Rifondare i partiti

L’assillo che anima il libro di Sandro Frisullo (Il popolo senza politica. Rifondare i partiti, Spagine, Lecce, p. 140) è quello di contribuire a dimostrare che il ripristino di una solida vita democratica non è possibile senza un saldo sistema di partiti. Non è il solo, naturalmente, ad avere questa convinzione, ma nel suo lavoro vi è un utile arricchimento del catalogo dei temi che la crisi attuale della politica richiede di affrontare. Una apprezzabile cautela scientifica lo porta a sostenere le sue affermazioni con frequenti richiami ai classici del pensiero politico (Togliatti e Gramsci in primo luogo) e a far precedere molti capitoli, quasi a mò di introduzione, da una manchette contenente un pensiero, riguardante l’argomento, di un pensatore, o politico, autorevole. A ulteriore ‘garanzia’, per così dire, della fondatezza di quanto sostenuto il libro viene arricchito in appendice con uno svelto spoglio antologico contenente interventi di Aldo Moro, Palmiro Togliatti e Lelio Basso.

Il punto di partenza è una efficace incursione nella concretezza dell’esperienza politica. Per l’autore, infatti, la fondamentalità democratica dei partiti è dimostrata, anche empiricamente, dal fatto che, pur in presenza di una loro evidente crisi di legittimazione, nessun tentativo di sostituirli con nuovi attori sia riuscito. Nonostante la fantasiosa creatività italica ce l’abbia messa tutta per imbastire nuove invenzioni -movimenti, reti, comitati, associazioni, leaderismi, capi carismatici ecc.- nessuna di queste è riuscita a svolgere il compito essenziale proprio dei moderni partiti di massa. Anche il tentativo estremo, rozzo, volgare, corruttore, di contrapporre la “società civile” alla “società politica” (ai partiti, sostanzialmente) è riuscito soltanto a indebolire ulteriormente l’edificio della democrazia e la credibilità delle istituzioni. L’ingannevole convinzione dell’esistenza della dicotomia tra una società civile presunta incontaminata e una società politica ritenuta inevitabilmente corrotta ha prodotto solo ulteriore caduta dei pubblici costumi.

L’analisi che a questo proposito fa Frisullo del “caso pugliese” oltre che, purtroppo, veritiera è davvero impietosa. La conclusione del tutto condivisibile è che ciò che il governo regionale tenta di spacciare per realismo politico, <<sdoganando le forze della destra>>, provenienti da ogni dove (dalla società e dalla politica) per un allargamento elettorale <<senza limiti>>, altro non è che trasformismo e populismo e una pratica politica immiserita dalla ricerca della vittoria elettorale a soli fini di potere.

E’ soprattutto dalla concretezza di comportamenti come questi, e dalla conseguente necessità di contrastarli, che si alimentano l’impegno politico di Frisullo e la sua riflessione su un possibile percorso per la rifondazione della politica e del sistema dei partiti. I temi che si trova ad affrontare sono tanti e con questi altrettanti problemi pratici e teorici, culturali e politici: dalla cosiddetta “fine delle ideologie” al rapporto (tutto gramsciano) tra realismo politico e “dover essere” , alla scelta del sistema elettorale, alla regolamentazione giuridica della vita interna dei partiti, alla separazione fra cariche istituzionali e cariche politiche.

Frisullo non si è sottratto alla loro complessità, consapevole del fatto che eluderla avrebbe avuto il sapore amaro della resa. Per questo il libro si rivela particolarmente stimolante, ricco di argomenti e di tensione intellettuale e morale, di passione politica. Vi sono idee nette e convincimenti saldi, come è proprio nell’indole di quasi tutti coloro che hanno avuto compiti di direzione politica nel vecchio Partito comunista italiano. Si percepisce la spinta di una urgenza interiore. L’ordine necessario in un libro per sistemare gli argomenti qui, infatti, a volte pare scavalcato dal bisogno di dire subito, di dover parlare presto per non rischiare di tralasciare qualcosa, di alleggerirsi di una responsabilità assunta, nella convinzione che in quello che si deve dire sia tutto importante allo stesso modo. E’in questo che si rivela la natura “militante” della riflessione dell’autore. Teoria e pratica non sembrano essere due dimensioni da conciliare, ma una fusione già avvenuta capace di un sincretismo per così dire pacificatore.

Ciò non vuol dire, naturalmente, che tutto fili liscio, che non ci siano incongruenze. Ci sono questioni che non hanno la nettezza con cui vengono presentate. Altre su cui la discussione è aperta. Altre ancora su cui è fondato il disaccordo. A questo riguardo, ci pare, per esempio, che venga concesso troppo alle capacità risolutive dell’ingegneria istituzionale. E’più che legittimo ritenere che il proporzionale sia il sistema più adatto ad una democrazia, ma non bisogna sottovalutare contestualmente il fatto che nessun sistema elettorale è il migliore in astratto. Vi sono infatti paesi che pur adottando il “modello consensuale” (Kelsen) hanno conosciuto una regolare alternanza (Germania) e l’assenza di frantumazione della rappresentanza ( Austria) e paesi che col “modello dell’alternanza” (Schumpeter) l’alternanza non l’hanno mai avuta o è stata assai rara (Giappone). La cosa da tenere sempre presente, dunque, è che la scelta del modello istituzionale ed elettorale non può prescindere dalla specificità storica e culturale di un paese. In alcune sue parti Il libro sembra, invece, indugiare sulla illusione che sia possibile rimediare alla crisi dei partiti -al loro indebolimento, al declino del loro ruolo, alla loro deriva oligarchica, alla loro chiusura alla partecipazione- con un eccesso di normazione, con l’assegnare al potere amministrativo o ai magistrati il compito di garanti della democrazia interna dei partiti e quello della creazione di un sistema di incompatibilità tra funzioni pubbliche e cariche di partito. Non viene considerato il fatto che i partiti possono esprimere liberamente il loro universo valoriale, le loro finalità, la loro ideologia solo se il loro ordinamento interno viene affidato esclusivamente alle persone che di essi fanno parte. I casi differenti -come quello della Germania- non devono essere considerati un modello privo di limiti e di contraddizioni. E’ la stessa Corte costituzionale, d’altronde, che spinge in una precisa direzione quando con una ordinanza del 2006 sostiene che << i partiti politici vanno considerati come organizzazioni proprie della società civile, alle quali sono attribuite dalle leggi ordinarie talune funzioni pubbliche, e non come poteri dello Stato>>. E Max Weber ammonisce che occorre opporsi ad una regolamentazione forzata dei partiti. E’ necessario insomma convincersi che <<nessun paternalismo costituzionale regalerà dei partiti democratici a cittadini incapaci di conquistare spazi di agibilità nelle loro organizzazioni>> (M. Prospero).

Il libro si chiude con un encomiabile atto di onestà intellettuale e politica dell’autore: con una franca, sincera critica dell’“errore”, a suo tempo compiuto anche da lui, di aver assecondato l’operazione di liquidazione (e non di riforma) del Pci – del più grande e organizzato partito comunista d’Europa- per dar vita ad un altro partito che nasceva col peccato originale dell’assenza di un orizzonte di cambiamento.

Egidio ZACHEO

 

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