Pensierini inattuali

Pensierini inattuali

Il filo rosso della Storia

I

Vorrei provare a scrivere una serie di piccoli saggi raggruppati – non casualmente – sotto il titolo comune “Pensierini inattuali”. Quello che segue è solo l’antefatto, oltre che il primo della serie.

Il proposito ha pure a che fare con un mio stato d’animo nella “storia che passa”. Lo esprimerei così: in questo tempo mi sento profondamente “inattuale”. Non credo sia per la mia età da uomo ormai irrimediabilmente vecchio. Il fatto è, piuttosto, che mi sento psicologicamente troppo lontano dall’andazzo di gran lunga prevalente in “tutte le parti in lotta”, pur non rinunciando a votare e sostenere, da battitore libero, quella parte che mi paia la migliore, o quantomeno la meno peggiore, in campo, che in questa fase storica mi sembra il Partito Democratico. Ma lo faccio, ormai, con molto disincanto, semplicemente cercando di valorizzare quello che in questo periodo passa il convento della Storia. Altri tempi dovranno venire, quando però io sarò ormai uno stoccafisso.

A proposito di spaesamento mi vengono in mente alcuni grandi saggi giovanili di un filosofo da me sempre molto amato, Friedrich Nietzsche, che – senza o, dal 1962, con – Marx mi accompagna dalla mia ormai remota adolescenza: “Considerazioni inattuali” (1874/1876)1. Anch’io, in generale, e tanto più in quest’Italia, mi sento “inattuale”, e persino un poco “outsider”. Questo mondo non è più il mio mondo, anche se – come ogni buon compagno – che a differenza dei reazionari non guarda “all’indietro”, ma “sempre avanti” – il mio tempo non lo cerco tra i fantasmi del passato, ma nel “non ancora” accaduto. Al tempo passato bisogna dare una spinta perché precipiti più presto, diceva quel matto – però nel senso veneto del “Se no’ i s’è mati no’ ‘i volemo – del Federico2, il quale però, a furia di cercare l’oltre rispetto a un’humanitas di cui intuiva la mala sorte e – più ancora – la bassezza, nel 1889 a Torino, in via Carlo Alberto, perse il ben dell’intelletto, e rimase in uno stato di totale follia sino al 1900, quando, a cinquantasei anni, morì.

L’oltrepassamento del presente era un punto chiave anche per Marx. Egli – quasi a tempo con le “Considerazioni inattuali” di Nietzsche – nel 1873, in un suo “Poscritto” alla seconda edizione del primo libro del suo “Capitale” (la prima edizione era comparsa a Amburgo nel 1867), si occupò della dialettica. Questa, com’è noto, è la visione che pone l’urto degli opposti – antitesi contro tesi in vista di una nuova sintesi – come base del divenire, tanto del pensiero quanto della storia. La concezione era stata elaborata soprattutto da Hegel, che vedeva nel comporsi, scomporsi e opporsi sino alla sintesi, e oltre, dell’Idea, la base del divenire. Questo sarebbe accaduto nella mente umana a tutti comune, nell’Idea; ma ciò che è a tutti comune, nella vita di relazione, sarebbe sintetizzato dallo Stato, considerato come bene comune, eticità vivente3. L’idea del conflitto ideale e sociale come base del divenire era stata ripresa da Marx, che però l’aveva rovesciata in senso materialista e rivoluzionario, vedendo il punto chiave nella “società civile”, o mondo dell’economia, e non nello Stato, e nel conflitto degli interessi delle classi economiche, e non delle visioni del mondo, la base di tutto. Nel “Poscritto” richiamato del 1873 diceva che la dialettica nelle mani del “filisteo tedesco” era stata utilizzata per contrabbandare il reale come razionale (cioè come “necessario”, e “quindi” giustificato), mentre essa, rigorosamente intesa ed applicata, sarebbe “scandalo e orrore” per “la borghesia e i suoi corifei dottrinari” perché “nel divenire”, tramite la negazione di quel che sembra consolidato (antitesi contro tesi versus sintesi), mostra la fatalità dei prossimi crolli: attesta, insomma, il carattere “felicemente” morituro di ogni presente, da guardare come se fosse sempre sul punto di schiattare, in vista del “dopo”, comunque più avanzato anche se non necessariamente migliore4.

Qui e ora, però, la dialettica ristagna. Il grande fiume della nostra Storia sembra diventato un immenso pantano, inquinato e pieno di plastica galleggiante, anche se magari proseguirà come fiume carsico sino al “mare dell’essere”, depurandosi (come pure auspicava – per ogni uomo creativo, cioè profondamente umano – “quel Federico”5). La Storia, insomma, sembra ristagnare, benché tutta l’Europa sia formalmente in pace dal 1945. Ma lo era pure stata, finalmente in pace, nel tempo in cui Nietzsche aveva scritto le sue “Considerazioni inattuali” e Marx la pagina sulla dialettica su cui mi sono soffermato. Si apriva, anzi, dopo la Comune di Parigi del 1871 (che in realtà “chiudeva” il ciclo delle rivoluzioni europee apertosi nel 1848) l’epoca detta della “belle époque”, durata sino allo scoppio della Grande Guerra: un immane conflitto che però arrivò, inaspettato e terribile, nel 1914. Al 1914 seguirono – in una sorta di guerra dei trent’anni come ha poi spiegato lo storico federalista Ludwig Dehio6 – efferatezze senza fine, che furono segnate – tra conflitti esterni e interni agli Stati – da non meno di settanta milioni di morti “ammazzati” tra inizio della Grande Guerra e Liberazione dal nazifascismo. La catastrofe di quel mondo finito nel 1914, che era stato certo più sereno e soprattutto libero di quello venuto ai poli opposti “dopo” in molti paesi (in Italia e in Germania “da destra”, e in Russia “da sinistra”), avrebbe potuto forse essere evitata7, sia pure con difficoltà; ma per evitarla sarebbe stato (e sarebbe) necessario non essere stati (e non essere) “marci dentro”, negli assetti statali in competizione e soprattutto nelle menti; o almeno sarebbe stato (e sarebbe) necessario esserlo molto, ma molto, meno. “That is the problem”, come nell’”essere o non essere” di Amleto8.

Oggi viviamo in un mondo che sembra di nuovo in disfacimento come all’inizio del XX secolo. L’ordine bipolare uscito dalla seconda guerra mondiale è andato in pezzi sin dal crollo dell’impero sovietico e dell’URSS tra il 1989 e il 1991. Da decenni le due superpotenze che si contendevano, ma al tempo stesso si dividevano, il mondo dal 1945 (Unione Sovietica e Stati Uniti), o non ci sono più (URSS) o non sono più in grado, e spesso neppure vogliono, farsi valere nell’area europea e mediterranea, se non per forza maggiore (USA), anche perché le aree-chiave del pianeta sono ormai extraeuropee. Forse sorgerà un duopolio competitivo tra USA e Cina, ma per ora non è ancora così. Anzi, la Cina, saggiamente, preferisce espandersi, persino come potenza, attraverso gli affari, con cui rischia meno e ottiene vantaggi più concreti e duraturi, essendo oltre a tutto lo Stato più popoloso del mondo, abitato da oltre un miliardo di persone, che è già un’impresa titanica governare.

Inoltre la grande nuova rivoluzione informatica e robotica, che è solo agli inizi, e che si appresta ormai persino a modificare il DNA umano (e, ahinoi, anche se è “ingiusto” nel giro di qualche decennio al massimo lo si farà “normalmente”), ha fatto saltare tutte le barriere commerciali. Ha creato un mondo d’informazioni in cui tutti sono a contatto con tutti, addirittura dalla prima infanzia, con cellulari e tablet. Ha reso perciò comunicanti tutti i popoli, e dato una spinta a tutte le migrazioni dei poveri della terra verso le aree più sviluppate, in cui almeno possono “campare”, e se ci si sappiano fare e siano fortunati, anche più o meno bene.

Il risultato di questa crisi di superpotenze del mondo e della grande rivoluzione informatica e robotica è duplice. Da un lato, secondo tutti i rilievi, la globalizzazione – conseguente – ha fatto fare un gran passo in avanti a popoli sottosviluppati (anche se ci sono ancora 800 milioni di “affamati”); dall’altro ha ingenerato un grado ampio e preoccupante di anarchia – nel senso di anomia – internazionale, Questa è sempre più pericolosa per la tenuta del sistema-mondo. I marxisti sistemici, veri continuatori di Marx, e il cui fior fiore per me sono quelli un tempo detti operaisti (e che oggi potremmo dire post-operaisti, da Vittorio Foa, Raniero Panzieri e Mario Tronti sino a Antonio Negri), hanno provato a riproporre la visione, loro propria, pretesa “scientifica”, di un sistema capitalistico che – prescindendo dal substrato proletario antagonistico che l’incalza tramite la protesta molecolare dei lavoratori e ondate di movimenti delle masse diseredate9 – si autoregolerebbe come se lo muovesse una mano invisibile: nel che era il succo del fortunato libro Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione (2002) di Antonio Negri e Michael Hardt10. Ma l’idea che un equilibrio intrinseco tenga spontaneamente in piedi, secondo una logica unitaria, il capitalismo mondiale, non regge. Il mondo non è un poliedro in cui le diverse facce si implichino vicendevolmente – e in sostanza razionalmente – finché una rivoluzione di classe non lo dissolva (come sostengono ivi Negri e Hardt). È molto più simile a quello che Dante diceva dell’Italia del suo tempo, ma che oggi vale per il mondo: “nave sanza nocchiero in gran tempesta”11.

Questo capita per una ragione che contraddice l’interpretazione prevalentemente economica (o anche economico-sociale), che il marxismo chiama materialismo storico (ma che va ben oltre il marxismo). Nel mondo in cui viviamo c’è, molto pericolosamente, anomia perché l’economia non si autoregola affatto, ma è regolata dallo Stato (quando sia possibile regolarla; ma se è impossibile sono guai). Ciò naturalmente non significa che lo Stato sia il bene in terra (etico), come dire che il motore è la parte più importante dell’automobile non significa che le altre siano secondarie, e che lo strumento propulsivo non debba essere in funzione di chi lo usa, e che anzi chi lo usa ha tutta una vita sociale e culturale che va oltre, ed è persino più importante, dello Stato stesso. Ma ciò posto lo Stato è la chiave di volta nel divenire sociale. La regolazione del mondo è sempre stata legata, a mio parere, al sistema degli Stati in competizione e, nel territorio in cui è sovrano, dallo Stato. Si può persino dire che lo Stato sia la “struttura” della Storia (anche se la Storia, come le cipolle, non ha struttura, e di struttura si può parlare solo per delineare schemi ordinatori per capirla, ossia post rem). Marx, invece, riteneva che la struttura fosse l’economia; e oggi anche i suoi peggiori nemici generalmente gli danno, su ciò, ragione. Ma io sono tornato, su ciò, a Hegel: non ovviamente nell’ideologia politica borghese e prussiana, ma in quanto vedo ruotare la vita collettiva intorno allo Stato determinato ancor più che intorno all’economia, che “in ultima istanza” dipende da esso. L’economia è però decisiva, sicché uno potrebbe anche sostenere che chiedersi se sia più importante l’economia o la politica, l’incontro-scontro tra forze produttive (classi) o quello nello Stato (o lo Stato), sia come domandarsi se venga prima l’uovo o la gallina. Questo è vero, ma tra i due – politica ed economia, Stato e forze produttive – ce n’è uno “più uguale dell’altro”; e questo per me è lo Stato, il che ha conseguenze non piccole. L’economia ha sempre avuto bisogno di un potere territoriale che la protegga, l’aiuti ad espandersi o la guidi. Questo è l’opposto di quel che ha pensato il liberismo, per cui l’economia si autoregola come se la dirigesse una mano invisibile12 (ma ciò era vero anche nel capitalismo descritto da Marx, diverso da quello del “laissez faire laissez passer”, ossia dal libero mercato allo stato puro descritto da Smith e Ricardo, solo – anche se è moltissimo – perché Marx riteneva “storico”, cioè nato nel tempo e destinato nel tempo a essere dissolto dai lavoratori sfruttati, quel che per Smith e pure Ricardo era vero per ogni società umana civilizzata)13. Un tempo – secondo Marx – tutto sarebbe stato di tutti, nella preistoria e ancora presso gruppi di “primitivi”, ad esempio pellerossa, fermi al Neolitico presenti tra noi; e dopo il capitalismo, al più alto livello dello sviluppo invece che al più basso – tramite la fase intermedia del potere dei senza potere volto ad abolire le disuguaglianze – tornerà (o tornerebbe) ad esserlo14. Ma l’economia senza Stato è comunque informe e anomica come la società senza Stato. Perciò, se l’avesse pensata più o meno hegelianamente come la penso oggi io (vedendo la Forma-Stato come motore della vita collettiva moderna), Marx avrebbe fatto meglio a scrivere un’opera intitolata Lo Stato piuttosto che Il capitale. E se avesse ritenuto, magari totalmente a ragione perché lo Stato prevalente nel mondo “fete assai”, che bisogna fare un altro Stato, avrebbe potuto scrivere lui uno Stato e rivoluzione, ma dedicando a tutti i processi di nascita, dissoluzione e rinascita degli Stati, anche in vista dello Stato come autogoverno dei lavoratori-cittadini, gran parte del tempo e delle pagine dedicati al “Capitale”, e non le pagine abbastanza rare, e per di più iperpoliticistiche, dedicate allo Stato in momenti chiave della storia come La Comune di Parigi15. Non lo fece, nemmeno per trattare ampiamente e approfonditamente il tema della transizione economica al socialismo (su cui avrà scritto sì e no 50 pagine su 20.000), perché il “focus” dottrinario per lui era l’economia e non la politica; era quello che con Engels, nell’Ideologia tedesca, sin dal 1845-1846 chiamava il padrone della casa, e non “il cane della casa” (per lui lo Stato), “cane” che l’anarcoindividualista Stirner avrebbe a torto enfatizzato16.

Invece per me si sbagliava. Con uno Stato in frantumi il potere di una classe durerebbe pochi mesi. Il marxismo diceva che ciò accade perché lo Stato è la macchina che protegge la classe dominante (burocrazia polizia ed esercito professionale al servizio di chi comanda nell’economia). Ma in realtà è lo Stato che rende possibile una classe che domina stabilmente l’economia, e che la subordina sempre, anche se “gli conviene” dare mano più o meno libera a chi “fa ricchezza”, perché così l’economia fiorisce meglio, e lo Stato accresce consenso e stabilità. E quando lo Stato non può più dirigere l’orchestra sociale, anche l’economia va in malora. Ad esempio se oggi gli Stati Uniti riuscissero a mandare in crisi lo Stato cinese, questo si dividerebbe subito almeno in una decina di Stati; così le contraddizioni economiche, compresse e duramente governate, si farebbero esplosive (diverrebbero “sgovernate”) e loro si assicurerebbero (o consoliderebbero) il primato, anche economico. Del resto gli Stati si sono sempre fronteggiati per questo: sotto sotto sapendo che non solo il loro primato politico di potenza, ma il loro primato economico, si afferma dissolvendo o almeno ridimensionando la potenza “statale” concorrente.

Tuttavia quello che nel mondo in cui viviamo è saltato, è proprio la Forma Stato (o meglio, essa si è molto ridimensionata, in attesa di trovare la forma adeguata al nostro essere del mondo, il quale ultimo è del tutto diverso da quello dei secoli passati perché ora l’essere nel mondo si è davvero “mondializzato”). Il punto chiave da comprendere è che lo Stato, all’interno del territorio in cui è sovrano, ha perso o ha visto comunque ridursi decisamente quella che è sempre stata la sua vera arma segreta, o il segreto della sua potenza: la possibilità di dire sempre l’ultima parola nella politica economica; il suo potere di tenere sempre per un punto delicato del corpo umano maschile – che qui non starò a nominare – i produttori e distributori della ricchezza. Persino lo scontro interno tra produttori della ricchezza, da secoli tra borghesia e proletariato, ha sempre enfatizzato il ruolo di mediazione o sintesi dello Stato. Lo Stato nazionale ha sempre dominato nella politica economica, generalmente d’intesa con i proprietari (non tanto perché ne fosse la longa manus o clava, ma perché se la ricchezza cresceva anche il suo potere e prestigio erano più al sicuro). Ma le novità di cui si è detto – il fatto che l’economia dipenda letteralmente, e non solo in ultima istanza, dal mercato mondiale piuttosto che dal mercato interno, e che contro di ciò si possa fare, a livello nazionale, alias di Stato, ben poco – ha stravolto le cose. Stalin poteva ancora credere e puntare, nonostante le convinzioni internazionaliste innanzitutto di Trockij, nel e sul “socialismo in un solo Paese”; ma pure i laburisti, e poi i democratici alla Roosevelt al tempo della grande crisi economica del 1929 o dopo, o i keynesiani di molte generazioni, potevano puntare sulla pianificazione (in Russia fatta funzionare, sotto Stalin, coi plotoni d’esecuzione, il terrore di sinistra, e in sostanza l’economia di guerra), e in Occidente tramite la programmazione democratica o Welfare State. Ma nel momento in cui globalizzazione e rivoluzione informatica realizzano l’utopia di Adam Smith del libero mercato, è molto difficile sussumere la politica economica allo Stato. Ormai i prezzi vengono spinti in basso da costi di produzione ridotti all’osso, e il capitale compra la forza lavoro ovunque, ma questo deprezza la forza lavoro del vecchio mondo e impedisce allo Stato di usare la politica economica, come aveva sempre fatto dal mercantilismo del 1500 sino al Welfare State, per stabilizzare il suo potere e la sua ricchezza tramite i buoni affari e il connesso consenso sociale. Questo determina un problema sin qui mai visto: il deperimento degli “attributi” più importanti o comunque determinanti del “corpo” dello Stato: quelli economici. Ciò determina una situazione inedita dalla genesi dello Stato “moderno” dal XIV-XV secolo in poi, o addirittura dalla genesi di antichi imperi come quello egiziano di cinquemila anni fa in poi. Ma con quali conseguenze?

(Segue)

1 F. NIETZSCHE, Considerazioni inattuali (1874/1876), a cura di M. Montinari, con un saggio di G. Baioni, Einaudi, Torino, 1981.

2 F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno (1883/1892), tr. di L. Scalero, Longanesi, Milano, 1979, al cap. Delle tavole antiche e delle nuove, pp. 274-298.

3 G. W. F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1830), a cura di B. Croce, Laterza, Bari, 1907; Lineamenti di filosofia del diritto (1921), a cura di G. Marini, ivi, 1987.

4 K. MARX, Il capitale. Critica dell’economia politica, I (1867 e poi 1873), in tr. di D. Cantimori e con Prefazione di M. Dobb, Editori Riuniti, 1962, in: Poscritto alla seconda edizione (1873), pp. 37-45.

5 Nella Prefazione, che è un vero “Prologo”, al cit. Così parlò Zarathustra, Nietzsche diceva: “In realtà l’anima è un sudicio fiume. Bisogna essere un mare per essere attraversati da un sudicio fiume senza divenire impuri.”

6 L. DEHIO, La Germania e la politica mondiale del XX secolo (1955), Comunità, Milano, 1962. Si confronti con l’ottimo: S. PISTONE, Ludwig Dehio, Guida, Napoli, 1977.

7 G. E. RUSCONI, 1914. Attacco a Occidente, Il Mulino, Bologna, 2014. Sostiene che l’inizio si scatenò per decisioni non inevitabili. Altri storici dissentono richiamando il carattere ormai marcio dell’assetto di imperi, esploso perché non più gestibile. Il problema del rapporto tra decisione e determinazione storica è aperto.

8 Naturalmente mi riferisco a: W. SHAKESPEARE, Amleto (1600/1602), alla scena 1 dell’atto III, in cui compare il famoso monologo. Lo si veda nella tr- di E. Montale, con Introduzione di A. L. Zozo, Oscar Mondadori, Milano, 1988.

9 M. HARDT – A. NEGRI, Moltitudine. Guerre e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, Milano, 2004.

10 M. HARDT – A, NEGRI, Moltitudine. Guerre e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, Milano, 2004, e appunto soprattutto, degli stessi, Impero, Il nuovo ordine della globalizzazione, ivi, 2002.

11 DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia (1308/1321), in: Purgatorio, canto VI.

12 A. SMITH, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776), a cura di A. Roncaglia, ISEDI, Roma, 1995. L’immagine dell’economia di mercato che si autoregola come se la dirigesse una mano invisibile è ivi. Ritorna più volte in Negri, rispetto ai movimenti molecolari delle masse nel capitalismo.

13 Marx si pone come “critico dell’economia”, praticamente in tutti i suoi testi economici, proprio perché vuol dimostrare non tanto che la dinamica del capitalismo sia diversa da quella indicata dagli “economisti classici”, quanto la storicità, o transitorietà, dell’assetto da essi anatomizzato, in riferimento ad ogni economia organizzata.

14 Marx teorizza in modo estremamente netto e motivato tali idee nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, in: Opere filosofiche giovanili (1844, ma 1932), a cura di G. DELLA VOLPE, Editori Riuniti, 1963. Sviluppa molto il tema anche in: K. MARX – F. ENGELS, L’ideologia tedesca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti (1845/1846, ma 1930), tr. di F. Codino, a cura di C. Luporini, Editori riuniti, 1969. Senza prendere totalmente sul serio l’idea del “salto di qualità della storia”, per cui tramite il potere dei proletari si va direttamente alla società senza classi in cui tutto è di tutti, la teoria marxista dello Stato sarebbe insensata.

15 L’opera Stato e rivoluzione. La dottrina marxista dello Stato e i compiti del proletariato nella rivoluzione (1917, ma 1918) è di LENIN (in “Opere complete”, XXV, Editori Riuniti, Roma, 1967, pp. 361-477), ed è in gran parte un’analisi puntuale degli scritti di Marx sulla Comune di Parigi, del 1871, espressi come Presidente dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori o Prima Internazionale. Per un approfondimento di tutta questa tematica resta fondamentale: I marxisti e lo Stato. Dai classici ai contemporanei, a cura di D. ZOLO, Il saggiatore, Milano, 1977, con ampi brani dei maggiori teorici di tale tendenza, interpretati a fondo.

16 K. MARX – F. ENGELS, L’ideologia tedesca, cit., pp. 338-339.

Pensierini inattuali
II
Crisi dello Stato e governabilità del Paese

La crisi del potere sull’economia da parte degli Stati nazionali, in specie piccoli o medi, nell’era dell’informatica e della globalizzazione, naturalmente non va esagerata. Lo Stato non ha perso ogni potere sull’economia (se no, “staremmo freschi”). Ne ha solo perso parecchio. Se, ad esempio, a livelli più o meno pari di qualità del prodotto sul mercato mondiale, i costi di produzione – nei paesi capitalisticamente arretrati dell’est europeo oppure in Cina o in India – più o meno a parità di qualità – sono molto bassi perché lì il lavoro costa ben poco rispetto all’Europa occidentale, è ovvio che chi investe cerchi di insediarvi imprese (tanto più nell’era delle comunicazioni tramite computer, via skype o attraverso qualche rapido viaggio in aereo, che prepara l’insediamento di dirigenti di fiducia); oppure è logico che l’investitore cerchi di costringere chi lavora, nel Paese in cui sta da sempre, ad accettare condizioni che quando io avevo vent’anni subivano solo i salariati agricoli, mentre ora sono spesso accolte, per necessità, da giovani diplomati o laureati. Questo nuovo disagio diffuso dei nuovi lavoratori non è frutto di chissà quale lotta di classe del capitale contro il lavoro, o della borghesia contro il proletariato (come diceva l’ultimo Gallino1), o dell’occulto e diabolico “capitale finanziario”, ma della ricerca del “maggior profitto” da parte del capitale investitore. Tale ricerca è la molla dell’economia di mercato da che mondo è mondo, tanto più che chi investe deve reggere alla concorrenza interna-internazionale di chi può produrre a costi di produzione tanto più bassi, e non già ascoltare il suo “buon cuore”, ammesso e non concesso che l’”uomo economico”, salvo eccezioni, ne abbia mai avuto uno, o meglio che sia stato a sentirlo quando ciò contraddicesse nettamente i suoi “affari”, dal grande capitalista all’imbianchino che evada le tasse non facendoti la fattura. Che dopo Marx possiamo prendere sul serio discorsi sui padroni “cattivi” che sfruttano i lavoratori per una sorta di malanimo, sbalordisce. Marx diceva che il padrone sfrutta il proletario non perché sia cattivo, ma perché è un padrone. Ciò posto, i lavoratori fanno benissimo a resistere al loro deprezzamento, o alla diminuzione di diritti sociali acquisiti, ed a provare anzi ad accrescerli quanto possano; e per ciò, ad esempio, in Italia hanno fatto benissimo, nel maggior loro sindacato, a scegliersi uno come Maurizio Landini come leader; e i movimenti socialisti e di sinistra hanno o “avrebbero” sempre il dovere di sostenerli, anche per non sparire dalla scena sociale o dissanguarsi persino elettoralmente. Non c’è niente di male a voler decelerare la “crescita infelice”, come a diminuire il dolore anche quando il male non possa essere debellato. Ma si deve contemporaneamente sapere che è una battaglia difensiva, anche molto difficile da vincere “veramente”, come ogni resistenza a rivoluzioni industriali nuove “en marche”. Lo Stato, che è sempre stato il mezzo più immediato per bilanciare gli eccessi di schiacciamento dei deboli sul “libero mercato” (oltre che nella vita sociale), ha infatti perso – come si è detto – una parte comunque rilevante del controllo sullo scambio delle merci, a partire da quello sulla forza lavoro (prezzo dell’energia umana sul mercato e garanzie sociali connesse); e nessun giuramento della Pallacorda di sindacalisti o leader della “nuova” sinistra, né tantomeno le elucubrazioni di apologeti, anche molto acuti, del keynesismo, della programmazione economica e del Welfare State faranno riacquistare ad esso quel che il mercato mondiale, in misura significativa, gli ha ormai tolto. I grandi Stati, come oggi l’America di Trump, possono cercare di pararsi il bottom tramite il protezionismo, ma questo fa riemergere con forza lo scontro doganale, e poi nazionale, tra le potenze, per cui anche se può talora pagare nell’immediato, è nocivo nei tempi medi e lunghi, e comunque a livello globale. L’idea che un’economia nazionale, tanto più in uno Stato non certo grande come un continente, in un mondo globalizzato, possa essere modificata tramite decreti legge “giusti”, come se il mercato mondiale non incidesse profondamente sul Paese, è a dir poco ingenua; ma quella che possa farlo, anche in modo semplicemente significativo, nei tempi lunghi, uno Stato che non funziona in tanti punti del suo dispiegarsi, è un’assurdità. E lo Stato fondato sulla proporzionale, tanto più se più o meno pura, è sempre connotato da una debole governabilità. Traetene le conseguenze.

Sarà pur vero che il sistema proporzionale – matrice o derivato dello spirito di “mediazione” del nostro popolo – ha i suoi vantaggi, com’è stato “per paradosso” notato il 2 maggio ultimo scorso all’Associazione Cultura e Sviluppo di Alessandria, in una splendida conferenza che ha insegnato molte cose anche ai più preparati tra noi, tenuta dal grande politologo Marc Lazare2, il quale al proposito ha connesso anche a questa nostra tendenza “italica” alla “mediazione” o condivisione tra gli opposti la vittoria contro un terrorismo che qui aveva prodotto, da destra e da sinistra, 400 morti; ma io credo che se da noi si era arrivati a quei punti di gravità senza uguali in Europa Occidentale, ciò fosse accaduto proprio perché lo Stato italiano, prima di riuscire a reagire aveva lasciato che le cose diventassero tanto innaturalmente gravi. Lo Stato aveva agito così per un misto di opportunismo marcio, inefficienza cronica e irresponsabilità morale spinta sino all’uso propagandistico dei delitti politici per screditare la parte politica avversaria. Infine lo Stato fu costretto, dopo l’assassinio di Moro del 1978, a una reazione tardiva e perciò brutale, e ad un’unione sacra sproporzionata all’obiettivo del battere una pattuglia di squinternati pur sostenuta da piccole frazioni di proletari disadattati o di piccolissimi borghesi furibondi, certo inferiore al 5% della popolazione totale contando tutti i pretesi “combattenti” delle opposte microfrazioni in lotta violenta. Con uno Stato minimamente efficiente, i morti sarebbero stati, anche in Italia, 40 e non 400, e gli assassini sarebbero ben presto finiti tutti in galera, come nel resto dell’Europa, in cui – come ha ben spiegato pure Lazare – l’Italia non è affatto “eccezione”, ma è – in tutto – uno dei tre Paesi grandi tra i ventisette dell’Unione Europea (o dei quattro, contando ancora la Gran Bretagna). Inoltre ritengo che se l’Italia in tanti decenni, specie dal 1968 in poi, ha via via accumulato il terzo debito pubblico del mondo (2350 miliardi di euro), ciò sia connesso a una spesa pubblica allegra alla cui moltiplicazione tutti hanno partecipato e partecipano (politicamente e sindacalmente). I governi hanno centinaia di volte favorito tutto ciò per la loro cronica debolezza. Oggi, poi, tutto ciò è ormai intollerabile. Eppure siamo già, cheti cheti, alla rinazionalizzazione dell’Alitalia, addirittura con i soldi delle Ferrovie, appena un po’ migliorate negli ultimi anni. Sembra di sognare, ma è la “sapienza” del governo giallo-verde di Di Maio e Salvini.

Se in una fase storica di concorrenza selvaggia universale (globalizzazione), poco gestibile da qualunque Stato, si pensa che uno Stato “da operetta” – persino di piccola o media dimensione come il nostro – possa difendere o sviluppare il Welfare State, vuol dire che del mondo reale si capisce poco o nulla. Se è vero che qualunque Stato – specie se non sia vasto e ricco come un continente (e persino in quel caso non senza difficoltà come ci mostra l’America del nord) – in economia ha le mani legate (o “una mano legata”), più uno Stato è debole e più risulterà servo del “libero mercato” globale (mondiale, europeo e persino interno). Più lo Stato è debole, più la “finanza mondiale”, le multinazionali e gli Stati che sono più forti lo metteranno in difficoltà, ossia sussumeranno la sua economia in mille modi. Ma la stessa economia criminale ne approfitterà grandemente. Perciò chi non è pronto – ben inteso in un contesto totalmente democratico – a rafforzare fortemente il potere governativo, che deve per forza navigare contro vento in tempi di globalizzazione, e persino di relativa anomia internazionale – indebolisce il ruolo anticiclico, cioè anticrisi, dello Stato; e lo fa proprio a danno dei lavoratori. Mettere in condizione, con riforme opportune, il potere esecutivo, cioè il governo, di durare tutta la legislatura e, inoltre, di non essere meno forte, ma almeno altrettanto forte, degli altri due poteri fondamentali dello Stato liberale (legislativo e giudiziario), non è un lusso di tipo centralista o “gollista”, ma è il minimo che la storia impone nell’era della globalizzazione: è la vera e quasi sola riforma di struttura epocale, o quantomeno quella che mette in sicurezza le altre riforme sociali operanti o necessarie; e di lì si dovrà sempre ripartire per far funzionare decentemente il sistema, proprio a favore della povera gente, anche se questa seguitasse a dire di no dieci volte (finché si sarà convinta), perché non c’è altra strada più efficace di questa per aiutarla: si tratta semplicemente di far funzionare in modo rapido ed efficace quel che sta a monte o a valle del processo economico, cioè lo Stato stesso.

Per questo ho ritenuto la sconfitta della riforma – pur imperfetta3 – dello Stato proposta da Renzi e dal suo PD, nel dicembre 2016, una sciagura nazionale, specie per quel che a me è sempre stato più a cuore: il grande movimento dei lavoratori. Ma “tirèmm innàns” perché sul versamento del latte riformatore versato nel dicembre 2016 qui ho pianto abbastanza.

Siccome mi considero un battitore libero, un “compagno di strada”, una cosa un poco controcorrente rispetto al mio sentire solito la voglio dire, in maniera chiara e forte: il modo in cui il PD, che era ancora renziano anche dopo la grave sconfitta del referendum del dicembre 2016, ha reagito alla botta di allora l’ho trovato deplorevole. L’ha detto un po’ di sorvolo, dato il suo ruolo, anche Roberto Giachetti, ad esempio illustrando la sua mozione (per cui ho votato nelle primarie del PD), alla SOMS del Cristo di Alessandria il 28 dicembre 2018, accennando in termini negativi alla legge elettorale detta Rosatellum (dal nome Ettore Rosati del renziano che l’ha proposta), con cui si è votato nel marzo 2018. Lì, come dice un proverbio veneto, “peso il tacòn del buso” (la ricucitura ha peggiorato lo sbrego). In sostanza con quella legge si è tornati alla proporzionale, caratteristica della prima Repubblica, e perciò ai suoi governicchi deboli e trasformisti, sempre sul punto di cadere e per ciò sempre ricattabili dall’esterno, e ciò nel nuovo quadro storico di cui si è detto. Si era pensato che il matrimonio contro natura che si sarebbe imposto per forza maggiore dopo le urne, tramite il Rosatellum (cioè la proporzionale), sarebbe stato quello tra PD e Forza Italia (“che ci volete fare? Siamo obbligati”), mentre poi è stato tra altri due avversari pretesi l’un l’altro irriducibili, il M5S e la Lega. Questo modo di fare politica mi conferma nella mia vocazione ad essere “inattuale”: uno che può pure – se dire la verità lo porti a ciò, e in base a una vocazione che per altro in lui viene da molto lontano – pisciare contro vento, tanto più che a nulla mira. Infatti uno non può passare dall’essere il campione del maggioritario all’esserlo della proporzionale pura perché così vuole la “ggente” come diceva Tina Pica nel film del nonno di Calenda, Luigi Comencini, “Pane, amore e fantasia” (1953). Il vecchio Lenin – totalmente e giustamente inattuale dati i frutti marci della dittatura rivoluzionaria da Stalin in poi, ma sempre da meditare come politologo a mio parere grande, più o meno come facciamo con Machiavelli – diceva che non si deve essere “codisti”, ossia porsi “alla coda” delle masse “guardandone il sedere”4, ma che bisogna, piuttosto, essere sempre alla loro testa, precedendole, “seppure solo di un passo”. E allora se la Costituzione dice che la legge elettorale non è soggetta a referendum, il maggioritario a due turni era da conservare (pur accogliendo il verdetto popolare circa l’immodificabilità del Senato “in quel modo”). E se la Corte costituzionale metteva il dito sulla piaga della legge respinta dalla “ggente” – cui i nostri saggi costituenti, per tenersi stretta la Repubblica, non avevano neanche sottoposto a referendum approvativo la Costituzione nel 1948, che pure sin dal principio diceva che la “sovranità appartiene al popolo” – bisognava recepire le correzioni chieste dalla Corte in materia elettorale (e basta). La riforma detta di Renzi (“Italicum”) diceva che se una lista di maggioranza prendeva almeno il 25% essa poteva andare al secondo turno con la lista che le stava subito dietro al primo, e se la maggioranza l’approvava avere il 55% dei seggi alla Camera. Era ovvio che in una partita tra le due liste più votate, quella vincente avrebbe avuto più o meno il 40% almeno, ma andava precisato. Sarebbe stato sufficiente dire – per rispettare la volontà dei costituenti – che la lista che fosse prevalsa al secondo turno avrebbe preso il 55% se avesse avuto almeno il 40% dei voti, oppure che la lista maggioritaria al secondo turno avrebbe avuto un premio del 15% (o poco meno). Invece si preferì svoltare di 180°, tramite l’attuale Rosatellum, restaurando la proporzionale della prima Repubblica, con un pragmatismo senza principi che la dice lunga sullo “Spirito del tempo” (in cui mi sento e voglio essere straniero, “inattuale”). Sono tempi così, come questo M5S, che può mettersi con il PD o con l’estrema destra, come convenga al momento, perché ormai “così fan tutte”, come dicono le puttane. Non è che de Gaulle, quando i francesi bocciarono la sua Repubblica al di sopra dei partiti, e lui era capo del governo (1944/1946), avesse abbracciato quella altrui (partitocratica, come la nostra sino al 1958, con uguali effetti di scarsa governabilità): se n’era andato nell’ombra aspettando il suo turno storico con i suoi (turno arrivato nel 1958, quando fondò la Quinta Repubblica). E così aveva fatto già quando persino molti socialisti e i comunisti (c’era ancora il patto Molotov-Ribbentrop), dopo la vittoria di Hitler del 1940 sulla Francia avevano dapprima sostenuto in tanti, o subito senza problemi sino all’attacco “nazi” all’URSS del 1941, il governo collaborazionista coi nazisti di Pétain, come meno peggio: lui se n’era andato in Algeria, dove c’era ancora un po’ di esercito francese “libero”, e il 18 giugno 1940 da Radio Londra, a nome della “France”, aveva giurato che i francesi avrebbero combattuto contro il Terzo Reich “sino all’immancabile vittoria finale”. Così hanno sempre fatto, per così dire da Gramsci a Terracini, o da Matteotti a Pertini, quelli che hanno delle idee forti, che poi essendo in esse “credenti” possono essere a tempo debito “creduti”. Ma nel mondo della “società liquida”5 si tende a torto a credere che non sia più così. Si è diventati “liquidi”, ma non sarebbe necessario. Anzi, la crisi della sinistra comincerà ad essere superata quando verrà superata l’idea che a parte un generico legame con la Costituzione, tutti i programmi siano più o meno intercambiabili. Sul terreno per cui “tutto è relativo”, vince sempre la legge della jungla, che è quella della pura potenza, propria del conservatorismo e della reazione, che del cinismo hanno il copyright sicché su quel terreno sono più creduti e credibili, essendo senza scrupoli. Abbiamo invece bisogno, come sinistra nel senso più ampio, di punti di programma forti, e non mutabili a ogni cambiamento di vento: punti programmatici di portata storica, profondamente condivisi per tutta un’epoca dalla nostra parte politica, e al tempo stesso totalmente realistici. Quando lo capiremo come sinistra? – Sarà quello l’indizio della rinascita della sinistrastessa: in Italia e nell’Unione Europea, se non addirittura nel mondo.

(Segue)

1 L, GALLINO, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Intervista a cura di P. Borgna, Laterza, Roma-Bari, 2012.

2 Presentava in particolare: I. DIAMANTI – M. LAZARE, Popolocrazia. La metamorfosi della nostra democrazia, Tempi moderni, 2019.

3 La riforma dello Stato bocciata nel dicembre 2016, cosiddetta di Renzi, introduceva un sistema elettorale maggioritario a due turni, ma non precisava la percentuale minima da conquistare al secondo turno, dalla lista vincente, per accedere al 55% dei seggi. Inoltre non introduceva il monocameralismo, pur dando alla sola Camera il compito di dare il voto di fiducia; e ridimensionava il Senato, nel numero e nelle materie, invece di abolirlo. Évero che ciò era connesso a contrasti nella Commissione preposta, ma una “vera battaglia” del PD per abolire il Senato, sia in aula che in Commissione, non credo sia mai stata fatta. Credo che ci siano state sia una non sufficiente capacità e audacia riformatrice dei maggiori esponenti in commissione (Anna Finocchiaro e Elena Boschi), sia un’insufficiente convinzione e decisione in aula.

4 LENIN, Un passo avanti e due indietro (1904), Le Frecce, Milano, 2016.

5 Z. BAUMAN, Vita liquida, Laterza, Roma-Bari, 2008; Modernità liquida, ivi, 2011.

 

Pensierini inattuali
– III –
I due volti del populismo in cammino

C’è un fantasma che – come il comunismo per Marx e Engels nel 1848 – si aggira per il mondo[1]: è il fantasma del populismo, che spesso genera, in modo “forte” o “debole”, “democratura”, cioè miscela tra democrazia e dittatura. Questo populismo – aperto alla “democratura” – è al potere nella Russia di Putin come nella Turchia di Erdogan, nell’America di Trump come nell’India di Narendra Modi, nell’Ungheria di Orban come nell’Israele di Netaniahu (fatte salve, naturalmente, le grandi differenze di contesti storici e istituzionali tra un Paese e l’altro). Tale populismo è caratterizzato dalla volontà di dare voce alle aspirazioni profonde, umorali ed emozionali, del “proprio” popolo così come emergono comunque, via via, di mese in mese, o addirittura di giorno in giorno (oggi rilevate tramite i sondaggi). Questo “proprio popolo” è inteso – dal populismo – come se fosse un organismo vivo, un corpo “vero”, una specie di identità unitaria fatta di tradizioni, lingua, religione, o “stirpe” pretese comuni a tutte le “persone per bene” della propria “nazione”: al di là di ogni divisione – considerata “artificiale”, e comunque non essenziale – tra classi e partiti; spesso al di là di ogni apporto di gente “straniera” o comunque di etnia pretesa “estranea”, percepita sempre come ostile, corruttiva, criminogena e comunque temibile, o quantomeno assai fastidiosa; e spesso al di là di ogni riconoscimento della rappresentanza elettiva, che, anche quando la democrazia sia riconosciuta – come nel populismo europeo occidentale del nostro tempo lo è – viene sempre ritenuta composta da una casta di privilegiati, di scansafatiche o di ladri potenziali (cui “tagliare le unghie”, come dis-onorevoli normalmente). Tale populismo porta poi alla valorizzazione della democrazia referendaria – e oggi del “popolo della rete” – “contro” la rappresentanza parlamentare (o “casta”), e all’estrema valorizzazione di capi popolo “carismatici” sentiti come rappresentanti immediati del preteso popolo sovrano “vero”, qualora siano ritenuti capaci d’intendere ed esprimere la voce della “pancia” di un Paese (ossia quel che esso “davvero” vuole via via). Questi “capi popolo” nel secolo scorso diventavano spesso dittatori, ma nella nostra epoca debbono accontentarsi, almeno in Europa e America del nord, di essere leader nella democrazia, sia pure accrescendo fortemente i loro poteri effettivi rispetto alla democrazia liberale, la quale non consente al potere esecutivo di inglobare, o comunque di mettere “normalmente” sotto i piedi, il potere legislativo e il potere giudiziario, cioè parlamento e magistratura. (Anche se un tratto forte di ogni vero assetto liberale non è solo la divisione, ma anche il bilanciamento tra i tre poteri fondamentali dello Stato).

All’interno dell’Unione Europea, tra gli Stati che più contano per posizione geopolitica, economia manifatturiera, numero di abitanti e storia dell’assetto comune – Germania, Francia e Italia, con la Gran Bretagna ora sostanzialmente fuori per scelta sua – il populismo tarda a “prendere il potere”; ma “noi” italiani siamo sulla buona strada. E siccome in Italia siamo “più bravi”, qui di populismi “al potere” – per ora in via eccezionale, e in modo molto instabile – ne abbiamo addirittura due (il Movimento 5 Stelle e la Lega), che governano insieme, sia pure – da un mese o due a questa parte – convivendo come cani e gatti. Ma potrebbe anche darsi che i governanti ora confliggenti come “anima” stellare pretesa di “sinistra” e anima leghista di “destra” siano come i ladri di Pisa, che di giorno – sotto elezioni – litigano, e di notte, e in specie dopo le elezioni, si spartiscono tutto, nella logica per cui passata la festa il santo popolo votante è gabbato. Io sospetto proprio questo e penso che dopo una qualche verifica più o meno movimentata, o eventualmente dopo una crisi di governo pilotata (verso un “lieto fine”), dopo le elezioni del 26 maggio M5S e Lega “torneranno” a essere culo e camicia, esprimendo due anime in relazione di emulazione, ma complementari, del populismo neo-reazionario che avanza. Credo dopo una “verifica” un poco mossa. Lo vedremo comunque ben presto. Anche volendo vedere il continuo conflitto tra M5S e Lega dell’ultimo mese come qualcosa di più di un confronto semplicemente per non perdere ancora voti e anzi per riguadagnarli rispetto ai sondaggi (da parte soprattutto del M5S), tendo a cogliervi più uno scontro tra alleati che competono per non sottostare in modo troppo masochistico l’uno all’altro che non come uno scontro vero tra posizioni alternative. I motivi di attrito vengono persino inventati da un giorno all’altro, con una demagogia strumentale senza uguali dal 2 giugno 1946 a livello di governo. Molti osservatori non concordano con me, ma a mio parere si sbagliano, anche se sarei felicissimo di sbagliarmi io. Comunque lo vedremo bene entro la fine di giugno. La verifica è dunque vicina.

Dubito che persino la situazione economica, che è grave e potrà aggravarsi, potrà far saltare un’alleanza che, prima delle elezioni politiche, non ha neanche alternative praticabili in Parlamento; e un Parlamento che corre alle elezioni, se possa farne a meno, debbo ancora vederlo. Del resto il potere – come diceva il cinico, ma non certo fesso, Andreotti – “logora chi non ce l’ha”: questi qui ce l’hanno, e tra loro il M5S sa che quando lo perderà tarderà moltissimo a riprenderlo. Se dovesse venir fuori un governo tecnico “super partes” non credo né che il M5S potrebbe preferirlo al proprio potere e neppure votarlo; e credo che pure l’aspirante “leader maximo”, Salvini, non potrebbe gradirlo affatto. Certo potrà o potrebbe sorgere un governo di “destracentro” Salvini, ma solo dopo elezioni politiche rischiose. Perciò credo che gli “sposi”, M5S e Lega, siano condannati a stare insieme a lungo, consolidando il matrimonio “dopo” le elezioni europee, dopo una piccola “resa dei conti”. Ma rispetto al grande tema del populismo, questi sono aspetti laterali, per quanto “qui” decisivi.

Qualche buon spunto per la comprensione del populismo, nel mondo come in Italia, ce l’ha dato, nei giorni scorsi, l’interessantissima conferenza del 2 maggio, all’ACSAL di Alessandria, di Marc Lazare. Egli si è dapprima riferito al libro suo e di Ilvo Diamanti “Popolocrazia. La metamorfosi della nostra democrazia”, da poco edito[2]. Vi si sostiene che il populismo non è da intendersi come un nuovo “ismo” (o rinnovato “ismo”, perché naturalmente il populismo storico viene da lontano, in specie dalle steppe della Russia, dove lo era stato pure il fratello impiccato di Lenin, Alexandr, populista terrorista che aveva attentato all’erede dello zar: un Alexandr certo mitizzato dapprima dal Lenin adolescente, poi convertitosi totalmente al marxismo e divenuto il più acuto critico del populismo stesso, in un grande saggio antelucano del 1894[3]). Il populismo, nel mondo d’oggi, non sarebbe cioè – secondo Lazare – una corrente politica, un’“ideologia”, come lo sono stati socialismo, comunismo, fascismo, eccetera, ma uno “stile politico”, ossia un insieme di atteggiamenti e orientamenti, non propriamente di destra o sinistra, ma trasversali (sebbene più frequenti, e più forti, a destra che a sinistra). Si tratta, più o meno, degli orientamenti di cui qui ho parlato all’inizio. L’emergere del populismo, con la forza che manifesta, in tanti paesi del mondo, presupporrebbe eventi epocali come: la fine del comunismo nel 1989/1991 e l’attentato islamico contro le torri gemelle di New York dell’11 settembre 2001, e, più in generale, la grande crisi dei partiti tradizionali specie dopo il crollo del comunismo sovietico del 1991, ma anche l’emergere del popolo della rete sempre interconnesso, e anche perciò un’opzione democratica invece che autoritaria com’era invece stata quella dei fascismi nel passato. Tutti quegli individui interconnessi in rete, uno per uno, per quanto atomizzati, costituirebbero un mondo d’opinioni assolutamente semplificate, o semplicistiche, ovviamente molto emozionali, che nessun potere potrebbe facilmente uniformare tramite atti di autoritarismo. Ma al tempo stesso le ondate di semplicismo ed emozionalità sono gettate necessariamente sulla bilancia della politica concreta, condizionando potentemente le decisioni dei governanti, oltre che degli oppositori, tramite continui sondaggi, che registrano gli “umori”, ormai “decisivi” ove le elezioni siano vicine (e da noi ce n’è sempre una incombente). Ciò starebbe già cambiando la nostra democrazia in “popolocrazia”, ossia in regime che tende a realizzare in modo immediato i bisogni giorno per giorno più “sentiti” dal “popolo”: cosa emulata molto dagli stessi avversari formali del populismo (“di destra”), che tutti twittano e procedono per messaggi categorici e brevi a scapito del vero e articolato ragionare (del quale spesso – aggiungo io – molti leader sotto i cinquant’anni sembrano spesso persino incapaci).

Lazare – facendo venire un brivido nella schiena a chi un pochino se ne intenda – diceva che per la crisi della democrazia liberale, cioè basata sulla divisione tra i poteri fondamentali dello Stato e incentrata sul mandato pieno dato alla rappresentanza eletta legalmente in carica – si può applicare la formula usata da Enrico Berlinguer nel 1981 quando aveva detto che l’URSS “aveva esaurito la sua forza propulsiva” (ma dieci anni dopo il “comunismo” cadde da Berlino a Vladivostock). E qua e là Lazare ha mostrato di ritenere che la democratura, che è poi il populismo visto da destra al potere (che miscela tratti di democrazia e di dittatura), potrebbe pure dilagare, come qui io ho più volte sostenuto negli ultimi mesi[4].

Ciò posto, però, se la “democratura” populista si aggira davvero per il mondo, perché non vedere in ciò il nuovo “ismo” sostitutivo del fascismo, ma sullo stesso terreno del fascismo?

Forse perché il populismo d’oggi non è né di destra né di sinistra?

Ma non bisogna confondere lo stato “nascente”, o di “genesi”, dei movimenti storici – come l’avrebbe detto Alberoni quando ragionava[5] – con il loro coagularsi come partito “di governo” (“istituzionale”). Il movimento reazionario con basi di massa del XX secolo, come Togliatti definì il fascismo nel 1935[6] – se è veramente tale, e non un più o meno effimero governo poliziesco, che senza seguito sentito e vissuto tra masse comunque imponenti in quest’area del mondo non dura – in Europa occidentale ha sempre implicato una certa trasversalità, specie dopo la Grande Guerra. Spesso, in Europa Occidentale – specie dopo la prima guerra mondiale – il “movimento reazionario con basi di massa” mimetizza l’avversario “di classe”; e perciò – dico io, usando i colori come metafora – “nasce” metà rosso e metà nero (e talora anche più rosso che nero); ma poi, finita l’infanzia del movimento e approssimatosi al potere, diventa sempre per tre quarti nero (reazionario, o controrivoluzionario) e solo per un quarto rosso (riformista, socialista, eccetera). Tutta la dialettica tra fascismo-movimento e fascismo-regime, tanto investigata da Renzo De Felice[7], e comunque tutta la differenza tra il fascismo del 1919-1920 e quello dal 1921 in poi, sta lì. La contaminazione è stata tale che il nazionalsocialismo metteva il cerchio con la sua tremenda svastica entro una bandiera rossa; celebrava ogni anno il primo maggio in pompa magna ed ebbe a lungo all’interno, sino al 1930, una forte “sinistra” – dei fratelli Strasser – che avrebbe voluto il collettivismo economico e persino, per molti, un’alleanza politica, non solo tattica, con l’URSS (fu sconfitta definitivamente da Hitler, il cui cuore da razzista antisemita e da piccolissimo borghese austriaco frustrato e furibondo, batteva più decisamente all’estrema destra, ossia in senso nazionalista razzista e imperialista, furiosamente anticomunista, appena con una spolveratina di rosso per attrarre anche una parte di lavoratori[8]).

Il governo gialloverde che c’è ora in Italia, egemonizzato dalla minoranza di Salvini, che rappresenta ora un italiano su tre dal più al meno, per ora è un esperimento. Si mescolano gli opposti, ancora in modo paritario: il “rossiccio” del M5S e il “nero” della Lega salviniana. I due lottano per non dare “sangue” prezioso l’uno all’altro, ma anche per vedere quanto di “rosso” e quanto di “nero” dovrà caratterizzare quello che pare a me un compromesso storico tra due populismi, o addirittura il doppio volto del populismo. Anche alle origini del fascismo c’erano stati, insieme, ex socialisti “rivoluzionari” di primo piano come lo stesso Mussolini e tanti ex sindacalisti rivoluzionari o repubblicani, e tanti ex nazionalisti o di tale pasta, ossia c’erano stati rossi e neri, ma col nero (reazionario, controrivoluzionario) destinato ben presto a permeare il tutto, sia che venisse dalla prima “anima” o dalla seconda (anche se l’anima “rossa” restò sempre come un fermento, buono a far sognare i giovani inquieti che si sentissero “rivoluzionari”, così integrandoli, utilmente, “nel sistema”).

In realtà oggi si sta formando un nuovo blocco storico reazionario con basi di massa, diverso dal fascismo perché non è né violento né dittatoriale, ma omologo a quello. E l’Italia è, come sempre, una gran fabbrica del futuro, anche indesiderabile. Più durerà il Governo “giallo-verde”, anche dopo le elezioni europee del maggio 2019, e più elementi (ed elettori) del M5S saranno incorporati nel movimento reazionario di massa che, nel quadro democratico più o meno sterilizzato, viene realizzando il leghismo neo-nazionalista di Salvini. Probabilmente Di Maio incarna, insomma, una tendenza, di cui per ora è difficile immaginare la consistenza finale, “di destra” – al di là degli strilli pre-elettorali “rossi” – destinata ad essere organicamente presa all’interno della tela “nera” di Salvini. Ma anche se i due movimenti accorciassero le distanze elettorali, la cosa non muterebbe molto perché i due populismi, a mio parere, sono complementari (“armonia dei contrari come quella dell’arco e della lira”, avrebbe detto Eraclito 2500 anni fa[9]).

Questo non è fascismo, perché non ha senso parlare di fascismo dove non c’è ideologia strutturata, tendenza al totalitarismo, violenza “sistematica” contro gli avversari né rischio di dittatura. Emilio Gentile l’ha spiegato bene nel suo ultimo libro[10] e Lazare, su ciò, nella conferenza che ho più volte richiamato qui, mi ha definitivamente convinto su ciò (però con una precisazione importante, di cui ora dirò). Sì, è vero, questi qua, i populisti di destracentro (senza trattino), che si stanno espandendo sia con l’arroganza popolaresca di Salvini che come movimento dei cittadini democratici “onesti” di Di Maio, non hanno la minima intenzione di limitare i poteri elettivi del popolo, e non sono più né razzisti (pur essendo xenofobi) né tantomeno antisemiti, ma anzi sono spesso filo-israeliani (data oltre a tutto la politica populista di Netaniahu, non certo incompatibile con l’antislamismo radicale leghista). Ma essi sono per la democratura, ossia per la democrazia che Orban dice “illiberale”, che pone il governo del “pueblo”, ora pure cosiddetto “della rete”, come “dominus” rispetto al parlamento; e certo pure, quando sarà, per Salvini rispetto alla magistratura. Ma dopo il 1945 nel loro insieme – a parte taluni gruppuscoli pseudorivoluzionari, presenti come opposti estremismi – neanche i fascisti, in Francia come in Italia, hanno mai preteso di più[11]. In Francia de Gaulle nel 1958 era stato invocato al potere dalla destra dei generali e dei colonialisti d’Algeria (non certo per chiudere la guerra d’Algeria come ben presto fece), e in Italia un centrodestra consolidato, comprensivo dell’estrema destra neofascista, era stato addirittura il sogno di Pio XII e allora della sua potentissima chiesa, almeno per Roma, nel 1952 (ma fare questo a Roma non sarebbe stato come farlo a Roccacannuccia)[12]. Quella finestra del centro aperta verso l’estrema destra, fatta fallire da De Gasperi, che perciò non fu più ricevuto in Vaticano sino alla morte, restò aperta, come possibilità, dopo il 1952, per ben otto anni. L’ipotesi democratico-reazionaria nel luglio 1960, incarnata dal Governo Tambroni, fu sconfitta dalla forza d’urto del movimento operaio, che era in espansione grazie al “miracolo economico” e alla potenza crescente del numero (nelle fabbriche dell’operaio-massa, della catena di montaggio, del tempo), e grazie alla capacità di mobilitazione politica e tattica di Togliatti, il quale ultimo era un autentico genio politico. Poi il disegno democratico-reazionario, fallito nel luglio 1960, però provò a rinascere, tale e quale a quello fallito tra 1952 e 1960, con Berlusconi nel 1994. Berlusconi iniziò anzi la propria grande avventura populista di centrodestra proprio aprendo al neofascismo nella lotta per il Campidoglio del 1994, emulando – senza volerlo esattamente – il sogno papale reazionario del 1952 (sostenuto in quegli anni dal nobilissimo antifascista don Luigi Sturzo). E oggi, in una forma che per l’estrema destra dal 1945 era follia sperare, il disegno democratico reazionario torna come ipotesi di destracentro senza trattino, ma con un apporto di populismo di sinistra addomesticato, la cui consistenza è difficile da calcolare a tavolino, di una parte certo importante del M5S, dopo crisi interna, dopo le elezioni europee. Queste sono le basi della democratura (“nera” e “rossa”, e “quanto” si vedrà), che affermandosi in uno dei tre grandi Paesi dell’Europa, l’Italia, avrebbe un significato non meno importante per i “vicini” del governo Mussolini del novembre 1922 (lo ripeto: questa volta senza dittatura alcuna).

Tutto ciò non è fatale (sia assolutamente chiaro). Ma ogni ondata del genere – ci insegna Madama la Storia – non si vince né con gli strilli da “Dagli all’untore” rivolti al preteso tiranno, che lo accreditano anzi come “Duce” in panchina, e neppure con i blocchi trasformistici tra moderati e “innovatori” di turno, che via via inquinano moralmente e rovinano finanziariamente uno Stato liberale o liberaldemocratico.

Occorre piuttosto vincere l’avversario neo-reazionario andando incontro alle pulsioni che l’alimentano rispondendo ad esse in una chiave democratica e progressista. Ad esempio secondo me è chiaro che la sconfitta di Renzi ha voluto dire anche sconfitta di un possibile populismo democratico e di sinistra: sconfitta che per ciò è stata manna dal cielo per il populismo democratico di estrema destra di Salvini (e per quello forzatamente, ma non casualmente, complementare di Di Maio).

Va comunque notato, su un piano più “storico”, che la vittoria del populismo – base di massa e “ideale” dell’incombente “democratura” – ha ragioni molto profonde. Oggi nel mondo della globalizzazione intanto c’è una pericolosissima frattura generazionale (giovani contro vecchi, anche se questa volta i primi non cantano “Giovinezza”): frattura alimentata dal fatto che uno su tre giovani in Italia non ha lavoro; e quando il giovane questo lavoro ce l’abbia, spesso è precario. Inoltre c’è, in Italia, il terzo debito pubblico del mondo, e cresce. Ci sono non già troppi immigrati, ma troppi immigrati abbandonati per strada a chiedere la carità o peggio, invece che ospitati e messi a lavorare, “in cambio”, anche se “in transito” o “irregolari”, dai pubblici poteri. Inoltre nell’Unione Europea – che pure ci ha costretti a comportamenti economici meno irragionevoli, e soprattutto ci ha impedito di fare dissesto come l’Argentina o il Venezuela comperando i nostri titoli di Stato decotti – c’è “troppo poco unione europea”. L’UE non si fa carico di gestire “tra 27 Paesi” gli immigrati, e i “nostri” cittadini si spazientiscono. E ogni “potenza” vuol fare il suo “gioco” in politica estera, come si vede con la Libia, ma pure nei rapporti economico-politici Italia-Cina. Bisogna rilanciare, anche a piccoli passi, gli Stati Uniti d’Europa, cominciando a unire la gestione degli immigrati, l’esercito e la politica finanziaria. E la sinistra deve rinascere, nei programmi “storici”, nei fini “politici” e nell’organizzazione territoriale “capillare”. Purtroppo per ora non accade.

Anzi, un fenomeno assolutamente impressionante è il fatto che mentre la sinistra non riesce ad andare oltre la difesa del vecchio Welfare State e oltre la difesa del lavoro di chi ce l’ha, e, inoltre, a dispetto dell’epoca della “democrazia del leader”[13], seguita a far fuori tutti i capi con un minimo di carisma, e con un progetto di democrazia bipolare, da Veltroni a Matteo Renzi (se non addirittura da Occhetto a Renzi), l’area di destracentro (o di centrodesta) non ha tali ubbie, e rinnova persino, in misura rilevante, il suo vecchio bagaglio ideologico (non limitandosi a lasciarlo cadere ove sia impraticabile, come fa la sinistra). Per questo la democratura ha purtroppo tante chances di vittoria. Marine Le Pen ha commesso il suo piccolo parricidio “ideale”, e Salvini il suo “bossicidio” e “maronicidio” politico, sostituendo la patria italiana alla patria pretesa “padana”. E probabilmente l’americano Steven Bannon è davvero un ideologo del populismo di destra mondiale che dovremmo studiare criticamente ben bene, e Salvini è oggi, in Europa, il suo primo profeta (però con Di Maio “unito nella lotta”, sino a prova contraria).

Tuttavia non dobbiamo neppure cedere al cupo pessimismo e al disfattismo sterile, perché non essendo in gioco la democrazia, ed essendo oggi piuttosto volatili tutti i fenomeni di consenso nel tempo di Internet e dei media insopprimibili, c’è tutto il tempo di rifarsi “come sinistra”, purché ci si sappia rinnovare profondamente, tramite soluzioni al passo idealmente, programmaticamente e organizzativamente con i tempi: forte opzione ideale liberale, socialista e ambientalista; forte opzione per la democrazia bipolare, basata sul maggioritario a due turni e in ogni caso su norme garanti di governi di legislatura; una giustizia rapida ed efficace; meno tasse sul lavoro e investimenti nei lavori pubblici; lotta senza quartiere contro la criminalità organizzata specie al sud; sostegno ad ogni forma di cooperazione e cogestione nell’economia, e pratica di ogni forma di volontariato nel sociale; impegno forte verso gli Stati Uniti d’Europa, da anticipare tramite comune gestione tra ventisette Paesi di immigrati, politica finanziaria e politica militare, Prima o poi tali “fini” – nel loro insieme o in molti tra tali punti – torneranno ad essere il comune sentire di una grande comunità organizzata di lavoratori e cittadini, che in quest’epoca solo il PD può organizzare (sicché andrebbe sostenuto).

Potrà accadere, ed anzi accadrà di certo, ma quando?

(Segue)

  1. K. MARX – F. ENGELS, Manifesto del partito comunista (1848), a cura di E. Cantimori Mezzomonti, e con Introduzione di B. Bongiovanni, Einaudi, Torino, 1998.
  2. Laterza, Roma-Bari, dicembre 2018.
  3. In Russia, prima del 1917, il “popolo genuino”, ossia il popolo “populisticamente” inteso, era opposto sia allo zarismo che al modo di essere occidentale, capitalistico o anche socialdemocratico. Il “vero” popolo in Russia era stato identificato, tra fine del XIX secolo e 1917, soprattutto con i contadini, con idea di un socialismo rurale, basato sulle comunità di villaggio (mir), saltando il capitalismo, che però secondo i marxisti era ormai arrivato irreversibilmente in Russia. I populisti russi erano talora terroristi, come il fratello di Lenin (che si chiamava Vladimir Ilic Ulianov), Alexandr, impiccato perché aveva attentato alla vita del successore al trono. Il LENIN protomarxista, post-populista, scrisse il suo primo importante saggio proprio contro il populismo: Che cosa sono gli “Amici del popolo” e come lottano contro i socialdemocratici (1894), in “Opere complete”, I, Edizioni Rinascita, Roma, 1955, pp. 123-339. Ma si veda soprattutto il classico: Franco VENTURI, Il populismo russo, Einaudi, Torino, 1952, due voll.
  4. F. LIVORSI, Sinistra e Partito Democratico nell’”era” di Salvini, “Città Futura on-line”, 24 febbraio 2019; La decadenza della democrazia, 3 aprile 2019.
  5. F. ALBERONI, Movimento e istituzione, Garzanti, Milano, 1977.
  6. P. TOGLIATTI, Lezioni sul fascismo (1935), a cura di E. Ragionieri, Editori Riuniti, 1967.
  7. R. DE FELICE, Mussolini, Einaudi, Torino, 1965/1996, quattro volumi in otto tomi.
  8. Il dato è noto. Comunque rinvio particolarmente a: A. BULLOCK, Hitler. Studio sulla tirannide (1952, 1962), Oscar Mondadori, Milano, 1979, pp. 88-89, sul 1930. In quel caso fu espulso Otto Strasser, capo della sinistra. Problemi del genere si affacciarono sino al 1934, pp. 164-171. Lì si vede che la strage delle S.A. di Rohm del giugno 1934 aveva un nesso con questa “sinistra” nazista, che dopo l’espulsione di Otto Strasser nel 1930 contava ancora tramite Gregor Strasser, fratello di Otto, e il sovversivismo di Rohm. In pratica i veri “conti”, con liquidazione dell’ala cosiddetta di sinistra, tramite centinaia di assassinii (tra cui Gregor Strasser), furono fatti nel giugno 1934.
  9. ERACLITO, Dell’origine (VI/V secolo a.C.), a cura di A. Tonelli, Feltrinelli, Milano, 1993: frammento 11 a p. 54 e 15 a p. 58.
  10. E. GENTILE, Chi è fascista, Laterza, Roma-Bari, 2018.
  11. Su ciò si veda soprattutto: P. IGNAZI, Il polo escluso. Profilo del Movimento Sociale Italiano, Il Mulino, Bologna, 1989.
  12. Il papa, Pio XII, temendo che il Colosseo venisse conquistato dai detestati socialcomunisti, voleva che la Democrazia Cristiana, allora legatissima al Vaticano, accettasse di allearsi elettoralmente con i neofascisti del Movimento Sociale Italiano, tramite lista civica presieduta dal fondatore del Partito Popolare e antifascista indiscusso, don Luigi Sturzo, che accettava. In sostanza il papa, cercando di accentuare il carattere di destra del centrismo contro i comunisti e socialisti, voleva sdoganare il neofascismo, esattamente come fece Berlusconi nel 1993 in scenario analogo. Ma allora il fascismo era finito da soli sette anni. De Gasperi, pressato molto dal papa tramite un emissario che per ironia della storia era il futuro papa riformista Paolo VI, ebbe il coraggio di rifiutare, anche se non fu mai più ricevuto in Vaticano. Su ciò è da vedere la tardiva, ma finalmente esaustiva e vera, biografia del grande statista trentino: P. CRAVERI, De Gasperi, Il Mulino, Bologna, 2006.
  13. M. CALISE, La democrazia del leader, Roma-Bari, Laterza, 2016.

 

 

Pensierini inattuali

– IV –

Stato del mondo e Unione Europea

La situazione in cui versa l’area dell’Unione Europea in questa fase storica non è facile. Incidono “in” e “su” di essa fattori storici di grande rilevanza, quali: la globalizzazione dell’economia mondiale; la nuova rivoluzione industriale informatica e robotica; la fragilità istituzionale della UE, che certo è molto maggiore che nell’ultimo degli Stati membri poiché quasi in ogni ambito vale il diritto di veto dei singoli Stati, mentre la Commissione Europea non ha certo poteri da “governo europeo” effettivo, ma è una specie di arbitrato consensuale tra Stati membri sovrani1. Inoltre l’Unione Europea è svantaggiata dal fatto che le correnti internazionali dell’economia e della potenza sono ormai altrove, ruotando intorno a paesi come Stati Uniti, Giappone, Cina, India, e pare il Brasile. Perciò l’interesse della superpotenza americana per le crisi della vecchia Europa e del Mediterraneo si è molto ridotto, anche se i punti di massima crisi – soprattutto in aree petrolifere, o in cui stanno piccoli popoli amici come Israele – sono necessariamente “tenuti d’occhio” (pure per evitare che lo facciano potenze più o meno autoritarie e da sempre in competizione con gli USA sulla scena mondiale, come la Russia, ora nazionalista, di Putin, oppure la Cina “capitalista comunista” di Xi Jinping, che infatti nell’ultimo decennio hanno fatto passi decisivi per intromettersi o in Siria o in Turchia o, nel caso della davvero grande Cina, nell’Africa profonda, con encomiabile e però “imperiale” interventismo economico, e ora, con la cosiddetta via della seta, pure in Italia).

Come uscirne, tanto a livello mondiale che europeo?

Come per ogni problema globale, uno sguardo preliminare “sul tutto” s’impone (ce l’hanno ben insegnato Hegel e Marx). Ora, se uno osserva la storia del mondo vede che gli Stati hanno sempre avuto un mercato mai esclusivo, ma decisamente prevalente, di tipo interno (da essi regolato). Ed era così, nei paesi cosiddetti civili, persino nei semistati prima dello “Stato moderno”, ossia nell’Antichità o nel Medioevo, cioè pure al tempo in cui l’autorità “ufficiale” centrale pretesa a tutti comune, dominante, non aveva ancora conquistato il monopolio di tutta – o della grandissima parte – della violenza sul “suo” territorio, né aveva gli apparati burocratico-repressivi che soli consentono “davvero” di esercitarlo, né l’esclusiva nell’emanazione di una legge a tutti comune bon gré mal gré (ossia i tratti propri dello “Stato moderno”, comunque governato). All’economia familiare (domestica) prevalente nel mondo antico, ancora al tempo di Aristotele (IV secolo a. C.)2, corrispondeva la città-stato, e così via via, per cerchi sempre più ampi, tramite processi ovviamente complicati sia nello “spazio” che nel “tempo”. All’economia prevalentemente nazionale corrispondevano gli Stati moderni tendenzialmente nazionali. L’idea di Stalin di fare il “socialismo in un solo Paese”, o quella alla base della costruzione del Welfare State socialdemocratico o cattolico sociale, connessa sul piano della dottrina economica a Keynes3 e alla programmazione economica più o meno forte da parte dei “pubblici poteri”, si fondava sul carattere molto più nazionale che mondiale dell’economia, e quindi della politica economica. Ma oggi il mercato prevalente è internazionale, tanto che persino una semplice automobile spesso assembla pezzi che vengono fatti in mezzo mondo e poi messi insieme; e fabbriche e affari si spostano sul pianeta in modo “naturale” come non mai, a dispetto di ogni protesta “nazionale” dei cittadini, che è destinata ad essere – magari dopo qualche “balletto” – “flatus vocis”. Basta un clic sul computer, o la comunicazione via skype, o qualche rapido viaggio o trasferimento di manager, e il gioco è fatto (in inglese naturalmente). Appunto a dispetto di qualsiasi protesta “nazionale” o di ogni nostalgia “sovranista”, di “destra” o anche di “sinistra”.

Se il reale fosse razionale, la sola soluzione possibile, in presenza di un mercato in gran parte mondiale “in tutto” (oltre a tutto dopo la fine, intorno al 1991, del duopolio USA-URSS sul mondo realizzato dal 1945), sarebbe uno Stato mondiale, possibilmente federale (o almeno confederale, ossia fatto di Stati perennemente associati, sebbene non ancora con materie decisive “messe insieme” come accade invece nel federalismo, convenzionalmente detto così – nel pensiero politico contemporaneo – in riferimento al tipo americano o svizzero4). Se il reale fosse razionale oggi s’imporrebbe dunque non già il non-stato, che è un’utopia, basata sull’idea del primato assoluto dell’economia sulla Forma-Stato, bensì la regolazione dell’economia ormai mondializzata da parte di uno Stato mondiale. E, in effetti, qualcosa del genere è emerso a ridosso delle due guerre mondiali, come indizio di tale “bisogno”, sin qui irrealizzato: dall’utopia del presidente americano Wilson di fissare 14 punti per la pace universale nel gennaio 1918, al sogno nazista di un “Reich millenario”, tramite un conflitto senza uguali nella storia umana, nella seconda guerra mondiale. Persino la Società delle Nazioni come poi l’Organizzazione delle Nazioni Unite sono nate da istanze del genere (per quanto ampiamente disattese, essendo esse più che altro l’indizio di un bisogno sin qui insoddisfatto dell’umanità, giunta ad uno stadio mondializzato del suo lungo cammino economico sin dal tempo della Grande Guerra, ma in modo prorompente e quasi a mareggiata nel XXI secolo). Oggi suppliscono a ciò le periodiche conferenze mondiali tra Stati più sviluppati, ma i loro accordi (sul clima o altro), non avendo la forza di trascinamento di un potere che li imponga (Stato), restano in grandissima parte disattesi. Per molti teorici questo indica che la tecnica sovrasta ormai la volontà umana5; e ciò può essere vero, ma la situazione è assai aggravata dall’assenza di Stato, o anche di semistato, a livello mondiale, e persino di un duopolio delle potenze che lo surroghino, come USA e URSS avevano fatto più o meno sino al 1968 o poco oltre. Ciò rende anomico il mondo economico globale, oltre a tutto in una tale età tecnologica “scappata di mano”. In conseguenza di ciò persino tutta la natura “lìè malada”, per non parlare della pace mondiale. E ciò smentisce sia i teorici di un mercato che possa fare a meno dello Stato, che anzi secondo loro in gran parte ne sarebbe il parassita, da Smith a Hajek e all’anarcocapitalismo (cui si connette il liberismo “eccessivo” reaganiano, tatcheriano o altro), sia i teorici – loro malgrado complementari a quelli – del capitalismo che si autoregola, e che solo lo scasso rivoluzionario del sistema – come l’”arrivano i nostri” nei vecchi western, quando facevano irruzione le “giacche azzurre” a liberare gli assediati dagli indiani – potrebbe interrompere (ex operaisti o post-operaisti, che pure a sinistra per me sono stati e sono i più intelligenti della compagnia)6. Invece a mancare è proprio la regolazione obbligatoria, o almeno un minimo di regolazione obbligatoria, tra i contendenti economici (ossia la potenza statale, o almeno “semistatale”, super partes, di tipo ormai mondiale come mondiale è – in tutto e per tutto – l’economia).

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Ora la spinta allo Stato universale, o quanto più prossimo a una cosa del genere di tipo “effettuale”, nella storia sembra aver seguito due vie.

La prima, e più usata, via è stata lo Stato-impero, che con la forza ha cercato di subordinare a uno Stato sovraordinato – fosse esso una città come Roma antica, o un popolo sotto un despota come in tanti imperi del passato – più territori e popoli, sia che fossero assimilati a un comune diritto “romano” (oltre che alla forza), o sottomessi come cittadini di serie B o C o D ad una potenza sovrana. Questa via, in forma tecnicizzata, sanguinaria e criminale come non mai, è stata quella di Hitler, appunto con l’idea del “Reich millenario”: quantomeno “da cominciare” tramite un vasto impero continentale, etnocentrico e razzista, che aveva cercato di imporsi da Parigi a Vladivostock, nella vasta area macroeuropea continentale allora considerata “caput mundi”. Ma tutti i grandi imperi del passato hanno teso a sottomettere a una grande potenza aree quanto più possibile vaste, in specie contigue, ma talora anche lontane. Questo modello grazie al cielo è stato liquidato nel 1945 (altrimenti saremmo stati e saremmo tutti sotto il tallone di ferro delle SS).

Ma ci sono storici marxisti, tra cui Bruno Bongiovanni, i quali hanno sostenuto che la stessa Unione Sovietica fosse da considerare l’ultimo grande Stato-impero: la continuazione dell’Impero zarista, plurinazionale e plurietnico, travolto e “nella sostanza” salvato dai bolscevichi – diversamente dagli imperi asburgico e guglielmino – e finito solo col crollo dell’URSS del 19917. È chiaro che se la via del matrimonio consensuale plurimo tra Stati, di cui ora dirò (federalista), salta di nuovo per aria, torna quella degli Stati che competono per la potenza in un mondo senza legge (alla lunga fonte di guerre sempre più spaventose). Per questo, prima ancora del corto circuito mondiale d’oggi, avvertendone l’arrivo, il maggior studioso italiano di Gandhi, Giuliano Pontara, aveva scritto un libro dicendo che Hitler stava tornando “di moda”, volendo dire che tornava la “logica” della forza bruta tra Stati, che tanto in economia quanto in politica seguono la linea del mors tua vita mea (cui contrapponeva la “nonviolenza” come antidoto)8 La conseguenza apocalittica è quello che in un mio romanzo-saggio di tipo distopico ho chiamato Kali Yuga, cioè la guerra mondiale nucleare tra imperialismi opposti, diversi ma complementari (l’uno liberaldemocratico e l’altro nazicomunista), lì immaginata tra circa cinquant’anni9.

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L’altra via, rispetto alla solita lotta senza legge tra Stati “sovrani”, è appunto quella del federalismo10, la cui forma compresa tra Per la pace perpetua (1795) di Immanuel Kant, il Federalist di Alexander Hamilton, e compagni, in specie come James Madison (1788), e il Manifesto di Ventotene di Ernesto Rossi e Altiero Spinelli (1941)11, è stata ripresa dal Movimento Federalista Europeo. Questi amici sanno bene che il problema è quello di fare uno “Stato di Stati” mondiale, e che lo stesso Stato di Stati europeo è (sarebbe) solo una tappa in quella direzione12; e che l’alternativa a ciò è solo la ripresa della politica economica e di potenza degli Stati per avere quanta più potenza possibile nel mondo, essendo questo per il grande politologo nazista e post-nazista Carl Schmitt il “nomos della terra”, e per il suo maggior studioso italiano, oggi della sinistra “antagonista”, Carlo Galli, l’immarcescibile logica della sovranità degli Stati, che potrebbe avere anche una versione progressista13: tendenza al kràtos contro l’éthos, ossia al “potere” territoriale massimo possibile contro la “morale” universale, investigata già genialmente da Meinecke, da Treitschke e anche da Gerhard Ritter (orientamento che ha infine portato alla catastrofe della Germania nel 1945)14. Può darsi che il sovranismo, nel senso dei teorici dello Stato-potenza, come salvezza o sciagura o destino, sia una specie di legge della storia nel mondo moderno, ma allora si deve riconoscere che lo sono pure le guerre sempre più apocalittiche, che in tutti i modi dovrebbero invece essere evitate.

Ciò posto – e con questo siamo appunto totalmente alla seconda via – non c’è e non può esserci pace senza “Stato di Stati”, ossia senza federalismo europeo e mondiale: dapprima unificando i continenti sotto uno “Stato di Stati” comune e, via via, unificando federalisticamente il mondo. Ma non può neppure più esservi potenza economica, nel mondo della globalizzazione e dell’elettronica e robotica di cui si è detto, senza superamento dello Stato nazionale (verso quello continentale o/e mondiale). Perciò il federalismo, lo “Stato di Stati”, “ragionevolmente” s’imporrebbe, sia per seguitare a salvaguardare la pace in tutto il mondo sviluppato e sia per poter governare politicamente l’anomia economica mondiale. Ma io aggiungo che tutto ciò s’imporrebbe appunto se il reale fosse razionale, cioè se l’astrattamente vero potesse coincidere tout court con il concreto (il che però non è, o lo sarà dopo chissà quali catastrofi).

In effetti gli amici federalisti europei sono sostanzialmente dei neokantiani o dei neohegeliani (tutti filosoficamente “idealisti”), che considerano le tendenze patriottiche extrastatali come “tribalismi” (ripeteva spesso il mio amico ed ex collega Sergio Pistone dell’Università di Torino), rispetto alla positiva tendenza aggregante degli Stati nella Storia (tendenza che sarebbe “reazionario” contrastare, come facevano ad esempio i paesi baltici alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso cercando di staccarsi dall’URSS invece di lottare solo per democratizzarla). Per essi, come già per ogni idealismo sino a Gentile compreso (ma era stato vero pure per Mazzini, che del resto era un idealista, seppure totalmente “democratico”), “è lo Stato che fa la nazione”15 (o, nel federalismo, è lo “Stato di Stati”, lo Stato federale, che fa il popolo europeo, o, un giorno, “mondiale”), e mai il contrario. Ricordo in proposito certe polemiche tra loro (in specie Sergio Pistone e Lucio Levi) e Gian Enrico Rusconi, nel Dipartimento di Studi Politici dell’Università di Torino, alla fine degli anni Ottanta o all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, contro la tendenza di Rusconi a valutare la nazione come fenomeno “anche” ancestrale (quasi inconscio, o semiconscio, collettivo), sia pure da razionalizzare e democratizzare mutandolo in patriottismo costituzionale (nel senso di Habermas). Erano anche – nel loro neoilluminismo, direi neokantiano, sconfinante nell’idealismo hegeliano, o meineckiano – pronti a rileggere positivamente il materialismo storico (in senso evidentemente hegelo-marxista), cioè il primato dell’economia nella storia in vista dello “Stato di Stati” auspicato per l’Europa (e per il mondo). L’ideale per loro era unire in matrimonio indissolubile gli Stati, “dei” e “tra” i continenti. L’interesse del genere umano, ma anche dell’homo oeconomicus, avrebbe portato a ciò. Convergevano perciò con il ragionamento, in ciò “marxista”, dell’importante statista e socialista francese Jacques Delors, presidente della Commissione Europea dal 1985 al 1995 e principale fautore dell’euro e dei trattati relativi nel 1988/1992. Questi pensava che siccome a battere moneta è lo Stato, l’esistenza di una moneta europea senza Stato (in tal caso senza “Stato di Stati”) cui facesse capo, avrebbe portato dietro “necessariamente” – come economia che trascinerebbe la politica – la costituzione dello Stato, o “Stato di stati”, europeo (in certo modo costringendo gli Stati che avessero adottato l’euro a fare lo “Stato di Stati” europeo, anche invertendo l’ordine dei fattori “normale” tra nascita dello Stato e nascita della moneta). I miei amici federalisti europei di Torino dicevano che una volta che avessimo avuto l’euro “in tasca”, tutto sarebbe stato funzionale appunto alla formazione dello Stato di Stati europeo16.

Tuttavia per ora questa partita promette male. Infatti, anche se stiamo giocando i tempi supplementari, “quella” partita è molto a rischio, sebbene non ancora persa (i “calci” dei prossimi “cannonieri” dopo le elezioni europee del 26 maggio 2019 saranno decisivi). L’Unione Europea non è diventata uno Stato di Stati, anche se la moneta comune è un tratto effettivamente da “Stato di Stati” europeo (federalista), come lo è pure il primato del diritto europeo, che in caso di contrasto palese s’impone su quello nazionale (per ora molto blandamente).

Non è qui il caso di fare, anche in estrema sintesi, la storia dell’Unione Europea, dei suoi tentativi e dei suoi fallimenti, e del fatto che però la prospettiva dell’Unione Europea come Stati Uniti d’Europa, pur tra mille difficoltà, non è scomparsa. Se il PCI nel 1979, nelle prime elezioni a suffragio universale del Parlamento europeo, su pressione di Giorgio Amendola e per merito di Enrico Berlinguer aveva portato nel Parlamento Europeo lo stesso Altiero Spinelli, cioè il principale teorico e fautore degli Stati Uniti d’Europa dal 1941, il PD – che per li rami ne è pure derivato – prosegue la battaglia, tramite un europeismo più pragmatico e riformista, oggi incarnato soprattutto da candidati economicamente ferrati, che vanno coscientemente in quella direzione, come Carlo Calenda e il novese-alessandrino Enrico Morando.

La partita per gli Stati Uniti d’Europa, comunque – è giocoforza ammetterlo – è assolutamente incompiuta. Lo Stato di Stati – non solo quello integrale auspicato da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi dal 1941, ma anche quello voluto da Delors in termini assai più gradualistici – latita. La dottrina Delors è “semifallita” anche per un dato dottrinario, e direi filosofico politico, che portava a tale fallimento: il carattere di “struttura” dello Stato, e non dell’economia (o non soprattutto dell’economia, a dispetto dell’economia classica “borghese” ricardiana come del marxismo originario, “vero”). Non è risultato provato che l’euro porti allo “Stato di Stati” europeo; e ciò nonostante le impressionanti potenzialità di un’Unione Europea di mezzo miliardo di abitanti, che se si evolvesse nel senso degli Stati Uniti d’Europa, persino a piccoli passi, ma senza mai arretrare, si trasformerebbe in prima potenza economica, e per ciò politica, del mondo, bagnando il naso alla Russia come agli Stati Uniti , come aveva previsto l’importante economista ecologista americano Jeremy Rifkin, in: “Il sogno europeo. Come l’Europa ha creato una nuova visione del futuro che sta lentamente erodendo il sogno americano” (2004)17. Ma perché non è accaduto e non sta accadendo? – Il tema è di nuovo teorico, oltre che storico.

Il fatto è che gli Stati hanno voluto avvalersi, e persino “approfittare”, di ciò che è comune – l’euro, per chi ce l’ha, che ha più volte salvato l’Italia dalla bancarotta tramite acquisto di titoli di stato decotti da parte della Banca Centrale Europea – senza però mollare l’osso della sovranità, che ogni Stato vorrebbe “esclusiva” (senza dare competenze decisive in modo più o meno esclusivo allo Stato di Stati europeo). Ma questo accade perché lo Stato – proprio come la classe dominante nel marxismo – in quanto è “struttura”, o comunque la forza maggiore in campo, non molla mai il potere se non glielo tolgono brutalmente di mano; o lo fa meno che possa, soffrendo ogni volta come un uomo cui si amputi un arto senza che lui possa evitarlo. Persino lo “Stato di Stati” americano, anche ammettendo che idealmente fosse stato anticipato già tra Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti di Thomas Jefferson del 1776 e Costituzione di Filadelfia del 1787 (come sostengono i federalisti europei), è diventato “realtà” (un razionale “reale”) solo dopo una guerra di secessione tra nordisti e sudisti, del 1861/1865, con almeno seicentomila morti su ventiquattro milioni di abitanti degli Stati Uniti di quel tempo18. Lazar sosteneva, nel dibattito richiamato del 4 maggio ad Alessandria, che nella nostra UE sembrano maturi i tempi per una comune politica militare europea. Si tratta di una tendenza forte, oltre che di un buon auspicio, ma prima di credervi vorrò vederlo. Non so se sarà possibile realizzare, in un Parlamento europeo in cui popolari e socialisti non saranno più maggioranza assoluta, quello che non è stato realizzato sin qui. Pare che l’Unione Europea sia destinata a diventare, invece che federale (Stato di Stati) ancor più confederale (patto tra Stati sovrani, Europa “delle patrie” d’ascendenza gollista, ha spiegato chiaramente Lazar).

Quel che è accaduto sinora è più fonte di preoccupazione che di speranza. Gli Stati grandi e piccoli hanno usato la moneta unica, quando l’avevano, ma seguitando a non voler condividere, e per ciò mettere insieme, la “sovranità” (in politica economica ed estera). In ciò la massima responsabilità è stata della Francia e dell’Inghilterra. La Gran Bretagna si è sempre sentita più prossima all’America che all’Europa, e ha finito per uscirne, sia pure abbastanza irrazionalmente e tra molte difficoltà. La Francia ha fatto fallire negli anni Cinquanta, con voto in parlamento dell’agosto 1954, l’unione militare europea (la Comunità Europea di Difesa) e nel maggio 2005, insieme all’Olanda, la Costituzione europea (tramite referendum). La Germania ha preteso di imporre a tutti il passo di quello che era stato il suo marco, traendone vantaggi, come grande potenza esportatrice, ma nell’insieme sembra essere la più europeista della compagnia (anche perché senza Unione Europea sarebbe costretta – dal contesto globale del mondo degli antichi Stati nazionali in competizione – a riscoprire tendenze alla politica di potenza risultate rovinose, alla fine proprio per “lei”, nel suo passato).

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Lo scacco almeno temporaneo di organizzazioni come l’ONU, assente o impotente nelle grandi crisi mondiali, e la grave crisi del federalismo europeo non sono stati senza conseguenze. Hanno finito per determinare il fenomeno chiarito da Edgar Morin e Anne Brigitte Kern sin dal 1993 tramite la formula icastica per cui “la crisi del futuro riattualizza il passato”19. Hanno insomma ingenerato, in politica, il fenomeno che in psicoanalisi è chiamato del “ritorno del rimosso”. In sostanza i popoli, non avendo forme comuni in grado di difendere “il lavoro” ed i diritti sociali acquisiti dai cittadini; e disturbati dalla concorrenza o comunque dalle reali o pretese diversità di stile di vita degli immigrati, hanno reagito tornando a forme antiche credute da lungo tempo morte o moribonde: alle dogane, ai muri divisori, alla xenofobia, al nazionalismo, ai movimenti reazionari con basi di massa, eccetera. Il fenomeno oggi è assolutamente impressionante perché si manifesta in tutto il mondo, dall’America alla Finlandia, dalla Russia alla Slovacchia, dalla Polonia all’Ungheria, ed è molto avanti in Francia e ancor più in Italia. Nel nostro Paese si chiama Lega di Matteo Salvini (in connubio “movimentato” con il M5S di Di Maio). Come sempre alla fine questa via porterà più danni che vantaggi (se non addirittura rovina), ma per ora sembra la tendenza più forte.

A me sembra che il populismo si configuri come una tendenza variegata, ma destinata a coagularsi, o che rischia davvero di coagularsi, a destra, in forma di democratura, in molti grandi Stati a partire dall’Italia. In parte è accaduto negli anni Venti; in parte corrisponde alla tendenza moderata di destra sin dagli anni Cinquanta, e in parte incarna la nuova forma del movimento reazionario di massa del nostro tempo. Ma su ciò sono già intervenuto qui.

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Nell’Unione Europea probabilmente questa linea “a maggio” non prevarrà, ma potrà rendere più ingovernabile l’Unione e condizionare “da destra” il centro moderato (democristiano), indebolendo ulteriormente le chances dello “Stato di Stati” europeo. Mentre invece avremmo bisogno come il pane di gestire in ventisette Stati associati i fenomeni migratori; di avere almeno una politica estera, militare e finanziaria, ma pure ecologica, davvero comune; e, almeno in queste materie, o almeno per i “paesi dell’euro” (o almeno per i Paesi fondatori della Comunità Europea), avremmo bisogno di un parlamento europeo deliberativo e di un governo vero almeno per tali ambiti. Ma l’egoismo degli Stati, che non hanno mai mollato “l’osso del potere” se non costretti, e la povertà ideal-sociale dei movimenti progressisti agiscono come potente remora a fare tali cose.

La sinistra ha sempre potuto farsi valere solo “in avanti”, e non con le minestre riscaldate del proprio passato. Per far fronte al “ritorno del rimosso”, o del passato semireazionario in forme nuove, l’area democratica e progressista – oltre ad avere soluzioni-tampone – dovrebbe avere grandi e nuove idee guida come: gli Stati Uniti d’Europa; l’impegno per una gestione comune dei fenomeni migratori da parte dei ventisette paesi della UE; la lotta coerente per una comune politica finanziaria, estera e militare, dei ventisette stati; un’iniziativa socialista e sindacale e ambientale di tipo sovranazionale; una vera rivoluzione delle idee, direi rossoverde (o verderossa), dopo il tramonto delle grandi ideologie ottocentesche. Si tratterebbe e si tratterà di ripensare l’idea socialista in chiave liberalsocialista, garante di giustizia libertà e governabilità di legislatura, federalista europea e mondiale, profondamente ecologista, ed anche spirituale e morale, nella dottrina politica di rinnovati movimenti storici, che per tal via dovranno rinascere (per il che, però, saranno necessari molti anni). Questa prospettiva per più aspetti è presente nell’azione del Partito Democratico, ma con livelli di elaborazione ideale e programmatica, e di passione politica (e relativa militanza), ancora inadeguati alle gravi urgenze storiche della situazione storica. Tuttavia ogni alternativa al populismo di destra dotata di potenza storica in Europa come in Italia può essere solo liberaldemocratica, socialista, federalista e verde. Piaccia o non piaccia di lì si deve necessariamente passare, se si vuole evitare che i guai della sinistra europea ed italiana si trasformino in disfatta epocale.

(Segue)

1 Notizie utilissime sulla storia, sul funzionamento e sullo stato dell’Unione Europea alla vigilia delle elezioni europee del 26 maggio 2019 sono in: F. BASSO, L’Europa in 80 domande. Istituzioni, meccanismi, falsi miti e opportunità, con prefazione di L. Fontana, Edizioni del “Corriere della Sera”, Milano, aprile 2019.

2 ARISTOTELE, Politica, a cura di V. Costanzi, Laterza, Bari, 1948. Per Aristotele l’economia era, in conformità del tempo, e non a caso, l’òikou-nomìa, ossia il “governo della casa” (un’economia domestica), a riprova di un tipo di produzione che, almeno per l’essenziale, ruotava attorno alla città-stato o pòlis.

3 J. M. KEYNES, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta (1936), a cura di T. Cozzi, UTET, Torino, 2006.

4 Naturalmente il senso dato comunemente alle parole nel pensiero politico non coincide meccanicamente con quello dato dalla pratica politica in questo o quel Paese. Così il pensiero politico chiama confederalismo gli accordi di potere a tempo indeterminato tra Stati che restano in tutto e per tutto sovrani nel loro territorio, e federalismo le unioni tra Stati che attribuiscono alcuni poteri tipici dello Stato nazionale – in specie la politica finanziaria ed estera (con esercito annesso), in esclusiva a un governo che s’impone agli Stati membri (ossia lo Stato di Stati). Ma paesi come la Svizzera, che dopo il 1848-1849 sono diventati federali, hanno seguitato a chiamarsi confederazione.

5 Si vedano ad esempio le idee, divergenti-convergenti, di due notevoli filosofi del nostro tempo_ M. HEIDEGGER, La questione della tecnica (1954), tr. di G. Vattimo, con un saggio di F. Sollazzo, Go Aware, Firenze, 2017; Ormai solo un dio ci può salvare. Intervista con lo “Spiegel” (1967, ma 1976), Guanda, Parla, 1986; E. SEVERINO, Il tramonto della politica. Considerazioni sul futuro del mondo, Rizzoli, Milano, 2017.

6 A. SMITH, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776), a cura di A. Roncaglia, ISEDI, Roma, 1995; D. RICARDO, Principles of Political Economy and Taxation (1821), in: “Opere di D. Ricardo”, a cura di P. L. Porta, UTET, 1986. Ma convergeva pure K. MARX, in: Il capitale (1867), tr. di D. Cantimori, Editori Riuniti, 1962, perché tutte le leggi tendenziali del sistema capitalista sono connesse a un assetto di libera concorrenza, per ciò privatistico, pressoché allo stato puro, senza il quale neanche concetti come valore o plusvalore lì avrebbero senso; l’”ordine” si può alterare, ma preparando con ciò il suo rovesciamento speculare. Il liberismo poi si oppone soprattutto al “planismo”, comunista come socialdemocratico, in: A. von HAYEK, Via della servitù (1944), Bompiani, Milano, 1948; R. NOZICK, Anarchia, stato e utopia (1974), Le Monnier, Firenze, 1981; Per una nuova libertà. Il manifesto libertario (1978), Liberilibri, Macerata, 1996 (teorico dell’anarcocapitalismo, cioè del “laissez faire” allo stato puro). Si confronti con il marxismo operaista, in cui l’idea del capitalismo che si autoregola – se la rivoluzione non lo sopprime – è sempre decisiva, come n: A, NEGRI, Crisi dello Stato-piano. Comunismo e organizzazione rivoluzionaria (1971), Feltrinelli, Milano, 1979; M. HARDT – A, NEGRI, Impero. Guerre e democrazia nel nuovo ordine imperiale (2000), Rizzoli, Milano, 2004.

7 B. BONGIOVANNI, La caduta dei comunismi, Garzanti, 1995.

8 G. PONTARA, L’antibarbarie. La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo, Gruppo Abele, Torino, 2006.

9 F. LIVORSI, Kali Yuga. Il crepuscolo del nostro mondo, Moretti & Vitali, Bergamo, 2014.

10 Per un orientamento approfondito si veda soprattutto: C. MALANDRINO, Federalismo. Storia, idee, modelli, Carocci, Roma, 1998; Un popolo per l’Europa unita. Fra dibattito storico e nuove prospettive teoriche e politiche, Olschki, Firenze, 2004.

11 I. KANT, Per la pace perpetua (1795), a cura di N. Merker e con prefazione di N. Bobbio, Editori Riuniti, 1992 (su ciò rinvio pure al mio saggio: Pace perpetua e unione mondiale, in: “Stati e Federazioni. Interpretazioni del federalismo”, a cura e con introduzione di E. A. Albertoni, Eured, Milano, 1998, pp. 3-31); Il Federalista, a cura di A. Hamilton (1788), con Introduzione di L. Levi, M. D’Addio, G. Negri, Il Mulino, Bologna, 1997; A. SPINELLI – E, ROSSI, Il manifesto di Ventotene (1941, ma edito nel 1943 e poi con Prefazione di E. Colorni, 1944), Prefazione di T. Padoa Schioppa e Introduzione di L. Levi, Oscar Mondadori, Milano, 2006.

12 L. LEVI, Crisi dello Stato e governo del mondo, Giappichelli, Torino, 2005.

13 C. GALLI, Sovranità, Il Mulino, Bologna, 2019. Ma si confronti con la monumentale e fondamentale opera dello stesso: Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, ivi, 1996.

14 F. MEINECKE, L’idea della ragion di Stato nella storia moderna (1924), Sansoni, Firenze, 1970; La catastrofe della Germania. Considerazioni e ricordi (1946), La Nuova Italia, Firenze, 1948. Ma sulla politica di potenza, lì razionalizzata, si veda; H. von TREITSCHE, La politica (1899), Laterza, Bari, 1918. Da un punto di vista filosofico politico questa problematica è profondamente discussa da: G. RITTER, Il volto demoniaco del potere, Il Mulino, Bologna, 1958.

15 Questo concetto, tipicamente idealistico hegeliano, era pure presente nel maggior testo di autorappresentazione dottrinaria del fascismo, La dottrina del fascismo (1932), originariamente Fascismo, in “Enciclopedia italiana”, vol. XIV, Treccani, Roma, 1932, pp. 847-857, comprendente una parte sul “movimento” e una sulla “dottrina”, firmate entrambe da Benito MUSSOLINI, che però aveva scritto solo la prima parte, mentre la seconda, sotto la sua sua supervisione, era stata scritta da Giovanni Gentile. Tale visione del rapporto tra Stato e Nazione era allora diversa da quella del nazismo, raggiunto dal 1938 in poi. Per la continuità – su Idea-Stato-Nazione- tra Gentile e Mazzini (o pretesa continuità), è da vedere il libro di G. GENTILE I profeti del Risorgimento italiano, Sansoni, Firenze, 1923.

16 Su ciò si veda il vol. collettaneo prodotto dal centro Gioele Solari del Dipartimento di Studi Politici dell’Università di Torino: Il rilancio dell’Europa. Il progetto di Jacques Delors, a cura di C. G. Anta, Angeli, Milano, 2004.

17 J. RIFKIN, cit., Oscar Mondadori, Mlano, 2005.

18 In proposito si veda soprattutto: R. LURAGHI, La Guerra civile americana. Le ragioni e i protagonisti del primo conflitto industriale, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2013.

19 E. MORIN – A, BRIGITTE KERN, Terra. Patria (1993), Cortina, Milano, 1994, p. 72.

 

 

Nelle precedenti riflessioni “inattuali”, dopo aver posto “nero su bianco” alcuni punti d’impostazione, ho provato a sciogliere due nodi che mi sono parsi più rilevanti degli altri: l’ascesa del populismo sovranista in Occidente, con particolare riferimento all’ Italia, e il problema dell’Unione Europea nel mondo d’oggi.

Di qui in poi vorrei affrontare una serie di nodi teorici, anche filosofici, prima di “tornare a terra” – quando sarà – discutendo nuovamente di problemi politicamente rilevanti per la nostra epoca (alla luce di tali acquisizioni).

Procedo dal “mito”. Quanto sia per me importante la questione del mito l’ha qui ben spiegato la mia amica ed antica allieva Patrizia Nosengo recensendo da par suo, cioè ottimamente e al tempo stesso senza piaggeria alcuna, il mio ultimo “strano” libro, cui moltissimo tengo: “Anima e Mondo. Il poema sulla storia e sui sogni. L’idea della rinascita nel XXI secolo[1]. Anticipo la riflessione precisando che la faccenda del mito – formalmente così lontana dai discorsi che facciamo di solito – ha moltissimo a che fare con il ruolo delle “cieche passioni” – ovviamente connesse con il nostro immaginario interiore – nella nostra vita, vuoi personale e vuoi collettiva. Abbiamo tutti grandi sogni, e talora purtroppo anche vere ossessioni, che ci riempiono l’anima, dall’ultimo analfabeta al luminare della scienza. Con ciò si è già sul terreno del “mito”, che è tante cose, ma certo è pure un grande sogno (o grande incubo), a occhi chiusi e aperti, che sembri prenderci l’anima.

Com’è noto la parolina più semplice per tradurre il termine greco “mythos” è “favola”. Ma c’è favola e favola. Il senso va molto oltre la “favola”, che pure coglie una dimensione imprescindibile nel mitizzare (come ben attestano gli importanti lavori di una grande allieva, amica e prosecutrice di Jung, Marie-Louise von Franz, che vede le favole come miti, espressione di archetipi dell’inconscio collettivo[2]).

Più in generale va ricordato che i Greci antichi, come già altri popoli indoeuropei, i cosiddetti “ariani” – insediatisi pure in India, sempre più o meno verso il 1500 a.C., provenendo dall’Europa del Nord sin dalle più remote regioni della Russia – hanno espresso in forma di miti poetici – prima e oltre che di meditazione religiosa e filosofica – le loro credenze religiose e morali: i primi, i Greci, in forma culturalmente immortale, dall’VIII al IV secolo a.C. attraverso i poemi Iliade e Odissea di Omero, ma pure attraverso gli Inni omerici, nonché attraverso i poemi di Esiodo, e poi attraverso le grandi tragedie di Eschilo, Sofocle e, in parte, Euripide[3], e in seguito, dal II secolo a.C. al III d.C., anche  in latino; i secondi, in India, in sanscrito, affiancando alla rivelazione dei Veda – comunicata dagli “dèi” ai saggi rishi – i grandi poemi epici e al tempo stesso filosofico religiosi composti tra il 500 a.C. e il 200 d.C., Ramayana e Mahabharata, di immensa mole.[4]

Qui c’è una differenza di fondo rispetto ai tre monoteismi, o “religioni del libro”(ebraismo, cristianesimo e islamismo), in cui “le storie” rivelate (dalla Bibbia al Corano), pur essendo evidentemente impregnate di miti dall’inizio alla fine, non si presentavano né presentano come miti, ma come verità tendenzialmente assolute, e storiche, del Dio rivelatore e del “popolo” o dei credenti da Lui ispirati, “verità” manifestatesi in parole e azioni espresse in momenti e luoghi particolari: tutte cose su cui c’è sempre stato poco da scherzare se si avesse cara la pelle, almeno quando i credenti delle rispettive fedi detenessero in modo totale, o cospicuo, il potere. Oggi non c’è nessuno più aperto al discutere i testi sacri, nel loro seno, degli ebrei; ed è abbastanza così, specie nel mondo protestante, anche tra i cristiani, ma in tempi di forte potere politico-religioso degli uni come degli altri non era stato così. Nel mondo islamico l’abito d’intolleranza verso “gli infedeli” dura “ancora” oggi.

Anche i miti intesi espressamente come tali, come in Grecia o a Roma o in India nell’Antichità, erano spesso una cosa serissima, ma erano pure “esplicitamente”, e “sempre”, frutto di un libero intuire, alias dell’immaginario “irrazionale”, da non prendere mai alla lettera (come invece ancora le “chiese” cristiane pretendono di fare con le storie su Abramo, Mosè, Davide e, più di tutto, Gesù Cristo[5]: per non parlare del letteralismo dei musulmani, che ruota attorno a un libro considerato “dettato” direttamente da Dio al loro Profeta)[6]. Aristofane o Plauto, grandi autori comici antichi, sui loro dèi potevano pure farsi pazze risate, anche se in tanti testi mitici – specie riferiti agli dèi ed eroi alla base dei misteri, ma pure nelle tragedie maggiori di Eschilo e Sofocle – emerge una religiosità “vera”, per quanto talora inquietante ed enigmatica (come del resto il sacro ha da essere sempre, se sia tale davvero).

Il più grande elaboratore di miti, dopo Omero ed Esiodo (e, almeno altrettanto, dopo Eschilo e Sofocle), è stato Platone, sol che si pensi ai notissimi miti della caverna o della biga alata o del risveglio di Er sulla pira (con cui si chiude La Repubblica)[7]. Tuttavia è discutibile che quelli di Platone, come del resto le parabole di Cristo, siano – generalmente – dei veri miti, confrontabili con le centinaia o migliaia di miti palesemente tali: essendo non già frutto “innanzitutto” dell’immaginario, ma di un “vero” che si ritenga di possedere, che viene volgarizzato tramite formidabili metafore di edificazione morale e spirituale. Il mitizzare di Platone, come poi del Cristo narratore di parabole, dipende dal Logos (inteso come raziocinio sovrano in Platone o come “parola di Dio” in Gesù e nei suoi apostoli “rivelatori” come Giovanni Evangelista e Paolo di Tarso); per contro il “vero” mitizzare non ha quasi mai un fine edificante, per ciò stesso “di logos”. O il “vero mitizzare” è al posto del logos, o comunque lo sussume, o, quantomeno, ha col logos un rapporto “alla pari”, ma mai inferiore.

Tra i Greci antichi la rottura con “l’immaginario sovrano” che procede per intuizioni empatiche, cioè col primato del sentire antropologico sul ragionare antropologico, sarebbe avvenuta coi sofisti e poi, più autorevolmente e irreversibilmente, con Socrate e Platone. A partire da loro sarebbe stata definitivamente realizzata la rottura con la “Grecia arcaica”, che era stata piena di senso dell’irrazionale (una Grecia arcaica studiata soprattutto da Dodds[8]). Dai sofisti, e poi da Socrate e Platone, e più di tutti da Aristotele, sarebbe iniziato il grande intellettualismo occidentale, filosofico e scientifico, che va ben oltre, e sussume, ogni mitizzare, come sussume pure ogni mera pratica razionale empirica, imponendo il dominio dell’astratto sul concreto, e persino “nel” concreto (ora in chiave spiritualistica e ora, negli ultimi due secoli o poco più, prevalentemente materialistica).

Nel mondo contemporaneo c’è però stato qualcuno che non ha visto “l’essere” – cioè la realtà in sé e per sé, il nucleo delle cose – né come Dio né come mera materia, bensì come energia creatrice, che assume “l’aspetto” di materia (o fors’anche di spirito): un’energia vitale infinita che, se non è apertamente irrazionale, è quantomeno irriducibile ai nostri criteri logici di razionalità e irrazionalità (direi che è preter-razionale). Ciò è valso soprattutto a partire da Schopenhauer, che nel secondo decennio del XIX secolo, ne Il mondo come volontà e rappresentazione, ha creduto di poter definire intuitivamente, e tramite innumerevoli indizi, quel reale in sé e per sé, al di là dei limiti propri della nostra sensibilità e intelletto, che Immanuel Kant – in età che non era stata romantica come quella di Schopenhauer, ma illuministica, negli ultimi decenni del XVIII secolo – nella Critica della ragion pura aveva espresso col termine “noumeno”, inconoscibile, riferito al reale com’è al di là del nostro rappresentare, ossia al di là del rappresentabile.

Schopenhauer, così, identificò il noumeno con la “volontà di vivere”: volontà come vero essere, energia vitale che in ogni punto anela solo a vivere, comparendo e scomparendo nel continuum della vita. Tale essere come volontà, negli ultimi tre decenni del XIX secolo, sarebbe poi stato specificato dall’ex schopenhaueriano Nietzsche – nel Così parlò Zarathustra e in altre opere – come “volontà di potenza”, identificata con la naturale tensione di ogni vivente – dall’ameba all’uomo, e oltre – all’affermazione di sé. Ora è caratteristico il fatto che Nietzsche iniziò la sua grande e tragica avventura dello spirito, ne La nascita della tragedia dallo spirito della musica, poco dopo la guerra franco-prussiana del 1870, proprio con una polemica con Socrate; e ciò per ripristinare non già l’assoluto dominio del pensiero mitico su quello logico, ma il primato del primo (mitico, emozionale, irrazionale) sul secondo (logico, “oggettivo”, razionale). Il primato del pensiero intuitivo empatico, “irrazionale”, sarebbe stato ovvio prima dell’affermarsi dell’intellettualismo socratico (e poi occidentale), in una grande civiltà andata almeno da Omero a Sofocle, ossia dall’VIII al V secolo a.C., e certo anteriore a Omero stesso, ove si pensi a tutto il mondo degli Achei e pure dei loro nemici nell’Asia minore (diciamo dal 1200 o 1300 a.C. in poi). Socrate, a suo dire (nel V secolo a.C.), avrebbe preteso di subordinare il sacro, o comunque la pura vitalità e interiorità, alla nostra povera ragione “umana troppo umana”, a scapito del grande sì alla Vita come Uno-Tutto: un sì che in tutto sente il “de te fabula narratur”, che invece era stato proprio del grande ellenismo, sviluppatosi dagli Achei all’età della grande tragedia attica[9], realizzando davvero quella che un filosofo “jaspersiano” e junghiano, Umberto Galimberti, anni fa ha detto la “terra senza il male”[10]: approccio greco arcaico e proto-classico (ma preplatonico) di cui, secondo Nietzsche, Dioniso – il dio del teatro tragico, e della tragicità della vita, oltre che dell’ebbra gioia di esistere – sarebbe stato il simbolo vivo e indistruttibile. Dioniso però nei Greci sarebbe stato controbilanciato, fraternamente, da Apollo, che armonizza il caos, compone opposti che parrebbero irriducibili, e, insomma, razionalizza l’irrazionale, il vivente in sé e per sé, che sempre vuole nascere morire e rinascere, essendo in sé appunto “dionisiaco”. Con ciò “Apollo”, nel dinamismo del reale in sé e per sé, in fondo avvalora l’aforisma fulminante di Eraclito, che vedeva l’essere come “armonia dei contrari, come quella dell’arco e della lira”[11] (la quale lira è la cetra di Apollo, un po’ “diversa” dai selvaggi flauti di Sileno, il vecchio maestro e amico satiro di Dioniso, che una volta volle sfidare musicalmente Apollo, che prima lo sconfisse e poi lo scuoiò vivo).

Tale linea nietzscheana, almeno dal 1929 in poi, prosegue in Heidegger, che contrapponendo lo “svelamento” o “non nascondimento” (alétheia) dell’essere stesso – cioè l’intuizione primordiale che ad ogni istante abbiamo, quando non ragioniamo sul nostro concreto vedere – all’astrattivo “giudizio” umano (orthòtes), si riallacciava a Nietzsche, considerando Platone come il fondatore della metafisica. Quest’ultima – prima in filosofia e poi anche in ambito scientifico-tecnologico – sarebbe sempre basata sulla confusione tra conoscenza della realtà in sé e astrazioni (insomma dal modo di ragionare astratto, a misura del solo intelletto): laddove l’essere – il reale in sé e per sé – si darebbe solo percependolo: in sostanza vivendolo con tutta la nostra personalità[12], per così dire dalla nostra prima all’ultima cellula (o con tutto noi stessi in quanto siamo “carnespirito”).

Tra Nietzsche e Heidegger ci sono molti ponti importanti di congiunzione: come Bergson, che contrappone la realtà come appare all’intelletto – che sarebbe un poco il nostro martello per dominarla – alla realtà che si manifesta alla nostra intuizione empatica (intuizione che non si nutre di astrazioni, ma esprime la vitalità allo stato puro, come “dato immediato della coscienza”[13]). Quest’immediatezza intuitiva non reifica “il reale vivo” in cose, in sostanza considerate astrattamente fisse (morte), come fa l’intelletto – il che va pure bene a scopi meramente pratici, purché la strumentalità non pretenda di essere la chiave di tutta la nostra vita – ma lo percepisce come una continua esplosione vitalistica (“evoluzione creatrice”): visione “secondo Natura” che nel nostro sentire vivo si esprime nei miti vitali, in cui pensiero e passione sono una cosa sola.

Ciò, nei primi due decenni del XX secolo, ha forte eco in Georges Sorel, influenzato da Marx, ma anche da Nietzsche e ancor più da Bergson, come io pure ho mostrato[14]. Sorel giunge a vedere le grandi passioni o sogni collettivi come fondamento del divenire (mosso dagli interessi economici, ma più ancora dalle fedi vissute, ossia dalle grandi passioni dell’anima nel tempo). Tra i lettori entusiasti di Sorel ci furono i sindacalisti rivoluzionari, specie italiani. Ma ci fu anche Mussolini, sia quando lesse, ancora da socialista rivoluzionario, le Considerazioni sulla violenza con Prefazione di Benedetto Croce e lo recensì, e sia quando – ormai capo della rivolta reazionaria – alla viglia della cosiddetta marcia fascista su Roma del 28 ottobre 1922, essendo passato dal prebellico mito della rivoluzione sociale al mito della nazione – spiegava: “Noi abbiamo creato il nostro mito. Il mito è una fede, è una passione. Non è necessario che sia una realtà. É una realtà nel fatto che è un pungolo, che è una speranza, che è fede, che è coraggio.” Ma Sorel fu commemorato pure da Palmiro Togliatti, già leader nazionale e internazionale del PCI, nel 1922[15]. E io anzi penso che l’uso che Togliatti fece in Italia, dal 1944 alla morte, del riferimento a Stalin e all’Unione Sovietica sia stato proprio un giocare semicosciente, ma spesso cosciente, col mito sorelliano, presentando ai militanti un Paese totalmente totalitario, e segnato da difficoltà gravi per i cittadini tutti – spesso costretti, nelle città, alla coabitazione, tra famiglie diverse in uno stesso alloggio, ancora negli anni Sessanta del Novecento, e a fare la fila nei negozi pubblici – come una specie di Paese di Bengodi, segnato da straordinari progressi sociali e civili continui: certo mentendo sapendo di mentire, con tirate ricorrenti, su Stalin e sull’URSS, che lette col senno di poi – se uno oggi si prendesse la briga di andare a ripescarle – farebbero assolutamente ridere. Ma “crederlo” faceva, o avrebbe fatto, bene al movimento operaio e socialcomunista (e tanto gli bastava), come la fede nella resurrezione di Cristo o della Madonna nella religione cristiana. Come in ogni mitizzare, il confine tra la credenza e l’invenzione era ed è labile. Credo valga anche per chi vada convintamente e regolarmente a messa. Quando fa la comunione vuol credere che Dio entri davvero in lui, che l’ostia benedetta si trasformi davvero nel corpo e sangue di Cristo (il che i cattolici dicono “transustanziazione”), ma sa pure che la cosa non è evidente, nemmeno nello slancio mistico. Potrebbe essere vero, ma “forse” anche non esserlo (e viceversa), il che è proprio del pensare miticamente. Persino chi racconti con astuzia miti, politici come religiosi, vivamente sentiti in passato o nel presente, spesso finisce per credervi (secondo un modulo che in psichiatria si chiama “pseudologia fantastica”), o finisce per sperare che la favola raccontata – in base a certi eventi o fatti o atti o indizi reali, che volendo trovarli non mancano mai, come le speciali qualità che la persona amante attribuisce a quella amata, o le speciali infamie a quella detestata o odiata; e purtroppo vale pure nella vita collettiva, con l’amore per un popolo o un modo d’essere o classe, e l’odio per un altro popolo o razza o classe, sempre segnati dall’immaginario, cioè dal “mitico”. In linea generale si può dire che ogni credenza che si basi su una grande passione interiore piuttosto che sulla ragione (o molto più che sulla ragione), sia un mito. Ad esempio ogni forma di “grande amore”, o addirittura di “vero” innamoramento (ben più raro di quanto si creda, ma comunque molto frequente), è un mito. L’amore, essendo personalissimo, sembrerebbe privo del valore universalmente umano che è proprio del mito, ma in realtà, come il mito, si basa su un dinamismo perenne. Su ciò Diotima di Mantinea, maestra in filosofia del giovane Socrate, nel Simposio di Platone ha fatto una descrizione formidabile, in tal caso totalmente conforme al “vero mitizzare”, oltre che psicologicamente e filosoficamente notevole (lì davvero in perfetto equilibrio tra mitizzare e ragionare)[16]. E non si scosta molto da tale mitizzare l’esperienza d’amore in ogni tempo, quale sia il sesso delle persone che si amano. Una persona desidera sempre stare con un’altra, sentita come carissima. Trova nella sua persona un fascino strano. Ama stare con lei. Ne ama la voce. Ne ama il conversare. Le vuol così bene che vorrebbe sempre copularla o comunque manifestarle la sua empatia godendone e facendola godere, spiritualmente e fisicamente, nelle forme più varie. (Anche se purtroppo, in tali contesti, si dà pure quello che Jung chiamava “enantiodromia”, la “fuga nell’opposto”, che può ingenerare, nell’amante deluso, o delusa, odio). La letteratura è piena di tali cose. Dante ha espresso da par suo un tale amare che segna la vita, in termini addirittura onirici e visionari, “junghiani” ante litteram, nella Vita nova, parlandoci di Beatrice, illustrando persino un grande sogno simbolico, vero mito vissuto, in modo ancor più convincente che nella Divina Commedia (in cui l’amata idealizzata diventa “angelicata”). Ma si pensi pure alla Manon Lescaut di Prévost (e soprattutto di Puccini), all’Educazione sentimentale di Flaubert o alla Strada di Swann di Proust. E più è grande la passione, come in tanti tristi suicidi o atroci femminicidi, più è inverato il mitizzare. Così – per fare solo alcuni esempi – accade nel romanzo, conclusosi col suicidio del protagonista, di W. Goethe, I dolori del giovane Werther. Nessuno ce l’ha fatto sentire meglio di Francesco Cilea, col suicidio del pastore innamorato deluso nell’Arlesiana, o Georges Bizet – che era pure stato coinvolto facendo le musiche di scena di un’Arlesiana dello stesso Daudet nel 1872 con il femminicidio in Carmen.[17]

Anche se va detto che tutti questi miti che culminano nell’omicidio o suicidio sono casi veramente estremi, perché generalmente chi pensa “miticamente” sa pure che la sua fede, per quanto grande sia, ha un che di relativo, che gli impedisce di portare alle conseguenze estreme il suo “credere”, che – come avrebbe detto un grande interlocutore di Bergson, il pragmatista religioso William James – è sempre “volontà di credere”[18]. L’innamorato o l’innamorata sono in tale stato perché hanno trasformato la persona amata in un che di assoluto, tanto che senza la persona amata spesso la vita sembra loro senza senso; ma in un angolino della loro mente sanno bene che per quanto sia grande la passione per la persona amata, la sua unicità non è veramente assoluta. Questa è la ragione per cui Hitler, che aveva convinzioni assolute e non semplicemente “miti”, nell’estrema sconfitta si suicidò, mentre il “sorelliano” Mussolini preferì, alla fin fine, dopo essere stato tentato dal suicidio nella prigionia sul Gran Sasso, di cercare di salvarsi persino travestito da soldato tedesco in fondo a un camion[19]. Si può porre il “credere” al primo posto (come nel fascistico “credere, obbedire, combattere”), ma chi procede dalla “credenza”, dalla passione, normalmente sa anche che l’assolutezza del credere non è oro colato, tanto più se non si tratti di rivelazione di “Dio” (e neppure di un che di matematico o di fisico-matematico, o di biologicamente oppure economicamente “certo”, che poi per il pensiero critico oggi non lo è pressoché mai). In sostanza la ragione senza passione, senza fortissimi sentimenti che l’accompagnino, è un atteggiamento da poveracci senz’anima, intimamente cinico e criminale, che per il potere preteso come il solo vero o per il solo vero da portare al potere passerebbe sul cadavere della madre, spesso tipico dei peggiori stalinisti o nazisti; ma la passione senza ragione può portare, in caso di sfortuna, all’omicidio o al suicidio (a livello individuale come collettivo); la prima forma, “ragione” senza “passione”, un tempo era detta pazzia morale; la seconda, “passione” senza “ragione”, è pazzia e basta. In sostanza non c’è nessuno più pericoloso, a sé e agli altri, di chi abbia certezze assolute, siano esse basate sull’essere anaffettivi o solo affettivi. Anche i fondamentalisti kamikaze o terroristi senza speranza sono possibili perché pongono la credenza non accanto alla ragione, persino ridotta a servetta, ma “al posto” della ragione. Per essi il mito non è mito (anche se per noi lo è), ma “oro colato” di “Dio”, come e più del vero per lo scienziato puro.

La dimensione del mitizzare è notoriamente decisiva nello junghismo. Questo si è svolto come tendenza autonoma, nel suo fondatore, dal 1912 al 1961[20], ma è poi proseguito sino ai giorni nostri, in una forma radicalmente rinnovata, molto discussa anche all’interno della psicologia analitica, dall’americano James Hillman, dagli anni Sessanta del Novecento sino all’inizio del XXI secolo[21]. Ma su ciò a mio parere c’è una linea di differenza non piccola tra psicologia analitica di Jung e psicologia analitica (“archetipica”) di Hillman. In effetti anche nel mio Anima e Mondo, come ricordato da Patrizia Nosengo, io sono junghiano, anche sul mito (ma non sono hillmaniano, pur con la mia grande ammirazione per quell’americano). Jung dice che i miti sono in noi la voce del genere (o specie): una specie che per così dire ci vive dall’interno. (Questo lo pensava anche Marx, quando era ancora un comunista libertario feuerbachiano, nel 1844, ovviamente in un quadro politico-sociale diverso; ma forse su ciò non mutò mai idea, o comunque se ne discute molto[22]).

Ora noi “umani naturanti” – dotati di un’humanitas. oltre a tutto pensante, “singolarizzata”, ma pur sempre sovrapersonale – secondo Jung di tanto in tanto facciamo sogni che egli chiama “grandi sogni”: sogni “speciali”, che invece di esprimere “solo” il nostro vissuto individuale a partire dai nostri più intimi desideri e dalle nostre più intime ossessioni, concernono anche il vissuto della specie nel “qui e ora”. I grandi sogni, e visioni, che intessono Ricordi, sogni e riflessioni di Carl Gustav Jung e la sua appendice, e ancor più il Libro rosso. Liber novus di Jung, sono miti, ossia frutti di un immaginario personale e personalissimo, però di significato intersoggettivo nel “qui e ora” della storia[23]. Jung, però, sapeva benissimo che l’abbandonarsi a quel mondo sognante poteva pure essere molto pericoloso. Aveva una formazione psichiatrica, diversamente dal neurologo Freud, e aveva ben presente il fenomeno chiamato inflazione psichica, cioè di sommersione della coscienza da parte dell’inconscio (una specie di alluvione che rompe gli argini della coscienza: un dilagare dell’inconscio sommergente la coscienza, che è poi la pazzia).

Hillman, per contro, non ha tali remore. Per lui l’inconscio collettivo, o Anima, permea tutta la mente (è la nostra mente), compresa la parte conscia (che in sostanza maschera l’inconscio collettivo, per ragioni vitali). Da un lato perciò Hillman fa fare un passo avanti a tutta la tendenza junghiana, ma dall’altro fa fare ad essa almeno uno o due passi indietro. Può anche darsi che fosse molto prossimo a posizioni – tanto affascinanti quanto discutibili – dell’antipsichiatria alla Laing, che consideravano la follia non già come una sorta di tumore maligno del cervello, che può far morire in vita, ma una malattia che va e viene come un’altra, e che spesso è tale rispetto a un canone di salute imposto a tutti (mentre le culture arcaiche la vedevano spesso come una specie di via di accesso a un “mondo altro”, accettando la diversità come una sorta di destino o vocazione di individui aperti al divino, tra i quali emergevano gli sciamani)[24].

Mentre Jung vedeva in noi la specie che ci vive dall’interno (inconscio collettivo), entro cui emergono presto – con forza loro propria, e non semplicemente come proiezioni dell’inconscio collettivo o “Anima Mundi” – inconscio personale e coscienza, secondo una struttura ben spiegata, vivo Jung, da un bellissimo libro antelucano di Jolande Jacobi[25] – Hillman tendeva a identificare la mente, dall’inizio alla fine, con l’inconscio collettivo. Questo non solo genera in ciascuno di noi l’individuale (inconscio e conscio), ma lo permea, risultando identico all’individuo e viceversa. Perciò le figure archetipiche dei sogni, in quanto sono figure del solo inconscio collettivo, sono dèi; e gli antichi greci avrebbero già descritto, tramite il loro immaginario profondo, il “piccolo popolo” che permea la nostra Anima, vista del tutto neoplatonicamente (facendo sposare innanzitutto Jung, Plotino e Marsilio Ficino, semplicemente psicologizzati).

Credo che in termini di geografia psichica dell’inconscio per quella via siano arrivate tante cose ottime, ma con alcune aporie. Prima di tutto in Hillman scompare, o si ridimensiona moltissimo, la dialettica tra inconscio (collettivo e non) e coscienza. Inconscio individuale e coscienza individuale in Jung sono latenti persino prima di emergere (parla persino di un Io dell’inconscio, o Io come archetipo, che prelude all’Io cosciente); e questo è molto importante perché configura una mente, che ci permea, fatta di tutto quel che siamo, ma in cui c’è pure la coscienza, senza la quale “l’animal-ismo” ci catturerebbe fatalmente. Non possiamo vivere senza grandi miti interiori, senza passioni o fedi, senza sentimenti forti, ma il lògos li deve controbilanciare, perché noi tutti siamo sentimento e ragione[26]; e se dovessimo imporre il sentimento alla ragione, o anche il contrario, invece di bilanciarli, ci procureremmo infelicità certissima; diventeremmo o dei bambocci o dei mascalzoni, e correremmo il fortissimo rischio di uscire di testa (o inflazionati dal sentimento o dalla ragione). Infine se l’Anima del Mondo tutto domina, spiegare il male diventa arduo, e infatti Hillman, pur avendo su ciò oscillazioni, spiega la stessa guerra con il fatto che in noi, con certi tratti già visti anche nei miti greci, la tendenza a guerreggiare (“Marte”), è archetipica[27].

In sostanza, tenendo continuamente in relazione mythos e lògos, dobbiamo evitare sia la deriva irrazionalista che quella razionalista; dobbiamo far procedere la nostra passione e la nostra ragione da buoni amici, possibilmente fondendole. Una tal fusione sarebbe “il meglio”, anche se è quasi un’idea limite. Nel campo del nostro vissuto questa sofrosyne, questa saggezza, mi pare istanza chiara. Ma è così anche in tutte le scienze umane, comprese le più formalmente “logiche”. Ad esempio in filosofia il pretendere di accedere all’essere – quale o cosa esso sia per noi – con la sola ragione, oppure con il solo empito dei sentimenti, è un separare ciò che nella mente è indivisibile. E per gente come Alexander von Humboldt, Goethe e Bergson valeva pure nelle scienze naturali. Su ciò nel nostro tempo Fritjof Capra ha scritto cose per me importantissime[28]. Tutti costoro in tali scienze sapevano tutto quel che si poteva apere al loro tempo, ma ciononostante dissentivano dalla scienza allora dominante (dal newtonismo nel caso di Goethe e Alexander von Humboldt e dal darwinismo e pure “einsteinsismo nel caso di Bergson e di Fritjof Capra[29]. Pure in filosofia morale le costruzioni della giustizia di tipo puramente razionale[30] lasciano il tempo che trovano. E persino in economia politica, e pure in politica economica, quelli che hanno capito di più – mi vengono in mente Adam Smith e Pareto – hanno tenuto nel massimo conto i sentimenti o pulsioni degli uomini[31]. Ascoltiamo la mente, razionale e irrazionale, ma senza “tagliarla in due”. Non possiamo né liquidare l’irrazionale né il razionale, né il sentimento né il pensiero; non possiamo sopprimere la “follia” mitizzante né la “ragione” calcolante, ma dobbiamo farle giocare insieme – separandole solo temporaneamente quando non se ne possa proprio fare “praticamente” a meno “per ragioni assolutamente inevitabili” – sino all’ultimo respiro.

Ma, ciò posto, come si configura il “vero” pensare per miti per me, avendo pure presenti i problemi collettivi del nostro tempo? – Proverò a dirlo di seguito.

(Segue)

 

 

 

 

[1] Golem Edizioni, Torino, dicembre 2018, pagg. 443. Si veda: P. NOSENGO, Un libro per uno e per tutti – Anima e Mondo, il nuovo libro di Franco Livorsi, “Città Futura on-line”, 15 maggio 2019.

[2] M. -L. Von FRANZ, Le fiabe interpretate (1969), Bollati Boringhieri, Torino, 1980.

[3] Euripide, l’ultimo dei tre grandi tragici, è, come i sofisti e Socrate, quasi un moderno, che mentre racconta miti, li demitologizza. Lo vedo come una specie di Pirandello del mondo greco classico, che mostra il volto spesso negativo del mito proprio mentre lo racconta. Per uno dei paradossi della storia, il maggior testimone dei miti connessi a Bacco, o Dioniso, nelle Baccanti mostra un volto del dio più tremendo che affascinante.

[4] OMERO, Iliade (verso il 750 a.C.), a cura di M. G. Ciani e commento di E. Avezzù, con testo greco a fronte, Marsilio, Venezia, 1990 (testo per cui rinvio pure a: F. LIVORSI, L’Iliade (in prosa): avventura eroica e destino tragico, “Il Ponte”, a. XLVII, n. 10, ottobre 1991, pp. 156-161; Odissea (verso il 700 a.C.), traduzione di G. A. Privitera con testo greco a fronte e Introduzione di A. Heubeck, Fondazione L- Valla – Mondadori, Milano, 1981 (e Oscar Mondadori, 1991); Inni omerici, a cura di F. Cassola, Fondazione L. Valla-Mondadori, 1986; ESIODO, Opere e giorni e Teogonia (VII secolo a.C.), in: Opere, testi introdotti, tradotti e commentati da G. Arrighetti, con testo greco a fronte, Einaudi-Gallimard, Torino, 1998; ESCHILO, SOFOCLE, EURIPIDE (dal VI al V secolo a.C.), Tragici greci, a cura di R. Cantarella, Mondadori, Milano, 197 (e Oscar Mondadori, 1992). Per i richiamati autori comici antichi e il loro ridere anche di grandi dèi, si vedano, per la Grecia, ARISTOFANE (V/IV secolo a.C.), Commedie, a cura di G. Mastromarco, UTET, Torino, 2007, due voll., qui soprattutto in riferimento a: Le rane (e, ivi, a Dioniso); PLAUTO, Commedie (III secolo a.C.), a cura di C. Carena, Einaudi, Torino, 1975, qui soprattutto in riferimento all’Anfitrione (e, ivi, a Giove ed a Mercurio). Per gli estremi sviluppi del mito nel mondo antico, si veda il romanzo fantastico di L. APULEIO Le metamorfosi. L’asino d’oro, Oscar Classici Mondadori, Milano, 1990 (su cui rinvio pure a: F. LIVORSI, “L’asino d’oro” da Apuleio a Marie-Louise von Franz, “Klaros. Quaderni di psicologia analitica”, Firenze, a. VI, n. 1-2, giugno 1993, pp. 5-20).

Per i Veda, composti tra XVI e II secolo a.C., è da vedere la vastissima antologia: I Veda. Mantramanjari, Testi fondamentali della rivelazione vedica, a cura di R. Panikkar e in ed. it. a cura di M. Carrara Pavan, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2001, due volumi. Ma si vedano i poemi: VALMIKI, Ramayana (tra il 500 a.C. e il 200 d.C.) a cura di S. Savero, tr. di P. D’Adamo, Santa Maria degli Angeli, Assisi, 1992, tre voll. (consta di 24-000 strofe); VYASA, Mahabharata (tra il 200 a.C. e il 200 d.C.),  a cura di G. Borgonovi e M. Merzagalli, La Comune, Milano, 2007/2009, sette volumi (consta di 106.000 strofe, in 18 libri). Indicazioni preziose per la datazione e per le interpolazioni delle due opere nei secoli, e anche in generale, sono in: M. STURLEY – J. STUTLEY, Dizionario dell’induismo, (1977), Ubaldini, Roma, 1980, pp. 159-160 e 247-249. Fa parte del Mahabharata, al VI libro, quello che per gli induisti è il Vangelo nazionale: Bhagavàd Gità (Il canto del Beato), con saggio introduttivo, commento e note di S. Radhakrishnan, tradotto da I. Vecchiotti, Ubaldini, Roma, 1964 (ho commentato il libro, a partire da questo straordinario testo, in chiave junghiana: F. LIVORSI, Note psicologiche sulla Bhagavàd Gità, “Klaros”, a. 9, n. 2. Dicembre 1996, pp. 107-134).

[5] Per il testo base dell’ebraismo come del cristianesimo si veda, naturalmente: La Sacra Bibbia, ossia l’Antico e il Nuovo Testamento, Versione riveduta in testo originale di G. Luzzi, Libreria Sacre Scitture, Roma, s.d. L’identificazione tra il Gesù della storia e Dio è forte nel teologo, poi papa Benedetto, RATZINGER, come si evince in: Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano, 2007, e in: Gesù Cristo. Il Dio con noi, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2013.

[6] Risulta del tutto evidente in: Il Corano. Introduzione, traduzione e commenti di A. Bausani, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1988. Si veda soprattutto; S. NOJA, Maometto e il suo Corano, Mondadori, Milano, 1988,

[7] PLATONE, Opere complete, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Bari, 1967.

[8] E. DODDS, I greci e l’irrazionale, Rizzoli, Milano, 2008.

[9] Per il riferimento al noumeno in I. KANT, si veda: Critica della ragion pura (1781 e infine 1787), Trad. di G. Gentile e G. Lombardo Radice rivista da V. Mathieu, Laterza, Bari, 1959, specie nella parte sulla “dialettica trascendentale”. Per il tema della volontà come noumeno, si veda: A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione (1818, ma 1819), a cura di S. Giametta, Biblioteca Universale Rizzoli, 2002, due volumi. Per la polemica di F. NIETZSCHE con l’intellettualismo socratico si veda il suo: La nascita della tragedia (1871), Adelphi, Milano, 1971. Per il noumeno come volontà di potenza, dello stesso: Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno (1883/1892), trad. di L. Scalero, Longanesi, 1979; La volontà di potenza (postumo, 1926), Frammenti postumi ordinati da P. Gast e E. Forster Nietzsche, a cura di M. Ferraris e P. Kobau, Bompiani, Milano, 2001 (testo discutibile in più punti perché interpolato – nonostante la rivalutazione degli ultimi curatori, e soprattutto di Ferraris – dai curatori originari, e soprattutto da Elisabeth Forster Nietzsche, antisemita e infine nazista).

[10] U. GALIMBERTI, La terra senza il male, Feltrinelli, Milano, 1984.

[11] ERACLITO, Dell’origine (VI-V secolo a.C.), traduzione e cura di A. Tonelli con testo originale a fronte, Feltrinelli, Milano, 1993 (frammento 63 a p. 119).

[12] M. HEIDEGGER,  La dottrina platonica della verità (1931-1932, ma 1942), in: Segnavia, a cura di F.-W. Von Herrmann, e in it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano, 1987. Va connesso alla critica di Nietzsche al socratismo, che era stato da quel filosofo identificato col platonismo, sulla traccia degli studi di E. Zeller, che facevano di Socrate lo scopritore del concetto. Per Heidegger Platone è il fondatore della metafisica, ossia del concettualizzare astratto, che pretende di ridurre l’essere – il reale in sé e per sé, quale sia la sua natura ultima – al mero ragionare umano, invece di procedere per intuizioni empatiche come i presocratici.

[13] H. BERGSON, Saggio sui dati immediati della coscienza (1889), con premessa di A. Rovatti e tr. di F. Sossi, Cortina, Milano, 2002. Ma per l’insieme del ragionamento contano altre due opere decisive di BERGSON: L’evoluzione creatrice (1907), a cura di F. Polidori, ivi, 2002 e Le due fonti della morale e della religione (1932), Comunità, Milano, 1966.

[14] G. SOREL, Considerazioni sulla violenza (1908), con Prefazione di B. Croce, Laterza, Bari, 1909 (ma in francese era: Réflexions sur la violence). Lessi questo libro in tale edizione nella mia adolescenza, nel 1958, e mi fece una grande impressione. Lo presi dalla biblioteca del nonno di un mio compianto e grande amico di Rovigo, Sergio Garbato, poi diventato il più importante storico della cultura del Polesine e giornalista culturale dagli anni Ottanta del Novecento in poi. In seguito mi occupai di Sorel discutendo il libro di G. CAVALLARI, Georges Sorel. Archeologia di un rivoluzionario, Jovene, Napoli, 1994, nel mio articolo: Sorel rivoluzionario?, “Nuova Antologia”, n. 2195, 1995, pp. 319-336. Ma soprattutto ho dedicato a Sorel pagine di intensa riflessione poetica nel mio ultimo libro: Anima e Mondo, cit., pp. 67-81.

[15] B. MUSSOLINI, Lo sciopero generale e la violenza, “Il Popolo” (Trento), a, X, n. 2736, 25 giugno 1909 (è la recensione all’opera cit. di Sorel sulla violenza), ora in: Scritti politici di Benito Mussolini, a cura di E. Santarelli, Feltrinelli, 1979, pp. 115-120; Il discorso di Napoli, 24 ottobre 1922, ivi, pp. 219-223 (contiene il passaggio cit. sul mito). Si veda pure, per tali aspetti, il cap. Note politiche e psicoanalitiche su Benito Mussolini, nel mio libro Stato e libertà. Questioni di storia del pensiero politico, Tirrenia Stampatori, Torino, 1992, pp. 181-204. Si veda pure, su Sorel: p.t. (Palmiro Togliatti), È morto Sorel, “Il Comunista”, a. II, n. 204, 1° settembre 1922 (ora in: P. TOGLIATTI, Opere, a cura di E. Ragionieri, Editori Riuniti, Roma, 1967, I).

[16] PLATONE, Simposio, in: “Opere complete”, cit., I, pp. 657-724, ma soprattutto cap. XXIV/XXIX, pp. 696-709.

[17] D. ALIGHIERI, Vita nova (1292/1295), a cura di G. Gorni, Einaudi, Torino, 1996; La Divina Commedia (1306/1397 – 1321), testo critico stabilito da G. Petrocchi, Einaudi, Torino, 1975; Abbé F. PRÉVOST, La vera storia del cavalier De Grieux e di Manon Lescaut (1731, nota come Manon Lescaut), in francese riedito da Delarne a Parigi nel 1877, poi in opera di G. PUCCINI nel 1893 (con libretto di G. GIACOSA e altri; ma c’era già stata altra opera sullo stesso tema: Manon, di J. MASSENET su libretto di H. MEILHAC e Ph. GILLE nel 1884); G. FLAUBERT, L’educazione sentimentale. Storia di un giovane (1896), tr. di L. Romano, Einaudi, Torino, 1984; M. PROUST, La strada di Swann (1913), Einaudi, Torino, 1990, ma lo si veda anche nella bella traduzione e cura dell’intera opera Alla ricerca del tempo perduto da parte di M. Bongiovanni Bertini, con Prefazione di G. Macchia, Einaudi, Torino, 1991, tre voll.;  W. GOETHE, I dolori del giovane Werther (1774 e infine 1782), a cura di G. Baioni, Einaudi, Torino, 1998; L. DAUDET, L’arlesiana fa parte dei Racconti dal mio mulino (1869), Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1954, ma la vicenda è stata resa universalmente nota, e indimenticabile da due opere liriche: una di F. CILEA su libretto di L. MARENCO, del 1897 (mentre G. BIZET, nel 1872, aveva fatto le musiche di scena del dramma che Daudet aveva ricavato dal proprio racconto); F. MÉRIMÉE, Carmen (1845), ma diventa un tipo immortale nell’opera di G. BIZET con libretto di H. MEILHAC e L. HALÉVY nel 1875.

[18] W. JAMES, La volontà di credere (1897), Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1984. Si confronti con: H. BERGSON – W. JAMES, Durata reale e flusso di coscienza. Lettere e altri testi (1902-1939), Cortina, Milano, 2014.

[19] Su ciò si confrontino: G. BOCCA, La repubblica di Mussolini, Laterza, Bari, 1977; M. FRANZINELLI, Il prigioniero di Salò. Mussolini e la tragedia italiana del 1943-1945, Mondadori, Milano, 2016.

[20] Il testo in cui C: G: JUNG acquisisce un pensiero suo caratteristico è il libro Trasformazioni e simboli della libido (1912), poi rielaborato quarant’anni dopo circa in: Simboli della trasformazione. Analisi dei prodromi di un caso di schizofrenia (1950), ora in “Opere”, vol. 5, a cura di L. Aurigemma, Bollati Boringhieri, Torino, 1984. L’ultimo saggio, del 1961 (anno della morte), è Introduzione all’inconscio, in: AA.VV., L’uomo e i suoi simboli, a cura dello stesso, Casini, Firenze, 1967, pp. 18-103. Questo prezioso libro, di Jung e dei più stretti collaboratori, è poi stato riedito dalla RED di Como.

[21] Nella vasta bibliografia di J. HILLMAN sono soprattutto da vedere: Fuochi blu (1989), a cura di T. Moore, Adelphi, 1996, preziosa auto-antologia; Il mito dell’analisi (1976), Adelphi, 1979, che è la prima grande opera del suo indirizzo; Il codice dell’anima. Carattere, vocazione, destino (1996), Adelphi, 1997. Sono pure preziosi i suoi libri-intervista, con particolare riferimento a: Intervista su amore, anima e psiche, a cura di Marina Beer, Laterza, Bari, 1983; L’anima del mondo. Conversazione con Silvia Ronchey, Rizzoli, Milano, 1999.

Rinvio pure ad alcuni miei contributi: Archetipi e storia in James Hillman, “Klaros. Quaderni di psicologia analitica”, a. 17, n. 1, dicembre 2004, pp. 5-58; Hillman, un uomo da non dimenticare”, “Città Futura on-line”, 29 ottobre 2011; “Fuochi blu”. Note e riflessioni sul “meglio” di James Hillman, “Città Futura on-line”, 28 ottobre 2012; Antipolitica e politica da Jung a Hillman, “l’Ombra” (Moretti & Vitali editore), n.s., n. 10, 2017, pp. 208-237.

[22] C. G. JUNG, in: Il significato della psicologia per i tempi moderni (1933), in “Opere”, vol. 10-1, Bollati Boringhieri, 1985, 1, pp. 201-224, osserva: “Riconoscere in quale straordinaria misura gli uomini differiscano tra di loro, è stata una delle maggiori esperienze della mia vita. Ora l’uguaglianza collettiva sarebbe semplicemente una gigantesca illusione, se non fosse invece il fatto originario, l’origine e la matrice di tutte le anime individuali. Ma tale uguaglianza continua anche ora a persistere, nonostante le coscienze individuali, come inconscio collettivo, simile al mare su cui la coscienza dell’Io galleggia come una nave. Perciò nulla del mondo psichico primitivo è scomparso. “ Così a p. 206, ma le sottolineature sono mio. Ivi si vedano pure le pagg. 213 e 224. Ma la maggior elaborazione in materia è in: L’uomo e i suoi simboli (postumo, 1964), a cura di Jung, cit. Nella vasta produzione in proposito di J. HILLMAN, rinvio agli scritti scelti da lui selezionati: Fuochi blu (1989), cit. Chiarisce molte cose anche il suo saggio: Plotino, Ficino e Vico precursori della psicologia junghiana, “Rivista di psicologia analitica”, a. IV, n. 2, 1973.

Per quel che concerne il rapporto tra natura umana e individualità – questultima intesa come specificazione della prima a tutti comune – è da ricordare quanto Marx scriveva nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 al punto XXIV, in: Opere filosofiche giovanili, a cura di G. DELLA VOPE, Editori Riuniti, 1963, al cap. lì intitolato Il lavoro alienato: “L’uomo è un ente generico non solo in quanto egli praticamente e teoricamente fa suo oggetto il genere, sia il proprio che quello degli altri enti, ma anche – e questo è solo un altro modo di esprimere la stessa cosa – in quanto egli si comporta con se stesso come col genere presente e vivente; in quanto si comporta con se stesso come un ente universale e però libero. (…) La natura è il corpo inorganico dell’uomo: cioè la natura che non è essa stessa corpo umano. Che l’uomo viva della natura significa che la natura è il suo corpo, rispetto a cui egli deve rimanere in continuo progresso per non morire. Che la vita fisica e spirituale dell’uomo è congiunta con la natura non ha altro significato se non che la natura si congiunge con se stessa, ché l’uomo è una parte della natura (pp. 108-109).”

[23] Ricordi, sogni, riflessioni di Carl Gustav Jung, raccolti ed editi da A. Jaffé (1961), Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1987; Il libro rosso. Liber novus (postumo, 2009), a cura e con introduzione di S. Shamdasani, Bollati Boringhieri, Torino, 2010. Per tali aspetti rinvio pure a: F. LIVORSI, L’avventura di Jung. Romanzo-verità, Falsopiano, Alessandria, 2012; Morte e rinascita di “Dio” nel “Libro rosso” di Carl Gustav Jung, “Anima e Terra”, Alessandria, a. I, n. 1, aprile 2012, pp. 21-43.

I sogni miei raccontati da me in tutta la seconda parte del mio Anima e Mondo sono sogni del genere. Per questo li ho raccontati.

[24] R. LAING, L’io diviso. Studi di psichiatria esistenziale (1960), Einaudi, Torino, 2010; Normalità e follia nella famiglia (1964), ivi, 1984. Si veda pure: Intervista sul folle e il saggio, Laterza, Bari, 1979.

[25] J. JACOBI, La psicologia di Jung (1944), Einaudi, Torino, 1949 e poi Boringhieri, 1965.

[26] Non a -caso ho considerato come punto chiave del Libro rosso di Jung, al punto di porlo come sola epigrafe del mio Libro del 2018 Anima e Mondo, il seguente passaggio, in Jung a p. 276: “Se vai dal pensiero, porta il cuore con te. Se vai dall’amore, porta la testa con te. Vuoto è l’amore senza il pensiero, vuoto il pensiero senza l’amore.”

[27] Oltre ai testi già cit. si veda qui: J. HILLMAN, Un terribile amore per la guerra (2004), Adelphi, Milano, 2005.

Per quest’insieme di ragioni cerco sì di valorizzare Hillman, ma prendendo sempre Jung come punto di vista più avanzato, come in: F. LIVORSI, Antipolitica e politica da Jung a Hillman, cit.

[28] Su ciò rinvio al mio libro: Il mito della nuova terra. Cultura, idee e problemi dell’ambientalismo, Giuffré, Milano, 2000, in cui tutti questi riferimenti sono tematizzati. Colpisce molto il fatto che il modello scientifico dominante, che nel XVIII-XIX secolo era quello di Newton, e nel XX di Einstein, venisse contestato non già da irrazionalisti allo sbaraglio, ma da grandi studiosi delle scienze naturali o, nel caso di Einstein, da un cervello di prim’ordine dalla fortissima cultura scientifica, come Bergson. Lo noto non già per prendere posizione per gli uni piuttosto che per gli altri, ma per sottolineare che “il vero”, anche il più scientifico, non è mai solido come pare. La realtà per me è una, ma mi pare innegabile che si siano dati molti modelli scientifici, che un grande studioso di storia della scienza, T. KUHN, In: La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), Einaudi, Torino, 1979, ha detto “paradigmi”. Mi sembra un fatto che se invece di studiare “la fisica” studiassimo la “storia della fisica”, come studiamo quella della filosofia, avremmo un’impressione di relatività, almeno nella fisica teorica, non molto diverso che in filosofia.

[29]  Ho trattato ampiamente le idee di tutti questi autori, da Goethe a Fritjof Capra, nel mio libro: Il mito della nuova terra. Cultura, idee e problemi dell’ambientalismo, Giuffré, Milano, 2000. Considero – e infatti ivi particolarmente tratto – fondamentali due opere di Fritjof CAPRA: Il Tao della fisica (1975), Feltrinelli, Milano, 1982 e Verso una nuova saggezza. Conversazioni con G. Bateson, I. Gandhi, W. Heisenberg, Krishnamurti, R. D. Laing, E. F. Schumacher, A. Watts e altri personaggi straordinari (1988), Feltrinelli, 1988. Ivi non tenevo ancora conto di: H. BERGSON, Durata e simultaneità. A proposito della teoria di Einstein e altri testi sulla teoria della relatività (prevalentemente del 1922), Cortina, Milano, 2004.

[30] Ad esempio anche il vertice di tale impostazione oggi: J. RAWLS, Una teoria della giustizia (1975 e infine 1999), Feltrinelli, 2000. Stabilito il minimo-massimo della giusizia, ammesso e non proprio concesso che si possa farlo, resta aperto il problema della sua realizzabilità. Lo si può dire pure per l’etica di Kant. Su ciò, nonostante tutto, resto con la famosa XI Tesi su Feuerbach (1845, ma 1888) di Marx, in appendice a: F. ENGELS, Ludovico Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, Rinascita, Roma, 1950.

[31] Così Adam SMITH, l’iniziatore dell’economia classica, l’autore di La ricchezza delle nazioni (1776), Newton Compton, Roma, 1976, è pure l’autore di Teoria dei sentimenti morali (1759), ossia un filosofo morale, sia pure segnato da un certo ottimismo illuministico sulla natura umana. Vilfredo PARETO pone alla base dell’essere sociale dell’uomo non solo il perenne rapporto di dominazione delle minoranze organizzate sulla maggioranza (elitismo), ma anche i bisogni irrazionali delle persone in generale, nella specificità delle situazioni esistenziali collettive. Tali “residui” dell’inconscio sono decisivi non solo in sociologia, ma anche in economia, come si vede nella sua opera: Manuale di economia politica con una introduzione alle scienze sociali, Società editrice libraria, Milano, 1906.

 

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