Racconto di Natale

Giunsi alla caserma di Prazzo inferiore il 25 di ottobre del 1982, in ritardo rispetto ai miei compagni, partiti da Boves pochi giorni prima.

La motivazione della mia assenza era importante: il 21 ottobre avevo discusso la tesi di laurea, ponendo termine a non poche preoccupazioni.

Quando tornai alla caserma “Cerutti”, a Boves, c’era solo la 23° compagnia fucilieri, della 106° mortai erano presenti solo gli addetti alle mansioni amministrative e qualche convalescente.

In quei giorni partecipai alle adunate insieme ai fucilieri, sopportando le loro battutine acide sui mortaisti, e riaprii la fureria, facendo però ben poco.

Mi illusi che si fossero dimenticati di me, e invece no. Una mattina giunse un ACL per prendere tutti coloro che erano rimasti indietro, in particolare il sottoscritto, necessario alla scuola tiri più come specialista al tiro che come furiere.

Mugugnai un po’, insistetti con il capo-macchina per sapere se avesse compreso bene: “Il comandante aveva fatto esplicitamente il mio nome? -“Sì”- mi rispose asciutto.

In fondo la cosa non mi dispiaceva, sarebbe stata la terza scuola tiri e già conoscevo Prazzo e quella zona della Val Maira.

Il pomeriggio del 25, quando partimmo, piovigginava. Giungemmo a Prazzo che pioveva. Ridendo dissi ai miei compagni di viaggio, sul cassone dell’ACL, che in Estate ero giunto che nevicava, ora pioveva, insomma non era un posto di grande accoglienza.

Rividi con piacere i miei commilitoni, che, saputo della mia laurea, mi sollevarono di peso e mi portarono in trionfo da una camerata all’altra.

Facemmo festa, acquistai alcune bottiglie di spumante in uno dei ristoranti del luogo e le offrii agli ufficiali e ai miei compagni.

Poche sere dopo, in vista della giornata successiva, che sarebbe stata molto lunga e faticosa per tutti, nonostante fossi ormai graduato, mi ritrovai a montare di guardia. Solo un turno, dato che anche io sarei andato in zona di esercitazione.

All’inizio mi lamentai con il sottotenente, ma poi pensai che in fondo era solo un turno, dalle 21.00 alle 23.00, una “passeggiata” nella graduatoria degli orari di guardia. In più non soffrivo il sonno e in questo modo sarei rimasto in piedi un po’ più degli altri, costretti al “silenzio” già alle 21.30.

Presi servizio verso le 21.00, dando il cambio al piantone, che non si aspettava di veder montare un caporale. Mugugnai fra il serio e lo scherzoso.

Era una serata buia e umida, il cielo era coperto e piovigginava.

Io però non sentivo freddo, anche perché, per scaldarmi, facevo su e giù fra i camion parcheggiati e l’entrata della nostra casermetta.

Regnava un silenzio quasi assoluto. I vari reparti alpini erano nei loro alloggi, la sveglia antelucana sarebbe stata per tutti.

L’oscurità era avvolgente, poche luci punteggiavano la caserma e i luoghi esterni ad essa.

Era la fine di ottobre, ma pensai al presepe. Quanti ne avevo allestiti in passato e quanti paesaggi da presepe avevo visto in quei mesi di naia. Natale non era vicino, ma in quel luogo e in quel momento l’atmosfera me lo ricordava e mi faceva immergere in esso, con tanti ricordi e sensazioni.

Continuavo a fare su e giù. Per la prima volta in dieci mesi ero sereno. Cominciavo ad essere un soldato “anziano”, non avevo più nonni che mi tormentavano (e non avevo certo intenzione di fare come loro) e soprattutto pochi giorni prima mi ero laureato, spazzando definitivamente ogni mio timore. Ciò che si sarebbe presentato dopo sarebbe stato affrontato nella vita civile. Per ora mancavano più di due mesi al congedo.

Ero sereno anche perché sapevo che i miei genitori erano più tranquilli. Avevano sofferto con me il primo impatto con la vita militare, che era stato in certi momenti veramente drammatico.

Camminavo su e giù e pensavo alle mie prime guardie a Boves, fra marzo ed aprile, quando nelle ore più terribili, fra l’una e le tre di notte e le tre e le cinque del mattino, non sapevo come difendermi dal vento gelido e, a volte, dal sonno che accompagnava quel senso di freddo che avvolgeva il mio corpo.

A ciò si aggiungeva spesso la paura. La paura di vigilare aree buie e per me ancora poco conosciute.

Ricordai quando percorrevo un viale oscuro a ridosso del muro di cinta della caserma, oltre il quale campeggiava una palazzina abbandonata con le persiane spalancate. Mi sentivo osservato da occhi invisibili che mi scrutavano da quelle camere buie e vuote. E mi sentii ancora più osservato, addirittura seguito, quando ascoltai la storia, raccontata dal sergente maggiore Ricci, di un episodio misterioso accaduto proprio lì, quando l’edificio era ormai abbandonato da tempo, e aveva avuto come protagonisti una guardia, il capoposto e lo stesso sergente maggiore.

Percorrevo quel viale con un senso di brivido e non bastava, per rassicurarmi, imbracciare il fucile, con la baionetta inastata e la sicura disinserita.

Il pericolo però non erano i fantasmi, ma i terroristi. In precedenza si erano verificati attacchi alle installazioni militari e frequenti erano gli stati di allerta.

Una notta, Parodi ed io rischiammo di spararci a vicenda. Entrambi avevamo considerato l’altro un intruso e stavamo per fare fuoco. Solo una frazione di secondo impedì che si verificasse una tragedia.

Continuavo a camminare su e giù e intanto macinavo pensieri e ricordi. Quasi ovunque silenzio e buio. Ad un certo punto si accesero le luci di una camerata del Battaglione “Pinerolo”, nella casermetta di fronte alla nostra, udii vociare e poi ridere. Sembrava una festa. Fra me pensai che, essendo quasi le 10.00 di sera, avrebbero dovuto essere già in branda, visto che anche per loro la giornata successiva sarebbe stata lunga. Malignai su una possibile adunata “figli” fatta da qualche “nonno” più prepotente degli altri. Mentre tutti dormivano questi avevano ancora il becco di fare casino, a dispetto degli ordini. Ma non era la mia compagnia e la cosa non mi doveva riguardare.

Ad un certo punto schiamazzi e risate cessarono e, dopo un attimo di silenzio, cominciarono dei vocalizzi, come se ci si apprestasse a cantare in coro. Scossi la testa: erano proprio dei bei tipi, alla faccia della disciplina che regnava in quel battaglione.

Ma non finii il pensiero che dai vocalizzi si passò ad un canto, dolce e triste nello stesso tempo, “La montanara”, seguito da un altro non meno commovente, “Sul cappello”.

Cantavano bene. Non era il coro della “Taurinense”, a quell’ora forse impegnato in qualche teatro e comunque non certo alloggiato in una nuda camerata, dentro i sacchi a pelo.

Erano però ragazzi abituati a cantare insieme. Il canto era pulito, melodioso.

Mi appoggiai ad un ACL per ascoltare. Sorrisi. Sorrisi, pensando a quando, mesi prima, durante i campi invernali, ascoltando proprio il coro della “Taurinense”, a San Damiano Macra, mi ero commosso fin quasi a singhiozzare. Anche in quella occasione ero di piantone, tanto per cambiare…

Avevo ragione di piangere allora, preso da tanti pensieri e paure. Ma ora era diverso, tutto era mutato e molti timori si erano dissolti.

Mentre quei soldati cantavano, tornai indietro nella memoria, alla mia infanzia, in certe serate invernali, quando fuori faceva freddo e c’era la neve. Stavamo in cucina, vicino alla stufa a legna (la sostituimmo nel 1966 con quella a cherosene), di fronte al presepe, allestito sul piano della credenza, con mia madre che, quando era in vena di ricordi, intonava una strofa di “Tu scendi dalle stelle”.

Quanto tempo era passato. Quante cose erano cambiate. In quel momento mi sembrò di stare in una sorta di presepe. Al chiarore e al canto provenienti dalla camerata si contrapponevano il silenzio e l’oscurità. Invece dei personaggi intenti alle varie attività contrapposti al dormiente Benino, che sogna ciò che avviene, tutto dormiva e solo io vegliavo, vedendo ciò che accadeva.

Ad un certo punto il canto tacque e poco dopo si spensero le luci della camerata. Ripresi il mio giro di controllo, ma non passò molto che vidi uscire un soldato dalla casermetta di quella camerata. Aveva in mano un cartoccio e camminava verso di me.

Voleva proprio parlare con me. Ero incuriosito. Quando mi fu vicino mi offrì il cartoccio, spiegandomi che erano dolci che aveva fatto lui, in quanto cuoco del battaglione, per festeggiare il congedo del suo scaglione. Ecco perché avevo udito prima le risate e poi i canti. Gli feci gli auguri, aggiungendo che anche per me era abbastanza vicina la fine del servizio militare. Prima di allontanarsi mi chiese un favore: di svegliarlo per le quattro, per preparare la colazione del mattino seguente.

Gli risposi che avrei avvisato la guardia del turno successivo e il capoposto in modo che fosse svegliato senza intoppi.

Mi ringraziò allontanandosi lentamente e scomparendo oltre il portone degli alloggi del suo reparto.

Rimasi solo, con in mano il cartoccio di dolci, a quell’ora nessuno sarebbe venuto a controllare, lo aprii: conteneva dei biscotti che emanavano un gradevole profumo, il profumo delle cose fatte in casa con amore. Ne mangiai uno era buono, ne mangiai un altro e poi un altro. Dopo averne preso un quarto, decisi di richiudere il cartoccio e di metterlo dentro la giacca a vento, in modo che i biscotti non diventassero gelati. Li avrei consegnati alla guardia del turno successivo.

Verso le 23,00 venne il cambio. Era un alpino alla sua prima scuola tiri e con pochissimi mesi di servizio. Avvisandolo dell’incombenza gli consegnai il cartoccio di biscotti.

Non dimenticherò mai l’espressione di meraviglia sul suo viso. Aveva poco più di venti anni ma in quel momento sembrò un bambino. Mentre gli dicevo cosa doveva fare, aprì il cartoccio e cominciò a mangiare. Aveva un’espressione buffa quel soldatino di guardia che, masticando biscotti verso la mezzanotte, vegliava su tutti noi. Mi fece tenerezza.

Allontanandomi, mi raccomandai che facesse ciò che avevo detto. Con la bocca piena mi rispose di sì.

Non ero tranquillo, per cui, prima di ritirarmi nella mia camerata, informai anche il capoposto di quella sveglia alle quattro.

Mi recai quindi nella mia camerata, dormivano tutti. Illuminai con la torcia elettrica la branda con sopra il sacco a pelo e a fianco lo zaino, era tutto come lo avevo lasciato.

Mi tolsi la giacca a vento, la giubba e gli scarponi, mi infilai nel sacco a pelo e tirai la cerniera fino al mento. Sembravo una mummia. Chiusi gli occhi. La giornata seguente sarebbe stata molto lunga.

Egidio Lapenta

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