, sembrare un’oasi di stabilità? La realtà è che la versione micro della personalizzazione del potere si sta rivelando perfino più insidiosa di quella macro. Sulle personalità di maggior spicco possiamo dirci più o meno d’accordo, contestarle anche aspramente, appoggiarle o combatterle nel nome di qualche idea riconoscibile. Ma come si fa a schierarsi sul piccolo cabotaggio, sui repentini cambi di casacca, sui ricatti sottotraccia che impallinano un pezzo della finanziaria, o una grande industria nazionale?

Sperare di contrastare questo trend tornando ai vecchi organismi collegiali, ai riti della mediazione virtuosa che salvano la facciata mettendo sotto il tappeto la polverizzazione, è un’illusione in cui credono soltanto le vecchie elite orfane di se stesse. L’unica risposta che funziona al pullulare dei piccoli leader è quella di un grande leader. Una ricerca sempre più difficile, visto che, con gli elettorati ipervolatili e le imboscate che si moltiplicano, restare in sella – anche per i più dotati – sta diventando un’impresa impossibile. Col risultato che, per i pochi che riescano ad emergere, crescerà inevitabilmente la tentazione di alimentare – e preservare – la propria ambizione serrando i circuiti di protezione. Interni al proprio partito, ma anche alle istituzioni di comando. La notte della democrazia assomiglia, sempre più, all’alba di una autocrazia.

Mauro Calise (“Il Mattino”, 11 novembre 2019)

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