Il populismo di sinistra che non c’è in Italia

Che fine ha fatto il populismo pentastellato? Che ne è oggi della spinta palingenetica con cui i seguaci di Grillo e Casaleggio avevano lanciato l’assalto al cielo delle elite? A dieci anni dalla loro fondazione, e a sei dal loro ingresso massiccio in Parlamento, i Cinquestelle si ritrovano senza identità. In bilico tra movimento e partito, tra opposizione antisistema e governo a tutti i costi, tra protesta di base e leaderismo. E in altalena – stando alle recenti alleanze – tra destra e sinistra. Questa ambivalenza è rivendicata, dai vertici, come segnale di modernità bipartisan e post ideologica. Ma appare sempre più – come ha scritto ieri Antonio Polito sul Corriere – indizio di un «pragmatismo esasperato, da gestore della cosa pubblica».  Come si spiega un mutamento così drastico, quasi una mutazione genetica rispetto alle origini e al loro clamoroso vaffa al potere?

Le analisi sull’ascesa dei grillini sono tutte, più o meno, italocentriche. Fanno, cioè, riferimento al contesto nazionale – ai suoi vuoti, magagne, limiti – in cui il M5S si è sviluppato. La sua notevole carica anti-establishment ed anti vecchi partiti. E non v’è dubbio che questi fattori spiegano molto del successo iniziale, e dell’urto con cui – solo un anno fa – hanno squassato il parlamento. Ma non spiegano l’evoluzione successiva. Il fatto di essere finiti prima in balia di Salvini ed ora, un po’ più scaltramente, a braccetto con il Pd. E la risposta a questa domanda, la risposta più semplice e diretta, non viene dall’Italia, ma dagli USA.

Lo scenario americano diverge, infatti, profondamente da quello italiano e, più in generale, europeo su un punto dirimente, qualificante: l’esistenza di un populismo di sinistra che sta diventando egemone nel partito democratico e che sarà, molto probabilmente, il perno dello scontro con il populismo di destra di Trump, alle prossime presidenziali. Elizabeth Warren e Bernie Sanders, pur diversi – non molto – tra di loro, hanno un comune denominatore programmatico di cristallina chiarezza: difesa a oltranza del welfare e attacco frontale alla ricchezza delle multinazionali. Saldando così – miracoli della politica – due termini – popolare e populista – che dalle nostre parti sarebbero invece – alquanto misteriosamente – diventati antitetici.

Per i cultori dell’etimologia, l’arcano si spiegherebbe con le radici di fine Ottocento nel populismo agrario di Bryan, considerato un surrogato di quel socialismo che, oltreAtlantico, non avrebbe mai davvero attecchito. Ma la realtà – più prosaicamente – è che nel lessico contemporaneo americano il populismo vive – e vegeta – innanzitutto come ideologia di sinistra. E – grazie anche alla radicalizzazione di segno opposto guidata da Trump – sta diventando maggioritaria rispetto alla componente moderata dei democratici. Non meno interessanti sono gli ingredienti – per così dire – strumentali che stanno facendo decollare i leader populisti: una straordinaria capacità oratoria, a dispetto dell’età avanzata, e il micro-fundraising capillare, che ha portato sia Warren che Sanders a surclassare la campagna di Biden.

Letta attraverso la filigrana americana, la crisi di identità dei Cinquestelle si riduce a una risposta secca. L’assenza di un leader carismatico e di una chiara scelta di campo per politiche di sinistra. Era stata questa l’accoppiata, la straordinaria forza propulsiva che aveva armato un genio della comunicazione come Grillo con cinque obiettivi radicali (più l’infrastruttura telematica di Casaleggio che aveva messo le ali digitali all’impresa). Poi Grillo si è distratto al bivio, e il radicalismo di destra di Salvini si è mangiato l’anima delle stelle. Ma se non vogliono trasformarsi in comete e sparire rapidamente all’orizzonte, i grillini hanno una sola via maestra. Studiarsi la lezione americana. Magari provando anche ad insegnarla ai neo-alleati del Pd. Invece di accapigliarsi sulle liste, potrebbero riscoprire insieme che la politica, senza ideologia, diventa una scatola vuota.

(“Il Mattino”, 14 ottobre 2019).

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