Problemi storici della Sinistra nel tempo della vittoria della Destra (Riflessioni politologiche e annotazioni personali)

I

Arriva l’alternativa di destra (“si verum est”)

Sta nascendo il primo governo di destra dopo il 1945. Non significa certo il ritorno al tempo dell’olio di ricino e del manganello a un secolo esatto dalla marcia su Roma, ma è comunque una svolta di portata epocale. I governi di centrodestra non sono certo una novità dal 1994 in poi, ma qui l’assoluta prevalenza dell’identità di destra è, per la prima volta, netta e inequivocabile, quale sia l’opinione di ciascuno. Un governo puramente della destra, pur legale e costituzionale, non c’era stato neanche nel 1960, con l’ultimo governo centrista di Ferdinando Tambroni, che per fare maggioranza aveva accettato l’appoggio esterno del Movimento Sociale Italiano, pur dicendo ufficialmente che quei voti “non erano richiesti”.

Mentre scrivo, però, la vittoria della destra è già una “vittoria mutilata”, o almeno alquanto “ammaccata”, dal capo storico e vero “sdoganatore” storico della destra in Italia di quasi trent’anni fa, Silvio Berlusconi: con dichiarazioni che ufficializzano nomi di ministri prima ancora che il Presidente della Repubblica abbia dato l’incarico; attribuiscono, invano, il ministero della Giustizia a una persona diversa da quella proposta e prevista sino al giorno prima, e rivendicano un’amicizia fortissima con Putin, con cui l’Occidente è in guerra “indiretta”. Ma probabilmente nemmeno i più stretti amici, collaboratori e forse intimi familiari consentiranno a Berlusconi di gettare il sasso nel motore del governo di destra nascente, essendo tutti in viaggio sulla stessa corriera. Perciò, pur mettendo nel conto la possibilità di essere smentiti nei prossimi giorni, dobbiamo ragionare mettendo tra parentesi l’assurdo: una sorta di x contro cui si frange qualunque politologia. Il reale non è razionale, ma dobbiamo ragionare come se generalmente lo fosse per individuare almeno le linee di tendenza “possibili” e “probabili”. Quindi ragioniamo come se chi ha vinto le elezioni dovesse governare per davvero, e soprattutto a lungo, essendo ciò sicuro “sino a prova contraria”.

Ciò posto, come sarà allora questa “alternativa di destra”, che arriva mentre dal 1861 ad oggi non c’è mai stata una sola “alternativa di sinistra”? Lo vedremo presto. Ma non dobbiamo prioritariamente proiettare le pulsioni contro qualcuno, per quanto lo si possa pure fare, ma chiederci in che cosa la sinistra – oggi e in altre occasioni – abbia rovinosamente sbagliato facendo il gioco del proprio avversario: in modo da evitare di sbagliare in futuro. Si sa, insomma, che già Trockij diceva che “è vero che la storia è maestra di vita, ma è una maestra senza allievi”; noi cerchiamo di esserle discepoli e quindi c’interroghiamo sul perché sia accaduto quello che è accaduto, oggi e, in modo meno clamoroso, in passato?

Procediamo dalle ragioni più evidenti e immediate a quelle più profonde.

Prima ragione della sconfitta della sinistra: la frettolosa rottura tra PD e M5S

La prima ragione è l’improvvida rottura del PD di Letta con il M5S.

Dal 2018 la mia sfiducia verso il Movimento 5 Stelle è sempre cresciuta. Non ho mai votato per il M5S, ma quando sorse mi parve una speranza, come ebbi modo di spiegare su “Critica marxista” nel 2013[1]. Era il tempo in cui era appena uscito il bel libro dialogato a tre voci di Dario Fo, Gianroberto Casaleggio e Beppe Grillo Il grillo canta sempre al tramonto.[2] E in base a quell’indirizzo le piazze si riempivano di giovani, come se fosse iniziato l’essere sociale, dei movimenti politici di massa di tipo aurorale, che Francesco Alberoni diceva “nascente”[3]. Mi dicevo: “Stai a vedere che riapre la fabbrica del futuro. Non sarà per caso l’indizio di una gioventù che si rimette in marcia contro le troiate dei padri, come nel Sessantotto, e questa volta smettendo di rifriggere vecchie gloriose idee ‘marxiste di sinistra’, necessariamente superate, del primo dopoguerra, che oltre a tutto già allora erano state battute, anche se a me erano piaciute tanto? Necessita una strategia dell’attenzione.” Promossi persino un incontro, un po’ esplorativo, tra Città Futura, che allora in Alessandria presiedevo, e i pentastellati. Intervistato dal terzo canale della TV su ciò, ma in riferimento al mio libro del 2010 Sentieri di rivoluzione. Politica e psicologia dei movimenti rivoluzionari dal XIX al XXI secolo[4], lo dissi pure lì. Poi il vero cervello politico e leader del Movimento 5 Stelle, Casaleggio padre, morì (aprile 2016), seguito poco oltre da Dario Fo (ottobre 2016). Grillo poteva pure essere un grande propagandista, ma niente di più. Sono gli scherzi della storia (dell’imponderabile che ho poche righe fa evocato come sempre possibile). E, inoltre (altro “imponderabile”), il M5S nel 2018 prese troppi voti, e invece di mantenersi “incontaminato” da spurie alleanze, come secondo me avrebbero fatto Gianroberto Casaleggio e Dario Fo, nel suo inenarrabile dilettantismo e giovanile volontà di contare si lasciò subito attrarre dal “volto demoniaco del potere”[5]: prese buffamente a deragliare a destra e poi, certo nella direzione “buona”, a sinistra, ma senza vera trasformazione interiore o maturazione politica, bensì restando un gran fuoco di paglia.

Non ho alcuna ammirazione neppure per il capo di governo proiettato al potere dal M5S dal 2018, e leader d’oggi del Movimento stesso, pur riconoscendo che Giuseppe Conte è uno dei pochi casi in cui un professore universitario catapultato ai vertici del potere si sia rivelato un abilissimo “politicante”, tanto che a mio parere ce ne farà ancora vedere delle belle. Ma mi pare un levantino buono per tutte le stagioni, tanto che in pochissimi anni è stato capo di un governo di centrodestra e poi di centrosinistra. E domani chissà. Il personaggio – che oggi veleggia molto a sinistra – ci sorprenderà ancora. Potrebbe persino risorgere una terza volta come capo di un qualche governo, o come coprotagonista, magari gettando nella costernazione i suoi fan, con chissà quali giravolte. Da buon foggiano, un giorno potrebbe persino gustare i “meloni”, ma riconosco che per ora queste sono pure illazioni, da prendere come una sorta di gioco politologico. Non so quali saranno le prossime giravolte di Conte, ma sono certo che saranno sorprendenti. Graziano Del Rio, della cui onestà intellettuale mi fido ciecamente, stando a un pezzo sulla “Stampa” dice che nel “soccorso rosso” che ha consentito a La Russa di diventare Presidente del Senato nonostante il non-voto di Forza Italia, grazie a diciassette franchi tiratori dell’opposizione, ci sia lo zampino di Renzi e di Conte. Se fosse vero vorrebbe dire, per Renzi come per Conte, che il lupo perde il pelo, ma non il vizio. Tuttavia la sortita, per quanto degna della peggior Democrazia Cristiana dorotea, ha quantomeno spiazzato il partito di Berlusconi, risultato capace di mettere in crisi la propria area nella prima seduta del nuovo Senato, ma senza riuscirci. Poi è tornato a insistere, ma tutti l’hanno tirato per la giacchetta, certo in azienda e in famiglia, e per ora ha abbozzato. Sino a quando?

Riandando alle elezioni “settembrine”, si deve comunque notare che l’aver rotto l’alleanza tattica con il M5S dopo il voto di sfiducia a Draghi, da parte di Letta e del suo PD è stato un atto tattico addirittura demenziale. Non ci voleva molto a capire che della caduta di Draghi dovevano venir imputati, tatticamente, soltanto Berlusconi (Forza Italia) e Salvini (Lega), minimizzando, come PD, l’errore di Conte e del M5S. E dal primo secondo dopo quell’infausta votazione. Un qualunque segretario di federazione del vecchio PCI ci sarebbe arrivato. Rompere un’alleanza a due mesi dalle elezioni – fosse anche stata con i monarchici – poteva solo risultare una scemenza. E se la Direzione del PD, tutta quanta, non l’ha detto a Letta, vuol dire che “Dio fa impazzire quelli che vuole rovinare”. Come non capire che il mandare agli italiani, in un sistema che per il trenta per cento dei collegi della Camera è maggioritario a un turno, il messaggio di essere senza alleati forti e quindi perdenti in partenza, era assurdo?

La seconda ragione di sconfitta della Sinistra: l’assenza di un vero leader di lungo corso, anche per l’antica tendenza a logorare all’estremo il Capo, se possibile cannibalizzandolo

La povertà tattica del leader del PD, Letta, è emersa pure nella reazione alla sconfitta, come mi pare gli abbia fatto osservare pure Violante in intervista sulla “Stampa” del 15 ottobre. Non doveva dimettersi. Io, negli anni remoti in cui ero sulla prima linea della politica alessandrina, ho sempre avuto la tendenza a dimettermi anch’io, un po’ perché il potere visto da vicino mi è parso spesso miserabile (per un mio ancestrale fondo nietzscheano), un po’ perché attratto da una vita tutta interiore e ora anche spirituale, e un poco perché attratto dal lavoro intellettuale credo come pochi altri. Una volta verso il 1970 dissi al Segretario della Federazione del PSIUP di Alessandria, il mio compianto amico Angiolino Rossa, di cui io ero il Vicesegretario, che la politica mi pareva molto meschina vista dappresso. Mi rispose, quasi in un sussurro: “Ma si decide tutto lì”. Poco oltre volevo già dimettermi, ma egli mi disse: “Franco, ricordati che l’Italia è il Paese in cui non ci si dimette mai.” Ma Bertoldo si nasce, non si diventa. Oggi, però, sulla prima linea della politica, non mi sarei dimesso, ma se l’avessi fatto sarebbe stato per “cambiare mestiere”. Come a un certo punto ho fatto.

A me, comunque, sembra che da anni e anni – forse addirittura dalla morte di Berlinguer (1984), che era un grande leader quantomeno “morale” – la sinistra sia diretta da gente incredibilmente fragile nell’ora della sconfitta, talora solo annunciata: gente sempre sull’orlo di una crisi di nervi. Tanto più nella cosiddetta Seconda Repubblica, dal 1994 in poi (anche se secondo me siamo sempre nella prima Repubblica). Una volta è un D’Alema presidente del Consiglio che, dopo aver perso in elezioni regionali di cui avrebbe persino potuto o dovuto interessarsi poco o niente, subito si dimette (aprile 2000). Un’altra volta è Veltroni, che sentendosi contestato si dimette da segretario del PD (febbraio 2009) lasciando il suo partito quasi allo sbando. Poi c’è un Renzi che annunciando l’uscita “dalla politica” qualora avesse perso il referendum del dicembre 2016, da cui avrebbe potuto stare alla larga, molla tutto (salvo pentirsi sei mesi dopo). E adesso arriva Letta, capo di un PD che tra i grandi partiti – ovviamente a parte Fratelli d’Italia, che ha vinto – era il solo che alle elezioni politiche del settembre 2022 avesse perso solo un punto e mezzo, e non una valanga di voti come Lega, Forza Italia e M5S, e che avrebbe sì dovuto correggere pian piano gli errori commessi, seguitare a cercare di riformare il suo partito e apprestarsi a sfruttare le divisioni del centrodestra o destra, ma tirando diritto per la sua strada. Oggi forse se lo dirà anche lui, in presenza di un centrodestra tanto diviso già al nastro di partenza, che a un leader dotato presenta un immenso campo di gioco.

Ma questi capi della sinistra sono diventati tutti delle mammole?

Hanno però un’attenuante. I “capi” ricordati sono troppo frettolosi a mollare la tolda di comando in caso di sconfitta, ma troppi fanno il gioco folle di indurli ad andarsene rendendo loro la vita il più possibile difficile, specie se siano molto in gamba. Se emerge un vero leader, subito fanno di tutto per liquidarlo. Così è la Sinistra da tempo immemorabile. Come storico potrei pure fare un saggio sul modo in cui sono stati liquidati dai loro stessi compagni i capi più capaci della sinistra dal 1900 ai giorni nostri, per lo più facendo – di conseguenza – il gioco dei moderati o talora della destra; ma me ne astengo perché qui non siamo in un’accademia; e poi non è il caso di allungare troppo “il brodo” di un ragionamento già lungo di suo necessariamente.

Prendiamo però il caso di Matteo Renzi. Certo ha un’arroganza da “Maledetti toscani” di Malaparte[6] come pochi altri. E negli ultimi anni ha avuto all’estero frequentazioni impresentabili e si è pure messo a giocare, seppure legittimamente, al piccolo capitalista fiorentino. Ma quando era stato Segretario del PD e Presidente del Consiglio aveva evidenziato una forte capacità di leader “blairiano” (cioè craxiano) e aveva portato il PD al 40% alle elezioni europee. Subito i suoi gli fecero la guerra sui referendum per riformare la Costituzione del 2016, cercando di farlo cadere facendolo perdere (“il fine” dichiarato della loro “resistenza”). Pur di far fuori Renzi, anche il PD poteva andare a fare in culo (per dirla con l’esprit de finesse di un Grillo). Questi erano “i buoni”. Dissero “per piacere!”, tutti indignati, sostenendo che sui problemi costituzionali c’è libertà di coscienza (come ripeteva uno che è stato un ottimo ministro economico ed è un eccellente comunicatore televisivo, e certo pure una bravissima persona, ma un modestissimo capo partito, Pierluigi Bersani), laddove alla Costituente tutti i partiti, invece, agivano da partiti, e i casi di coscienza, per lo più autorizzati dai capi partito, furono eccezionalissimi; e questo è così vero che “quella” Costituente eccezionalmente aveva pure potere legislativo.

Ma l’arte di impallinare il leader è un classico della sinistra: negli ex comunisti solo dopo il PCI; ma poi – per rifarsi dei sessantaquattro anni perduti dal 1927 – sono diventati, rispetto all’antico frazionismo spinto sino al fratricidio politico proprio dei socialisti, come Giotto con Cimabue. Tanto il “Capo” non conterebbe, e morto un papa se ne fa un altro (credevano). Non ce l’avevano già insegnato l’alter ego di Marx, Friedrich Engels, sin dal 1890[7]? Non ce l’aveva ridetto Plechanov in La funzione della personalità nella storia (1899)[8]? E, anche se loro non lo sanno, non ce l’aveva detto e ridetto pure il fondatore del PCI, Amadeo Bordiga, negli articoli-saggio Il battilocchio della storia (1953), Superuomo, ammosciati! (1953) e Fantasime carlailiane (1953)[9]? Certo Brecht aveva ragione quando chiedeva, in una poesia ormai pure sui libri di scuola delle medie (Domande di un lettore operaio)[10], parlando di quelli che dicono “Cesare conquistò le Gallie”: “Non c’era con lui nemmeno un cuoco?”. E va pure bene per enfatizzare il fatto che il Capo, senza esercito, e comunque senza il consenso attivo di grandi masse, almeno da un secolo nei grandi paesi europei da Parigi a Vladivostok non conta niente; ma pure i movimenti senza capo sono, acefali (i cuochi non hanno mai conquistato le Gallie nemmeno loro), tanto più nell’epoca che Calise ha spiegato essere, nel suo libro così titolato, quella della Democrazia del leader (2016)[11].

La faccenda della cannibalizzazione dei leader nella sinistra ha dunque pure risvolti filosofici, legati a un vecchio impersonalismo marxista (per cui la storia si fa da sé, “tutti insieme”, a partire dalla classe dell’avvenire nel suo se non fatale, certo profondo, e anonimo, andare): un impersonalismo che è sopravvissuto anche dopo l’abbandono del marxismo, come un residuo o stereotipo ricorrente. Così i “democratici” antirenziani del 2016 avevano pensato che senza Renzi, anche perdendo un referendum di portata epocale pur di andargli nello stoppino, tutto sarebbe andato pure meglio per il PD. I leader tanto si fanno (farebbero) come i volantini. Nel PD, contro Renzi, non vollero puntare sull’ottimo Gianni Cuperlo, reo di connivenza con il referendum di Renzi, cioè con il “rinnegato Renzi”. Gli stessi, come fondatori di Articolo uno, potendo scegliere, come “Capo”, tra un vecchio giudice che non aveva fatto politica sino a settant’anni compiuti come Pietro Grasso e un ex sindaco di Milano e brillante avvocato, reo però di aver accettato il referendum di Renzi, Giuliano Pisapia, hanno preferito Grasso. Così poi il mio amico Federico Fornaro doveva fare il supplente del Capo che non c’era in Parlamento (essendo Speranza ministro e Grasso a casa), e buon per l’amico Federico, sia chiaro. Tanto il ruolo del “Capo” sarebbe secondario: conterebbe solo il collettivo (a parte D’Alema, s’intende). Invece il forte leader ci vuole, e se un partito ce l’ha deve tenerselo stretto, tanto più nel mondo quasi senza partito e comunque “liquido”, come diceva Bauman in Modernità liquida (2000)[12], per ora purtroppo post-ideologico, in cui ci ritroviamo.

Ma Letta non era un leader e non lo sarà mai, pur essendo certamente una bravissima persona e un ottimo studioso. Renzi lo era, anche se con un quid di arroganza, e più oltre di spregiudicatezza, veramente eccessivo. Credo comunque che Renzi, come Conte, e ora Giorgia Meloni, sia un altro che nel bene o nel male ce ne farà ancora vedere delle belle (o brutte, sia chiaro, perché in riferimento a tutti questi qui “del doman non v’è certezza”). A mio parere quei tre saranno i veri leader per diversi anni. A meno che alla prova dei fatti il probabile successore di Letta, Stefano Bonaccini (l’attuale Presidente dell’Emilia Romagna), non mostri di essere il quarto, che come gli altri potrebbe sorprenderci. Ma per ora non si può sapere (forse sì, ma è ben incerto, anche perché l’Italia non è tutta come la Romagna, purtroppo, e bisognerà vedere se il nuovo possibile leader saprà tenerne conto a fondo). Altri leader “storici” “in panchina” nel mio piccolo non ne vedo.

Comunque se il PD non riuscirà a cambiare, ritrovando, con tante altre cose decisive (di cui proverò a parlare), pure un forte leader adeguato alla bisogna, diventerà il socio di minoranza del M5S: deve starci attento, anche se ora è il più forte tra i due: tanto più che si può pure dipendere dall’alleato di minoranza. Nella storia, come il “Grillo parlante” di Pinocchio diceva della vita, “i casi sono tanti”.

L’assurda sottovalutazione del leaderismo, e addirittura – come direbbe Weber – dell’ovvietà sociologica – anche se a uno non piaccia per niente, spiegava il grande pensatore – del capo più o meno carismatico nelle ere di grande crisi storica – in cui oltre a tutto ora purtroppo stiamo rapidissimamente precipitando “alla grande” – si riverbera poi nella concezione della governabilità dello Stato. Su ciò è da vedere l’opus di Weber Economia e società (1922)[13]. Ma il fenomeno carismatico si dà pure a livello di partito, come spiegò Robert Michels (1911), specie nell’edizione del 1925 di Sociologia del partito politico nella democrazia moderna, opus nato in milieu weberiano.[14]

Sul piano del partito, la cosa era stata chiara ai comunisti, che però avevano reagito al modo d’essere non solo democratico, ma libertario (e finché non circolarono troppi soldi magnificamente tale), dei socialisti, organizzando il partito come una specie di ordine dei gesuiti, intorno al corpo dei funzionari, gerarchico, che sottoponeva tutte le decisioni dell’”alto” al basso, ma già belle e confezionate col fiocco – prendere o lasciare – chiamando ciò centralismo democratico. Quei funzionari, nei congressi, erano presentati spesso come operai perché magari lo erano stati a vent’anni, ma erano apparato “burocratico” al potere, in ciò come in tutti i partiti comunisti del mondo. Ogni decisione doveva passare dall’alto al basso e viceversa, ma il motore era sempre “dall’alto”, e perciò ogni decisione era predisposta per essere approvata ai piani “di sotto”. Per cui quando io, allo scioglimento del PSIUP vi entrai, nel 1972, divenendo già l’anno dopo un membro di segreteria provinciale di Alessandria, un vecchio “capo” che “allora” mi voleva bene e mi stimava parecchio (D.M.), mi disse, dopo un certo Direttivo in cui io mi ero astenuto diversamente da tutti gli altri, che io avevo tante buone qualità che mi avrebbero portato dove non avrei neanche potuto immaginare, ma che non avevo ancora capito che “i comunisti si muovono sempre tutti insieme”. Ma tra me e me io, che dalle medie inferiori avevo letto Guareschi, mi ricordai che lo scrittore, monarchico reazionario fottuto ma a suo modo geniale, aveva detto che “i comunisti erano quelli che avevano messo il cervello all’ammasso”[15]. Non era vero nell’insieme perché invece i comunisti erano quelli che leggevano e discutevano più di tutti, e in grande maggioranza gente per bene e pure “patriota”, e coautrice e custode collettiva della Costituzione democratica, ma, in effetti – e questo era vero – con un’antica disposizione all’unanimismo di partito anche nei momenti più tremendi della storia. Così era stato dal trionfo definitivo di Stalin (1927) alla fine del comunismo; e in Cina è ancora così. Valeva pure nel PCI. Andate pure a vedere come nel Comitato Centrale votarono, poniamo, sui fatti d’Ungheria nel 1956, oppure come nel 1969 votò Pietro Ingrao quando vennero radiati gli ingraiani del “Manifesto”, o quando i comunisti aderirono alla NATO, o a vedere come nel congresso del 1966 Pajetta bacchettasse dalla tribuna Pietro Ingrao che aveva rivendicato “il diritto al dubbio”. Pure sul trattare o meno per salvare la vita di Moro sciaguratamente rapito e poi assassinato dalle Brigate Rosse ci fu unanimità.

Il PCI era un grande partito, quasi il solo che avesse avuto una vita clandestina antifascista pure durante la dittatura fascista a partito unico quando gli altri, “in Italia”, se l’erano svignata; e come Partito era stato il primo della Resistenza; e decisivo pure alla Costituente, e in tante battaglie per la difesa della Repubblica democratica e per l’avanzamento dei lavoratori, ma il centralismo democratico alla prova dei fatti, oltre a risultare una grande forza coesiva, limitò gravemente la possibilità di correggere gli errori di linea politica compiuti da chi dirigeva di volta in volta il partito.

Franco Livorsi

(Segue)

  1. F. Livorsi, Cinque stelle nella storia d’Italia. Tra passato e futuro, “Critica marxista”, n. 2, marzo-aprile 2013, pp. 21-29.
  2. Chiarelettere, Milano, 2013.
  3. F. Alberoni, Statu nascenti. Studi sui processi collettivi, Il Mulino, 1968; Movimento e istituzione, ivi, 1981.
  4. Moretti & Vitali, Bergamo, 2010.
  5. G. Ritter, Il volto demoniaco del potere, Il Mulino, Bologna, 1958.
  6. Vallecchi, Firenze, 1956.
  7. Si vedano le “Lettere sul materialismo storico”, di Engels, del 1890, in: K. Marx – F. Engels, Opere scelte, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, Roma, 1966.
  8. Edizioni Rinascita, Roma, 1956.
  9. Amadeo Bordiga, Il battilocchio della storia, “Il programma comunista”, n. 7, 1953; Superuomo, ammosciati! ivi, n. 8, 1953, e Fantasime carlailiane, ivi, n. 9, 1953.
  10. Si veda il testo in: B. Brecht, Poesie e canzoni, Einaudi, Torino, 1964.
  11. Laterza, Roma-Bari, 2016.
  12. Laterza, 2000.
  13. M. Weber, Economia e società (1922, e Donzelli, Roma, 2016, cinque volumi.
  14. Il Mulino, Bologna, 1966.
  15. L’affermazione è ricorrente in: G. Guareschi, Mondo Candido, a cura di C. Guareschi e A. Guareschi, Rizzoli, 2003 e succussivi volumi sino al 1960, che raccolgono vignette e articoli dell’umorista sul suo settimanale.

 

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