“Il Rosso e il Verde” e “Psiche e eternità”. Una postfazione

I

Vorrei che il presente saggio, in due parti, fosse considerato come un’unica postfazione, sin qui inedita, rispetto ai miei due ultimi libri, almeno nella mia testa interconnessi: Il Rosso e il Verde. L’idea della liberazione sociale, ecologica e spirituale (2021) e Psiche e eternità. Alla ricerca del dio perduto (2023), primo volume di una Trilogia già annunciata, e abbozzata anche nel secondo e terzo volume.[1] Questa postfazione potrà eventualmente essere considerata come ideale appendice del primo volume (Il Rosso e il Verde) e, di lì, viatico utile alla miglior comprensione del secondo volume or ora pubblicato (Psiche e eternità). Purtroppo, nel tentativo di essere il più possibile chiaro, su argomenti non sempre “facili”, sarò, in questa postfazione – divisa in due ma che è un tutt’uno – alquanto lungo. Provi l’amico lettore a leggere. Se si stuferà non gliene vorrò. Nessun dottore lo obbliga ad andare avanti se il cuore o la mente non glielo suggeriscono. E qui l’excusatio non petita, accusatio manifestat. “Touché”.

Se dopo aver letto entrambi i libri che ho citato, o eventualmente uno dei due, taluno vorrà scrivermi – ad esempio una lettera-articolo, o una lettera che io sia autorizzato a pubblicare qui, o un pezzo di commento – se lo farà con la cortesia e rispetto che dobbiamo ad ogni essere umano – per me dialogare pubblicamente sarà sempre un vero piacere.

Il primo libro – Il Rosso e il Verde – è almeno un poco noto ai lettori di “Città Futura on line” perché, nella maggior parte dei testi che lo compongono, è fatto di articoli-saggio “in serie unitaria” comparsi su “Città Futura on line” tra il dicembre 2019 e l’ottobre 2020, e a lungo compresi in una sezione del nostro giornale on line intitolata “Filosofia del Socialismo”. Ma forse avrei dovuto dire “Filosofia del nuovo socialismo”. Non mi pare cosa da poco, almeno come problema.

Il libro Il Rosso e il Verde è arrivato con piedi di colomba, ma a mio parere, tra i molti libri da me scritti o curati dal 1975 a oggi, per me è il più importante dal punto di vista dello svelamento del “pensiero politico”, e in parte filosofico, specificamente mio, qual sia il suo valore: un pensiero da me maturato negli ultimi sessant’anni. Lo considero una sorta di preludio all’opus in tre volumi: una sorta di poema di cui ora esce il primo volume, Psiche e eternità, incentrato su una problematica psicologica, morale e neo-religiosa, che ne Il Rosso e il Verde era abbozzata. Per me Psiche e eternità è il seguito di quel discorso, ma su un versante spirituale.

Il quesito di Il Rosso e il Verde verte nientemeno che sul comunismo dopo il comunismo, e il socialismo dopo il socialismo (o meglio dopo il “socialismo” sin qui prevalso ed esistito). Il punto di partenza, svolto in un saggio di “Introduzione” mai pubblicato prima neppure su “Città Futura”, è la presa d’atto del fatto che in termini di forma dello Stato il movimento comunista, da oltre centosettant’anni (prendendo come momento “a quo” il Manifesto del partito comunista di Marx e Engels del 1848[2]) , dopo un brevissimo intermezzo in cui la democrazia dei consigli dei lavoratori stessi pareva in fieri, seppure quasi sempre nel bel mezzo di grandi tragedie collettive, ha sempre finito per realizzare dittature della burocrazia di Stato, nonché della polizia e dei militari di professione, semplicemente con la tessera del Partito comunista in tasca, e con la pretesa che la volontà dei lavoratori fosse, o sia, transustanziata in questi corpi, che sono poi i corpi costitutivi dello Stato moderno, o Stato macchina, o degli apparati del mondo (da Marx e Lenin detto “Stato borghese”). Come è facile confondere il “popolo di Dio” con il “corpo sacerdotale”, così è stato facile confondere la sovranità dei lavoratori in regimi detti socialisti con quella di una burocrazia di stato che pretendeva di incarnarne la volontà generale persino quando essi non solo la subivano, ma odiavano.

Dove tale decorso in area comunista non si era verificato, era perché il movimento socialcomunista non aveva potuto farlo.

In caso di scacco del progetto dittatoriale burocratico, il movimento comunista, come nell’Occidente capitalistico avanzato, diventava una variante, una forza di complemento, talora un pungolo, e più spesso una remora per i suoi legami con gli stati “comunisti”, della socialdemocrazia riformista, da cui del resto “il comunismo” ab ovo era nato: una socialdemocrazia che però non è mai stata un’alternativa rispetto al modello sociale dominante capitalistico, che pure ha migliorato sempre un poco (in sostanza umanizzandolo, ma insieme perpetuandolo “più forte che pria”).

Talora – in grande carenza o assenza di una vecchia borghesia privatistica formatasi nei secoli – lo strapotere burocratico detto comunista ha rafforzato ed espanso lo Stato dominante, e modernizzato paesi, specie sinché i governi abbiano potuto esercitare un’anomica violenza. Questo è stato ed è vero in grandi paesi asiatici come la Cina, che combinando insieme dittatura burocratica ed economia profondamente privatistica, alias capitalistica, ha buone chances di diventare la prima potenza capitalistica, sotto bandiera rossa, del mondo. Ma dire tale economia socialista farebbe ridere.

Comunque, almeno a livello di Stato lo strapotere burocratico autoritario è stato ed è la costante storica di ogni potere “comunista” minimamente consolidato, ove abbia potuto realizzarsi. L’idea che dopo qualunque rivoluzione sociale più o meno grande questa forma di stato burocratico dittatoriale non arrivi, dopo tutte queste prove mi pare strabiliante.

Inoltre è facilmente dimostrabile che Marx detestò sempre i corpi dello Stato moderno – burocrazia, polizia ed esercito permanente – non meno, ma più della borghesia privatistica stessa, e per ciò l’aver fatto del socialismo di stato il “vero socialismo”, tanto più nell’economia, è veramente una delle più grandi “ironie della Storia”.[3]

Dal 1936, da parte del Trockij della Rivoluzione tradita, partendo dalla realtà della prevalente proprietà statale piuttosto che privatistica dei mezzi di produzione in URSS – e dal 1956 al crollo dell’URSS del 1991 da parte della gran parte dei comunisti e socialisti marxisti specie d’Occidente, compreso chi scrive – si è ritenuto che a un certo punto, come già alle prime origini della Rivoluzione, la “degenerazione burocratica” – stigmatizzata così appunto nel citato libro di Trockij[4] – sarebbe stata spazzata via dal mondo dei lavoratori, e dei loro “consigli elettivi” (soviet), già protagonisti nella fase di lotta per il potere socialista: liquidando appunto l’artificioso e artificiale strapotere burocratico repressivo, tagliandolo via come un bubbone che alterava la “sana” economia pubblica. Perché non pensarlo se l’economia pubblica era prevalente? Non era forse vero che anche in Occidente il suffragio universale era arrivato ben oltre la liberale economia privatistica e la liberale divisione tra i tre poteri fondamentali dello Stato?

Ma il comunismo è crollato da Vladivostok a Berlino senza che la cosiddetta “degenerazione burocratica”, fosse stata, o sia, mai stata sconfitta senza far cadere tutto l’edificio, tutta quella forma dello Stato: evidentemente non era una degenerazione, ma una “generazione” di un sistema. Se il bilancio non veniva fatto dopo il crollo dell’URSS, quando mai avrebbe dovuto essere fatto?

Questo dinamismo – sempre oscillante tra potere proletario selvaggiamente represso dalla “borghesia”, come nella Comune di Parigi, e potere della burocrazia autoritaria di stato e degli annessi corpi polizieschi e militari di pretesa fede comunista – si è riprodotto tale e quale per oltre centosettant’anni, SEMPRE e DAPPERTUTTO. Centosettant’anni sono un tempo piuttosto lungo per poter pensare che si sia trattato di un accidente della storia, come una sorta di malattia della crescita di un corpo sano (come i liberali italiani dicevano del fascismo, arrivato dopo un’Italia loro andata da Cavour a Giovanni Giolitti). Uno naturalmente può sempre cercare, e persino trovare, indizi che sembrino riportare alle speranze perdute, ma com’è possibile credervi ancora? E com’è possibile non vedere che questo continuo rinvio della soluzione della vera aporia del comunismo al potere (il burocratismo autoritario al posto del potere operaio), dopo centosettant’anni ricorda troppo l’ironico cartello che il commerciante aveva messo nel suo negozio “Oggi non si fa credito, domani sì”?

Tuttavia questo discorso, nel libro, per me è stato solo il punto di partenza. Tramite l’Introduzione e tutta una parte di storia dell’idea comunista da Marx al crollo dell’URSS intitolata “Paradiso in terra e paradiso perduto nella storia del socialismo. Da Marx al 2000” (i cui paragrafi erano qui comparsi come articoli), ho cercato di dimostrare che le cose sono andate così, ma anche di trovare quel che nelle stesse premesse profonde, in specie marxiane, avesse e abbia portato sempre a quei risultati. Comprenderlo mi è parso fondamentale anche in vista della definizione di un’idea socialista per il futuro: diciamo pure per il XXI secolo in cui ora siamo sempre più immersi.

Tuttavia, colta la costante dello statalismo burocratico “autoritario” ove sia stato realizzato il potere del partito comunista in ogni tempo e Paese, a me è parso di poter constatare che lo statalismo burocratico – senza l’autoritarismo – è stato un tratto delle stesse socialdemocrazie. Il “comunismo”, come esclusiva, o pressoché esclusiva, forza al potere – quando è riuscito a prenderlo – è stato uno statalismo burocratico illiberale, non democratico, autoritario, dittatoriale; e la socialdemocrazia è stata uno statalismo burocratico liberale, democratico, consensuale. Certo “comunismo autoritario” e “socialdemocrazia riformista” non erano e non sono la stessa cosa, come non lo sono dittatura e democrazia, ma “i due” erano “parenti stretti”: fratelli-coltelli, spesso come Caino e Abele, ma pur sempre fratelli. Comunque almeno dopo il fallimento del riformismo comunista di Kruscev (1963), col senno di poi sarebbe stato possibile riconoscere l’insuperabilità dell’autoritarismo burocratico nel comunismo al potere e la necessità della metamorfosi socialdemocratica della sinistra. A tale conclusione i gruppi riflettenti della sinistra sono arrivati in tempi diversi: chi nel 1947, chi nel 1956, chi nel 1968, chi nel 1982, chi nel 1991 e chi mai.

Molti di noi – già più di quarant’anni fa, pure nelle file del comunismo, e non nelle ultime – si persuasero – e infischiandosene del potere sostennero sempre e dappertutto – che il comunismo storico avrebbe fatto bene a tornare a fluire senza se e senza ma nel socialismo democratico occidentale, in Italia facendo una scissione di Livorno alla rovescia, ossia ricomponendo la frattura storica tra comunismo e socialismo. E ancora lo penso. E ritengo ancora che il non averlo voluto fare a nessun costo, neanche dopo la caduta del muro di Berlino del 1989, al limite presentandosi in modo alto e forte come “i veri socialisti democratici europei”, il vero “partito dei lavoratori” del 1892 rinato tra noi, sia stato un errore grave quasi quanto quello di non essere andati al governo dopo la Grande Guerra mentre come Partito Socialista Italiano si era il primo partito in Parlamento, lasciando aperta la crisi sociale più totale che ci fosse mai stata, durata dal novembre 1917 alla primavera del 1921, diciamo per mille giorni consecutivi di “febbre a 40” della società, creando così il terreno favorevole alla vittoriosa reazione fascista.[5]

Tuttavia – ciò posto e “confermato” – va pure riconosciuto che il rinnegamento del comunismo in quanto burocratismo autoritario non ci ha affatto introdotti nel migliore dei mondi possibili, né prima né dopo il 1991, ma sempre, e ovunque – nella migliore delle ipotesi – ad una specie di liberalismo sociale che, in mancanza di meglio, dobbiamo tenerci stretto, ma dando ad esso le spalle, e non il viso, come disse un tale. Pur optando onestamente per il possibile contro l’impossibile, pur evitando ogni fuga dalla realtà, dovremmo seguitare a mantenere il “gran rifiuto” del male di vivere in questa civiltà, seguitando a cercare la soluzione, ma senza tornare all’infinito a cure del passato che erano palesemente fallite. Mentre ci atteniamo al meglio che si può fare, dobbiamo mirare a un “oltre” che per ora – lo riconosco – è risultato solo un’istanza etica, ma che un giorno dovremo trovare, o che altri troverà il modo di realizzare. Questo non significa affatto rinunciare al concretismo riformista finché non c’è nulla di meglio da fare, ma solo continuare la ricerca e la sperimentazione. E infatti io ho molto sostenuto sia il migliorismo comunista di Napolitano che l’idea della riunificazione di tutta la sinistra sotto le bandiere del socialismo democratico e in vista di un’alternanza tra destra e sinistra di tipo semipresidenziale francese, cui Craxi, pur con la palla al piede di un partito troppo degenerato stando sempre al potere con la balena bianca democristiana, sembrava votato. Per ragioni analoghe tra il 2013 e il 2016 mi è piaciuto Matteo Renzi alla testa del PD, come riformatore dello Stato, che pur con alcuni pasticcetti avrebbe dato all’Italia governi quinquennali (tanto che considerai una sciagura nazionale e per la sinistra la sconfitta del suo referendum sulle riforme istituzionali nel dicembre 2016). Come sempre la disfatta del “riformismo di governo possibile” per una sinistra forte, ha semplicemente destabilizzato tutto, facendo così, alla fine, il gioco della destra. Si tratta di uno scenario che torna sempre a ripetersi. Così un secolo fa, affossato il governo socialista e liberale possibile nel 1919/1920, arrivò Mussolini in camicia nera; affossato Craxi da sinistra arrivò l’ultracraxiano di destra, Berlusconi; e liquidato Renzi, e il suo tentativo di premierato e di riformismo socialista neo-craxiano o alla Tony Blair è arrivata Giorgia Meloni, con il presidenzialismo spinto che promette (si verum est quod nemo dubitat).

Tuttavia io non ho mai pensato che il pragmatismo di sinistra – fosse di Craxi, o Renzi, o domani di Renzi e Calenda, o di Stefano Bonaccini (e Nardella), ma fosse pure Elly Schlein – potesse e possa bastare al fine di superare il capitalismo, o comunque la civiltà borghese che rende sempre servo il lavoro, sempre egoistica e spesso vacua e volgare la vita collettiva, e devasta di continuo il pianeta, e quasi sempre è sincronizzata con l’imperialismo americano, che essendo democratico è sempre meglio dell’autoritario, ma sempre imperialismo è.

Il pragmatismo di sinistra, insomma – si chiami migliorismo, o riformismo o altrimenti – ha potuto e può essere un gran bene, l’indispensabile “antidolorifico” sociale, ma va incluso nella lotta per una “società altra”, di “giustizia e libertà”, in cui il lavoratore non dipenda da nessuno; la gente sia solidale, consapevole e motivata quanto più si possa; la vita sulla terra sia risanata, e ogni imperialismo sia mandato a gambe all’aria. Non va insomma abbandonato il sogno post-capitalista, anche se non si può, e soprattutto non si sa ancora, trasformare in realtà. Ma la ricerca e sperimentazione debbono seguitare, e su ciò molte cose possibili ma travolte debbono essere riprese, mirando sempre al post-capitalismo, per quanto esso sia oggi remoto, perché le vecchie strade sono state tante volte sconfitte che sarebbe folle riproporle, anche rivedute e corrette.

Altrimenti il rischio che tutto si risolva in un amalgama, in una ribollita, in un minestrone e più spesso in una minestra riscaldata, da mangiare perché così fan tutti, e non c’è niente di meglio da fare, è alto. Si arriva alla “società liquida”, in cui tutti sono intercambiabili, tanto che al potere al 90 per 100 debbono fare le stesse cose, come gli addetti ai lavori sanno, ma si illudono di non sapere, o che i più non sappiano, mentre invece ormai tutti lo sanno o intuiscono. Così la politica, che è sempre stata connotata dalla passione, diventa un insieme di variazioni sullo stesso spartito, tanto che ex comunisti e ex democristiani possono fare il partito unico (realizzando il matrimonio più folle del mondo); oppure un presidente democratico americano può diventare “un compagno”, e tutto sembra “lo stesso”, avvalorando i peggiori incubi di Nietzsche (il mondo dell’”ultimo uomo”) o di Marcuse (“l’uomo a una dimensione”)[6]. Teniamoci pure il “meno peggio”; optiamo pure per il liberalismo sociale e democratico; valorizziamo pure o Craxi o Renzi o Calenda o Stefano Bonaccini (o Elly Schlein), ma al tempo stesso comprendiamo che solo un’alternativa politica sociale e culturale più radicale può far rinascere la sinistra. L’assenza d’identità ideal-politica ammazza in gran parte i partiti veri, o il carattere vero dei partiti, segnatamente in Italia.

Anche nella “prima Repubblica” (1946/1994) c’erano legioni di opportunisti marci, che nella Storia non sono mai mancati in tutte le parti in lotta dal tempo dei faraoni in poi, e ormai lo sappiamo; ma c’erano pure centinaia di migliaia, e forse un milione o più probabilmente due milioni di persone – sommando gli attivi più motivati di ogni fede politica – che avevano passioni vere, fossero state o fossero esse liberali, repubblicane, democristiane, socialiste, comuniste o fasciste: passioni per cui avevano rischiato la vita, e per cui, anche al di fuori di tempi tragici erano vissute per davvero dalla gioventù sino alla tarda vecchiaia, settimana dopo settimana.

Siccome dopo l’esplosione dei partiti della prima repubblica è arrivata l’elezione diretta dei sindaci e presidenti di regione, molti “nostalgici della prima Repubblica” ritengono che la colpa della morte dei partiti “veri” sia l’elezione diretta dei governanti. Ma non è il nuovo assetto democratico ad aver distrutto la repubblica dei partiti, ma è stata l’implosione della repubblica dei partiti ad aver reso indispensabile il nuovo assetto democratico, basato sull’elettività dei leader locali regionali o nazionali, per evitare che l’implosione dei partiti si mangiasse o mangi pure la democrazia. A me sembra impossibile che non si capisca che dove la gente non ha più nessuna vera fede politica, se le si toglie pure il diritto di scegliere almeno chi governa si spalanca la porta alla dittatura o, nel nostro mondo europeo, alla “democratura” (il mix tra democrazia e dittatura). Qui col “Porcellum” di Calderoli vigente dal dicembre 2005, non abrogato da nessuno perché scegliersi i boiardi da mandare in Parlamento fa troppo comodo a ogni segretario generale di partito, hanno tolto di mano agli elettori dei singoli collegi persino il diritto di scegliere loro stessi il parlamentare loro portavoce a “Roma”. Che “Dio” ce la mandi buona.

Comunque nella storia, quando si hanno tali forme di decadenza della democrazia, purtroppo molto presenti in tanti paesi del mondo, solitamente ci si avvicina ad un abisso: ad esempio alla guerra mondiale. Io ho pubblicato su ciò, nel 2014, un romanzo distopico, ossia un’utopia alla rovescia, Kali Yuga. Il tramonto del nostro mondo[7], immaginando un conflitto nucleare nel 2064, frutto dello scontro, per responsabilità comune, tra un cinico presidente democratico “di sinistra” americano e un dittatore nazicomunista, operante come “longa manus” di una Cina nazionalcomunista. Ma adesso, non nel 2064, ci sono venticelli di tal genere troppo attuali, tanto che a “8 e 1/2” un grande studioso di politica internazionale, Lucio Caracciolo, il 25 gennaio 2023 appariva angosciato da tale possibilità concreta, legata al crescente internazionalizzarsi del conflitto russo-ucraino. Ma già il solo incombere dell’”ultimo uomo” di cui sopra, che il noto politologo giapponese-americano Fukuyama, ne La fine della storia e l’ultimo uomo (1992)[8], al crollo dell’URSS aveva ritenuto fatale, ci dovrebbe preoccupare, inducendoci a cercare insieme un “nuovo pensiero” per una “nuova prassi”: non una ribollita, ma una “nuova nascita” dell’idea socialista, nella consapevolezza che il lungo periodo storico iniziato nel 1848 è FINITO.

Credo che se vogliamo capire perché i partiti tradizionali siano così in crisi, e in Italia – che è sempre un gran laboratorio che anticipa tutto in Europa – lo siano a un punto tale da far sì che un “partito” possa passare dal 40% al 18% e oggi forse al 14% com’è capitato al PD, o dal 35% all’8% o giù di lì come capitato a Lega o Forza Italia, o dal 5% al 30% come capitato a Fratelli d’Italia, dobbiamo cogliere il fatto che non incolla più la colla che teneva insieme i partiti veri nella prima Repubblica, specie nel suo primo trentennio. Questa forza coesiva, nella mia analisi, era soprattutto un comune modo di pensare, una fede comune, un sentire condiviso, un’idea forte in cui ci si poteva riconoscere intuitivamente, a un punto tale che in determinate circostanze innumerevoli persone per essa – quale fosse per loro tale fede – erano pronte a lottare sino alla morte oppure, cosa non meno difficile, a dedicare ad essa – anche lontano dalle luci della ribalta – tutta una vita.

Naturalmente il problema può essere affrontato bene anche in termini economici o di sociologia pura, ma io credo più fecondo andare a quel che non ha funzionato nelle “visions”, o concezioni del mondo, modi di pensare di riferimento, “grandi narrazioni”. In questo potrei pure evidenziare un residuo che volendo potrebbe essere detto leninista, ma meglio ancora gramsciano. Lenin diceva che la base che tiene insieme un partito vero, operando in esso come forza coesiva, è l’ideologia, da lui però intesa come vera scienza sociale. Lì c’era ancora un residuo scientista, con la pretesa che il marxismo fosse una scienza (in tal caso economico-politica) come quella di Galileo, Newton o Einstein in fisica. Negli anni Sessanta del secolo scorso ci credevano ancora pensatori del calibro di Lucio Colletti o Louis Althusser[9], invano.

In Gramsci la nozione di ideologia, per influsso del neoidealismo entro il suo marxismo, si relativizzava, assumendo una connotazione socioculturale, come “concezione del mondo”: una specie di religione secolarizzata, una fede collettiva laica incentrata sugli uomini che lavorano, uniti però dalla forma-partito portatrice di una nuova concezione del mondo (alias sul “Partito” come “mito” del “Nuovo Principe”).

Ciò posto, per me, per fare o avere un partito “vero” ci vuole un comune sentire, un modo di pensare in cui ci si riconosca, una narrazione comune, una visione. Ma se invece ogni visione non sta più in piedi – o ci sta solo con le stampelle, o il girello di vecchietti che non si reggono più, o si reggono in modo precario, e non scalda i cuori – tutto scade in un pragmatismo spicciolo, che tra l’altro è spesso sconfortante perché alla prova dei fatti, in un mondo sempre più interdipendente, cresce la tendenza all’amalgama, tanto che tutti i governanti sono costretti a barcamenarsi facendo cose molto simili, oppure a diventare gruppi protestatari senza speranza: massimalisti che ritornano come farsa, pronti a tutto e buoni a niente (e “le stelle” di Conte hanno tale lucore). Ma come ha potuto accadere, riducendo la grande idea di liberazione sociale o ad essere burocratismo di stato liberticida o liberalismo vagamente sociale, lasciando i sostenitori di qualunque alternativa di civiltà con il culo per terra?

La mia ipotesi di lavoro è che “Graecia capta ferum inimicum cepit” (”La Grecia, sottomessa, ha sottomesso il feroce nemico”), come si diceva nella Roma antica, che nel 146 avanti Cristo aveva conquistato la civilissima Grecia, ma era stata poi ellenizzata. Nel caso del movimento operaio socialista e comunista, marxista e pure post-marxista, il materialismo della borghesia, per quanto condizionato, ha conquistato la mentalità del movimento stesso. Già da Marx e Engels.

Anche il comunismo al potere, con la sua pianificazione, ha ragionato molto presto in termini di mera economia quantitativa (chi produce di più; come far produrre di più; come sfruttare risorse e lavoro, mettendo i privilegi dei potenti “di Stato e non” – e la potenza dello Stato – sopra tutto).

Anche la socialdemocrazia si è spesso sistemata all’ombra del potere e del sottogoverno altrui, e talora proprio.

In pratica comunismo e socialdemocrazia non sono stati movimenti che abbiano mirato al protagonismo primario dei lavoratori stessi – almeno conquistato il potere – ma a mettere i lavoratori in moto come forza lavoro dipendente, salariata e – spesso a dispetto delle loro intenzioni, ma di fatto sempre – sfruttata ed oppressa o da padroni e burocrati, o dai burocrati pubblici emuli dei capitalisti all’ombra dello Stato, e spesso da entrambi (padronato e burocrazia di stato, in innumerevoli casi “culo e camicia”): fosse il contesto in cui ciò accadeva liberal-capitalistico o capitalista burocratico di Stato. Certo han chiesto e ottenuto in cambio servizi sociali importanti, ma senza superare nessuno dei tratti negativi sistemici cui ho prima fatto riferimento. Ma per tal via, per quanto il loro operato quantomeno per lenire il disagio sociale sia stato importante e talora straordinario, prima o poi sono diventati variabile dipendente del Capitale, semplicemente più in mano all’uomo privato nel contesto socialdemocratico o riformista nell’Occidente democratico, o più in mano all’uomo burocratico di stato nell’Oriente comunista (ma ora pure neo-nazionalista, sotto democrature o vere dittature populiste come quella di Putin).

Questo è accaduto perché le parti in lotta, su tutti i punti fondamentali, la pensavano se non ugualmente troppo similmente, ossia “borghesemente”. Si erano tutte lasciate prendere dal mito del potere personale o di gruppo, sullo Stato e nell’economia: insomma, “soldi e buoni posticini”. Erano tutti credenti di Mammona, ora contro la legge e ora, seppure mai abbastanza, all’ombra della legge.

Qui sono possibili tre domande: 1) Era possibile un’altra via? 2) Sulla base di quale impostazione si è abbracciato questo modo di pensare, che schematicamente ho detto materialismo borghese? 3) Sarebbe possibile un’altra via oggi-domani?

Alla prima domanda, io rispondo di sì. Naturalmente il dire che un’altra via sarebbe stata possibile va preso cum grano salis, perché se non è accaduto ci sono state delle ragioni per cui non è avvenuto. Ma non diciamo che ogni cosa che non è accaduta non avrebbe potuto accadere, perché ci sono molte contingenze che incidono sul risultato. La cosa è andata in un modo, per ragioni spiegabili a posteriori, ma avrebbe potuto andare in un altro. Certo uno può benissimo sostenere che l’autogoverno proletario, fallito sin qui, sarà possibile domani. Ad esempio un estremista dalla testa forte come Toni Negri lo dice anche adesso, con mille argomentazioni tutte degne di essere meditate.[10] Può essere, ma siccome in centosettant’anni le cose sono sempre andate come ho detto, mi sembra molto improbabile che in futuro possano andare diversamente. Io non consiglierei a nessuno di seguitare a prendere botte sul groppone in saecula saeculorum.

L’altra via – opposta a quel vedere merci invece che persone; volumi di produzione invece che collettività operose di libere persone; affari dei singoli invece che doveri collettivi; bruti rapporti di forza invece che diritti; aree da militarizzare invece che aiutare a svilupparsi; egoismo “fatale” invece che solidarietà; meschinità invece di grandezza d’animo; egoismo invece di altruismo; bassezza di omuncoli (e donnette) invece che nobiltà dello spirito; arroganza invece che persuasione – privilegia l’idealismo (e il volontarismo) sul materialismo. Non è che il materialismo implichi per forza tutte le brutture elencate, ma certo non le nega necessariamente.

L’idealismo per contro fa dipendere l’essere dalla coscienza (e inconscio), e da una coscienza-inconscio di tipo universale, intersoggettivo, seppure per me in ciascuno a suo modo. In pratica nel sinolo, o tutt’uno, “psicosomatico” corpo (soma) e mente (psyché), sussume il “soma” alla “psyché”, da cui il “soma” viene a dipendere come più alta espressione della mente. L’esteriore dipende dal più interiore. Ora lo spiega bene lo scopritore dei microprocessori, il fisico Federico Faggin, in Irriducibile (2022)[11]. I modi di pensare e volere dominano sulle relazioni materiali, lì persino nei corpi vivi. Questa convinzione nel mio Psiche e eternità, cui ho accennato, è centrale.

E la politica, alias Stato – che trasforma le coscienze-volontà di tutti-e-ciascuno in decisione collettiva – nella mia visione domina sull’economia (superando ogni materialismo storico, marxista ma pure capitalista, in specie liberista). Non è solo questione di volontà di potenza in lizza, o di individui che lottano per il potere, ma soprattutto di istituzioni, di forme del potere collettivo, di cui il governo è un fattore e non l’asso piglia tutto (né lo sono “i governanti” come singoli, per quanto pure il loro essere personaggi di rilievo o sprovveduti vestiti da festa pesi: più o meno come l’essere figli di grande qualità o poveri fessi nelle grandi casate industriali). Ma far dipendere la realtà dal pensiero conscio-inconscio che la pensa (e correlativamente vuole), è l’opposto del materialismo: filosofico, storico ed etico. Significa ritenere la dimensione più interiore – per quanto misteriosa possa essere o sembrare – con una marcia in più rispetto all’ “esteriore”.

Il materialismo della borghesia è prevalso anche nel proletariato e nello stesso socialismo marxista e post-marxista. Il modello inglese (e americano), reso pure grandiosamente giuridico a partire dal Codice civile privatistico di Napoleone, è prevalso. Ma in campo c’era un’altra linea.

Una delle cose che mi convincono di più in Gramsci è che l’idealismo di Hegel, poi svolto per lui da Gentile e Croce (però in senso per lui genialmente reazionario o conservatore in sede politica), sia stato una sorta di nuova Riforma protestante, in cui Dio da trascendente diventava immanente, risolto nella coscienza infinita dell’uomo: coscienza che, anzi, era, “è”, l’infinito nell’uomo, che si svolgerebbe come una specie di spirale nella storia.

Sin dall’inizio, come in Fichte, l’impostazione implicava un forte senso della missione dei singoli e del loro dovere[12]; e in Schelling – il vero ecologista profondo “ante litteram” – implicava anche un forte senso della cura, e amore, nei confronti della Natura, in cui l’Assoluto, lo Spirito, l’Io in Dio e Dio nell’Io, è ritenuto sotteso (la materia non è affatto solo “polvere”, ma corpo di “Dio”: Io “oggettivo”). In Hegel, e Gramsci, poi l’Io umano, infinitizzante, si fa Storia. Il punto differenziale da Gramsci, in me, è il fatto che egli riteneva che questa Riforma en marche dall’idealismo classico tedesco non fosse fallita intorno al 1835-1840, ma naturalmente seguitata in Marx, e poi in Lenin e nel comunismo contemporaneo, che in lui diventavano una sorta di Regno dell’uomo intersoggettivo, di partito e Stato pressoché etico (il Partito “Nuovo Principe”), “en marche”, contrapposti, nei suoi Quaderni del carcere, al sociologismo senz’anima attribuito a Bukharin, che invece era tipico di tutto il marxismo sovietico, da Plechanov e Lenin sino a Stalin e oltre[13].

Invece la linea idealistica ha avuto importanti sviluppi dopo Fichte, Schelling e Hegel, sol che si pensi al pensiero-prassi di Mazzini, quasi fichtiano, che oppone al primato dei diritti individuali quello dei doveri individuali-collettivi, e la fraternité in “Dio” alla lotta a morte nella società: una linea che anche filosoficamente e politicamente porta direttamente e coscientemente a Carlo e Nello Rosselli e a “Giustizia e Libertà”, e a un uomo come Ferruccio Parri, tanto per fare un grande esempio, e più oltre a Aldo Capitini, ma pure a Bergson, a Mounier, a Teilhard de Chardin e per me a Fritjof Capra, che io considero il maggior pensatore dell’ecologismo contemporaneo[14].

Ma questa linea, questa Riforma idealistica, neo-religiosa e rivoluzionaria, è stata sconfitta dal materialismo, più o meno dal 1848 sempre un po’ di più. Per varie ragioni. La religione, anche intesa come Spirito immanente nell’uomo come nell’idealismo classico, dal XVI al XIX secolo si era troppo compromessa con l’assolutismo, con la Reazione, e così via, per non essere detestata a sinistra, rendendo deboli politicamente le tendenze idealiste di sinistra di cui si è detto, da Mazzini ai Rosselli o da Bergson a Mounier e Teilhard de Chardin e oltre: sino a indurre i rivoluzionari e riformatori a buttar via l’idealismo con l’acqua sporca della destra clerico-reazionaria, prima del 1848.

Eppure Rousseau da un lato e persino Robespierre dall’altro[15] l’avevano pensata come Mazzini, diversamente da Marx e dai comunisti, socialisti e anarchici.

Gli operai stessi subivano l’influsso del capitalismo. Marx e il marxismo in sostanza, e nel mio libro l’ho lungamente spiegato, hanno pensato di poter rovesciare “da sinistra” l’economia capitalistica odiata (Adam Smith, Ricardo, e più oltre Keynes); ma quel che è rovesciato è confermato alla rovescia, è una “fuga nell’opposto” (o “enantiodromia” direbbe Jung), come la dittatura di sinistra rispetto a quella di destra (e viceversa), o le fabbriche col cottimo e la catena di montaggio da una parte e dall’altra, o il liberalismo di destra rispetto al liberalismo di sinistra.

Sulla base di quel modo di ragionare materialistico a tutto campo (filosofico, storico, economico ed etico), molte cose sono state stravolte. Ad esempio il rapporto tra Stato ed economia, o il problema della governabilità dello Stato. È vero che talora l’economia si svincola dalla politica, dallo Stato. Ma in generale la storia – che è innanzitutto coscienza che si fa azione, decisione collettiva, inter-soggettiva – la fa in primo luogo lo Stato, ben inteso in costante rapporto di incontro-scontro con la vita economica e con le credenze profonde dei singoli, e dei singoli raggruppati, che non sono mai solo agenti dello Stato, ma suoi referenti: mai assorbibili o assorbiti da esso, se non nella fantasia degli utopisti o negli incubi degli antiutopisti (utopisti alla rovescia), su questo punto “fuori dalla realtà”. (Servono molto, ma solo per fare ragionamenti astratti, “per assurdo”).

Ma lo Stato è comunque la forza maggiore nella Storia, anche se ha da essere il più libero possibile, per essere quanto più possibile rappresentativo dei cittadini (e infatti in tanta parte della storia umana a vincere sono stati gli Stati che erano più liberi, anche quando erano autoritari come gli antichi romani d’età repubblicana, rispetto ai dominati, e così gli angloamericani da diversi secoli).

Tuttavia scambiare la forza maggiore dello “Stato” per un’entità o addirittura individuo collettivo che tutti assorba in sé era falso pure al tempo dei faraoni o di Hitler o Stalin: tutti gli altri che non sono “Stato” non presuppongono affatto lo Stato come “tutto-tutti”, come per Hegel, Gentile e nei totalitarismi; ma è semmai lo Stato a emergere da loro, per quanto esso possa poi essere indispensabile, e persino una corazza o casa o fortino o potere arbitrale di cui non si può fare a meno (anche se “sarebbe bello”, ma non siamo utopisti, né utopisti a rovescio). Ma lo Stato è sempre primus inter pares; e i “pares” sono le persone, che sono i “reali” più “reali”, che però hanno bisogno di quell’essere artificiale, o “cittadino” collettivo, per non distruggersi reciprocamente e per non essere distrutti da altri, o quantomeno per non rischiare troppo, e troppo spesso, che ciò accada. L’ammortizzatore della vita sociale ci vuole: è lo Stato.

Nella società, comunque, non c’è mai un potere maggiore dello Stato; e se si dissolve lo Stato il corpo sociale si dissolve. Lo Stato perciò nello sviluppo è decisivo. E i famosi padroni – per il marxismo come per tanti economisti borghesi più o meno liberisti, che dal più al meno fanno sempre dipendere lo sviluppo dai “padroni del vapore”, dai capitali in tasca a imprenditori o manager o banchieri – vanno sempre dallo Stato col cappello in mano. Con buona pace di La ricchezza delle nazioni (1776) di Smith o del Capitale (1867/1895) di Marx[16], e affluenti da loro derivati sino ai giorni nostri.

Questo è così vero che persino dopo le più grandi rivoluzioni, lo Stato – per lo più quello vecchio riveduto e corretto – rinasce dalle ceneri. Si potrebbe persino dire che lo Stato si abbatte, ma non cambia (muta solo il tipo di governo, e spesso molto meno profondamente di quel che si vorrebbe credere o che si creda). Una parte rilevante della storiografia discute da sempre per vedere se la Rivoluzione francese e il connesso o seguente bonapartismo siano stati la continuazione dell’assolutismo defunto oppure nuova libertà en marche; o se la Rivoluzione bolscevica abbia davvero dissolto l’assolutismo (già zarista), o se Stalin e consorti siano stati invece i nuovi zar, ora emulati da Putin; oppure se in Italia il fascismo sia stato la continuazione dell’Italia di Giolitti con altri mezzi, almeno sino al 1937, oppure se la Repubblica democratica sia stata la continuazione dello Stato fascista almeno per taluni aspetti decisivi. Su ciò potrei fare molti riferimenti storiografici e di storia del pensiero politico, ma non voglio appesantire troppo il discorso (si vada al mio libro). La mia convinzione è che malgrado le più forti svolte, la continuità prevalga sempre sulla novità. Del resto così è la natura, e infatti pur essendo totalmente mutati, ci riconosciamo ancora nel bimbo con i calzoncini corti di un nostro remoto passato, e nelle più immani stupidaggini, e non solo grandi atti, nostri troviamo qualcosa del nostro essere attuale. Così è pure tra epoche della storia e della cultura che siano “consecutive”. Direi che troviamo sempre novità nella continuità e non frattura.

Ora la cosa che continua più di tutte, pure in relazione di “novità nella continuità”, almeno tra fasi storiche consecutive, è proprio lo Stato, con particolare riferimento alla forma di governo. E siccome nella storia la forza maggiore – non unica, ma principale – è lo Stato, per capire le urgenze della storia, ad esempio per risolvere i problemi sociali, bisogna innanzitutto concentrarsi sui problemi di governo dello Stato.

Ma il materialismo culturale, il primato dell’economico almeno “in ultima istanza”, pure preso “per la coda”, fa sì che la sinistra non riesca a capire che senza un governo democratico, ma forte, la parte penalizzata nei tempi lunghi è proprio il mondo del lavoro: a un punto tale che nelle fasi di grande crisi pur di rafforzare lo Stato, solo possibile protettore, grandi masse di lavoratori passano a destra, naturalmente a loro danno (ma lo si capisce dopo). C’è un grave ritardo della sinistra proprio nel comprendere questa questione dell’indispensabile forte governabilità dello Stato nei periodi di crisi.

Sul piano del tipo di cultura la palla al piede è stata il materialismo al posto dell’idealismo: un idealismo che però – altro punto chiave – volente e persino nolente è sempre o neo-religioso o contiguo alla religiosità. Del resto, anche senza voler enfatizzare l’identità profonda tra Dio e Io, e Io e Dio, nello Spirito assoluto secondo Hegel, il vedere l’infinità come quintessenza della coscienza, affermato da ogni idealismo, implica un’apertura al “religioso”. Ma ciò all’inizio degli anni Quaranta dell’Ottocento fu ripudiato dalla “sinistra hegeliana”, che optò per l’ateismo e il materialismo, nel clima culturale che preparava il 1848 europeo (e anche per forte suggestione per l’industrialismo che marciava con gli stivali delle sette leghe, evidentissima persino nel Manifesto del partito comunista di Marx e Engels del 1848, nonostante la profezia sui proletari come “becchini” del capitalismo[17]). Per fare un 1848 si abbandonò l’idealismo, ma il materialismo era la cultura “borghese”, anche in campo operaio. Quella cultura materialistica, e pure positivistica, fu difesa dalla sinistra persino quando l’altra parte della barricata l’abbandonava, ad esempio quando arrivò il decadentismo europeo, con Nietzsche, Bergson, Jung e altri. Lukàcs ancora nel i954 diceva che era “La distruzione della ragione”: solo che senza quegli impulsi “irrazionali”, idealistici, volontaristici, spirituali vinsero gli altri. Guai a perdere il contatto con lo “spirito del tempo”, e pure con lo “spirito del profondo” epocale.[18] Si è fritti.

E come la cultura prevalente della sinistra non capiva la centralità della coscienza “infinita”, non capiva la massima espressione della coscienza sovrapersonale, della volontà sovrapersonale, che – in democrazia o meno – è lo Stato. La capirono gli anticollettivisti. Su quella base se uno vuol capire l’evoluzione dello Stato francese dal 1789 in poi deve leggere non tanto Marx and Company, quanto Tocqueville (L’antico regime e la rivoluzione, 1856)[19]. Persino il magnifico libro di Marx Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte (1852), sul golpe di Napoleone III tra 1849 e 1851, se sia letto per capire il secondo bonapartismo non ci dice molto.

E, anzi, proprio nella pagina più bella (col suo “Ben scavato vecchia talpa”), evidenzia l’altro punto debole del marxismo.

Il primo punto debole per me era il materialismo filosofico economico e conseguentemente anche politico ed etico, ma il secondo è proprio alla base dello splendido grido di guerra “Ben scavato, vecchia talpa” di tale vasto saggio, che vedeva la Rivoluzione come motore costante, latente o manifesto, della storia umana (talpa proletaria nella contemporaneità). Questo si connetteva a Hegel (ma in realtà era l’Hegel della “sinistra hegeliana”, da cui anche suo malgrado Marx veniva, estremizzandone le posizioni), come ben si vede nel Poscritto alla seconda edizione del Capitale di Marx del 1873, in cui la dialettica di Hegel, sfrondata dal “guscio mistico”, ci mostrerebbe che la vera forza motrice della storia – tesi antitesi e sintesi – è l’antitesi. La guerra sociale interna, detta lotta tra le classi (specie polari), non è vista come stato eccezionale, ma normale, nel divenire collettivo. Si ha una visione polemologica del divenire. Tanto che nelle pagine di Marx che oggi diremmo di sociologia della storia, la Prefazione alla Critica dell’economia politica (1859), laddove si parla del passaggio da una formazione economico-sociale (sistema economico) all’altra, si dice che normalmente tale passaggio è segnato da una rivoluzione[20].

Ma questa visione, in cui il momento della totale negazione o antitesi è la chiave della storia, privava l’apologizzata dialettica di quello che usando una terminologia automobilistica potremmo chiamare ammortizzatore, ma potremmo pure dirlo il guidatore. Infatti in Hegel nella formuletta della dialettica che ogni dilettante ripete “tesi antitesi sintesi” la chiave era sì il Negativo, l’antitesi, Polemos, la guerra, la rivoluzione; ma in tutti e tre i momenti – tesi antitesi sintesi – per Hegel circolava sempre, come fosse il sangue nel corpo, lo “Spirito Assoluto”, “Dio nell’Io e Io in Dio”: per cui tutto il contrasto era dentro una superiore armonia, come quella del contrasto dell’arco e della lira in Eraclito: altrimenti il Negativo, l’antitesi, la Rivoluzione – senza il senso di una superiore armonia che affratella pure i contrari e i loro eredi (senza “Spirito assoluto” immanente in tutto il processo), diventano distruttività[21]; ma in tali casi si crea un tale livello di anomia da rendere poi inevitabile la dittatura per uscirne, sia essa rossa o nera o rosso-nera.[22]

Ma quel vedere il Negativo come la chiave di volta della storia, era almeno la normalità nella Storia?

Non mi pare, sia perché dopo la rivoluzione si ripristina qualche forma di continuum (continuità malgrado tutto), sia perché da un sistema all’altro in genere non si esce, ma si slitta, come tra Mondo antico e Alto Medioevo, eccetera. E accade in molti modi, tra cui la rivoluzione di popolo è solo uno: tant’è vero che l’aristocrazia in Francia è stata cacciata, ma in Inghilterra si è imborghesita, e in America non c’è mai stata, e in Asia abbiamo potuto vedere il passaggio addirittura dal feudalesimo al capitalismo più avanzato in Giappone e altrove.

Questo potrebbe sembrare, “qui”, un discettare per “addetti ai lavori”, ma invece ci fa vedere che la dinamica storica non dipende tanto dall’economia – pure importantissima – quanto da idee e volontà da una parte, e Stato dall’altra, come forza che le coagula di fatto: uno Stato che nella storia, nel variare delle forme, coagula le idee e volontà ritenute più efficaci per il suo potere e per i cittadini da proteggere: in democrazia – in ciò sempre migliore – consentendo alle idee di mettersi a confronto così che ciascuno possa scegliere la sua, mutandola se ritenga di essersi sbagliato o di essere stato tradito da chi le rappresenta nello Stato. Ma sempre di idee-volontà in lizza si tratta, certo in diversi contesti economici, che favoriscono o sfavoriscono le idee-volontà in campo, che però sono la chiave di volta.

L’altra via, “materialistico storica”, che vede soprattutto interessi economici in campo, è spesso un modo per non capire la storia, e per sbagliare in politica.

Ma se non è, o non è solitamente “la Rivoluzione”, il motore della storia, qual è? O meglio, tra i diversi ingredienti che la mutano, nel senso da noi desiderato – libero, solidale e salubre (per essere chiari) – qual è?

Per me sono le grandi concezioni religiose o pseudoreligiose (come vi piace) del mondo, come il buddhismo o il cristianesimo, nella varietà dei loro sviluppi, o l’islamismo, o le religioni senza Dio del comunismo o d’altro colore: sono le grandi fedi redentive, insomma. (Tra queste c’è anche la religione di Mammona, che ad esempio porta a vedere in America il miliardario come ideale da emulare). Queste grandi fedi però non sono figlie, ma madri della politica. Questa è la risultante, quasi la somma diceva Jung, di quello che pensano gli individui nel loro profondo[23]. Ma ci sono pure “religioni politiche”, anche senza alcun riferimento al divino o alla vita post mortem. Su ciò taluni storici, come George Mosse, Mario Isnenghi e Emilio Gentile hanno dato apporti di prim’ordine.[24]

Se si vuol studiare il fascismo ci sono certo apporti preziosi anche dei marxisti, ma poi uno deve leggersi soprattutto Renzo De Felice, o più oltre Emilio Gentile, non certo tali. E la storia della prima Repubblica? Come mai l’ha scritta soprattutto il cattolico democratico Pietro Scoppola[25]?

Il limite è proprio nel voler porre al centro l’economico-sociale, mentre è la dimensione ideal-politica e istituzionale, anche di governo, a pesare di più, per quanto tutto il resto possa contare moltissimo; ma “in ultima istanza” dipende dalla coscienza-volontà dei singoli e, sul piano generale, dal politico-istituzionale.

Invece di cogliere, persino nell’economia, il fervore di entusiasmi, delusioni, speranze, progetti, si è fatto troppo spesso economicismo. Spesso a sinistra si trascura il rapporto tra forma di governo dello Stato e urgenze della politica. In materia si è sempre troppo relativisti su Stato e forme di governo, sin dal tempo di Marx, sempre pronto a sostenere democrazia parlamentare o dittatura rivoluzionaria a seconda delle circostanze, come sarebbe facile dimostrare. Come se l’economico, o quantomeno l’economico-sociale – venisse sempre prima delle forme di governo o istituzionali, viste più o meno sempre, dai “marxisti”, a diversi livelli di intensità, in modo strumentale.

Perciò a sinistra spesso non si vede che qualora tutta una società sia profondamente in crisi la prima cosa da fare è proprio dare durevolezza ed efficacia, nella democrazia, al governo dello Stato. Per tre ragioni: 1) Perché se lo si fa l’economia corre; 2) Perché quando ciò sia indispensabile, se non accade da sinistra accade da destra; 3) Perché se accade “da destra”, spesso accade in modo illiberale.

Certo la questione sociale è decisiva, ma la soluzione non può essere lo statalismo: semmai la partecipazione agli utili e ai consigli d’amministrazione da parte dei lavoratori, e soprattutto il cooperativismo, purché sia tra uguali o più o meno tali, e non un capitalismo, spesso selvaggio, mascherato, e magari a spese del “cittadino collettivo” (Stato).

Comunque ci vuole, oltre al riformismo economico sociale, da un lato una profonda trasformazione in senso idealistico e spirituale della visione del mondo; dall’altro, tenendo conto dell’assoluta centralità dello Stato nella vita dei popoli, ci vuole pure la governabilità democratica dello Stato. Queste, a mio parere, sono istanze imprescindibili del nuovo socialismo.

Ma l’istanza idealistica, spirituale, “religiosa”, è pure una condizione necessaria per la nuova coscienza ecologica: necessaria per evitare una catastrofe ecologica annunciata. Certo è un’ottima cosa lo sforzo degli Stati per non produrre troppo anidride carbonica bucando la sottile cortina di ozono che protegge la terra da un’eccessiva sovraesposizione al sole (effetto serra), ma non credo che questo sarà possibile quanto servirebbe, e a tempo, se non cambia la mentalità dominante. Anzi, l’ecologismo, tra tutte le tendenze, è la sola corrente ad aver compreso che solo una nuova coscienza diffusa potrà fermare la catastrofe ecologica. Ma quale coscienza? Di ciò mi ero già occupato a fondo nel mio libro del 2000 Il mito della nuova terra. Cultura, idee e problemi dell’ambientalismo, ma in questo libro vi sono tornato sopra.

Così, alla fine, ho potuto delineare l’abbozzo di quello che “per me” potrebbe essere un pensiero “en marche”, un nuovo socialismo rosso-verde, per il XXI secolo, incentrato sull’idealismo “religioso” (l’aspirazione ad una vita infinita); la “liberazione di sé” (la rinascita interiore a partire da ciascuno, ma in tutti e per tutti); il cooperativismo, come economia sociale dell’avvenire; l’ecologia sociale e spirituale; la governabilità dello Stato e la governabilità tra gli Stati (dai governi di legislatura o semipresidenziali al federalismo tra gli Stati); la rinascita ideale e politica dell’area democratica, socialista e ambientalista (un nuovo socialismo rosso e vede).

A questo punto è evidente che la questione della religiosità balza in primo piano, come già mi aveva fatto osservare, qui, l’amico Giuseppe Rinaldi. E infatti leggo e rifletto da innumerevoli anni, “via dalla pazza folla”, anche su questo tema, e oggi spero di riuscire a pubblicare un opus che è addirittura una Trilogia, di cui è appena uscito il primo volume, Psiche e eternità. Alla ricerca del dio perduto, di cui ho detto, e di cui mi appresto a parlare.

di Franco Livorsi

(Segue)

  1. F. Livorsi, Il Rosso e il Verde. L’idea della liberazione sociale, ecologica e spirituale, Edizioni Golem, Torino, ottobre 2021, pagg. 383; Psiche e eternità. Alla ricerca del dio perduto, Moretti & Vitali, Bergamo, dicembre 2022, pagg. 269.
  2. K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista (1848), a cura di Emma Cantimori, Einaudi, Torino, 1963, con Introduzione di Bruno Bongiovanni nel 1998.
  3. Karl Marx non dedicò molto del su tempo alla riflessione sullo Stato (a confronto del tempo e delle migliaia di pagine sdedicati all’economia politica): riflessione che comunque si evince molto bene da tre testi: il giovanile, ma fondamentale, libro Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (1841/1844, ma postumo 1927), in: “Opere filosofiche giovanili”, a cura di G. della Volpe, Editori Riuniti, Roma, 1963, pp. 15-142; tutti gli importanti Indirizzi sulla Comune di Parigi del 1871 riuniti da F. Engels nel 1891 col titolo La guerra civile in Francia, e in: Marx – Engels, Critica dell’anarchismo, a cura di G. Backhaus, Einaudi, Torino, 1972, che contiene pure il commento critico a: M. Bakunin, Stato e anarchia (1873), Feltrinelli, Milano, 1968, che aveva espresso una critica acuta, e soprattutto preveggente, alla teoria marxiana della dittatura del proletariato (testi marxiani quasi tutti citati e commentati correttamente da Lenin in: Stato e rivoluzione. La dottrina marxista dello Stato e i compiti del proletariato nella rivoluzione, 1917 ma 1918, in “Opere complete”, XXV, 1967, pp. 361-477); Glosse marginali al programma del Partito Operaio Tedesco (1875 ma 1891), in: “Il Partito e la rivoluzione”, a cura di P. Togliatti, Edizioni Rinascita, Roma, 1950, pp. 225-245 (che è la critica al socialismo statalista di Lassalle). Da tutti questi testi risulta chiarissimo il rifiuto del nesso tra socialismo e statalismo, soprattutto ove lo Stato sia quello burocratico poliziesco e militare, imperniato cioè sulla macchina burocratica, com’è lo Stato moderno, ivi detto “borghese”. Per l’approfondimento della decisiva questione resta fondamentale: I marxisti e lo Stato. Dai classici ai contemporanei, a cura di D. Zolo, Il Saggiatore, Milano, 1977.Il cenno alle “ironie della storia” va alla nozione di G. W. F. Hegel delle “astuzie della ragione”, per cui gli uomini spesso nella storia lottano per un obiettivo e ne realizzano un altro, magari progressivo ma totalmente diverso da quello che avevano voluto: idea che è espressa dal filosofo in: Lezioni sulla filosofia della storia (1825/1831, ma postumo 1834 e a cura di G. Lasson 1911), in it. A cura di G. Calogero e C. Fatta, La Nuova Italia, 1941/1955, tre volumi.
  4. L. Trockij, La rivoluzione tradita (1936), Schwarz, Milano, 1956.
  5. Su ciò rinvio pure al mio saggio Crisi dello Stato liberale e avvento del fascismo (in: Università degli Studi di Catania, “Studi in onore di Enzo Sciacca”, a cura di F. Biondi Nalis, Giuffré. Milano, 2008, pp. 309-320.
  6. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra (1883/1885), tr. Di L. Scalero, Longanesi, 1979, nel prologo. Si confronti il mito dell’ultimo uomo, che è l’opposto di quello dell’oltreuomo, con: H. Marcuse, L’uomo a una dimensione (1964), Einaudi, 1967.
  7. Moretti & Vitali, Bergamo, 2014.
  8. Rizzoli, Milano, 1992.
  9. L. Colletti, Il marxismo e Hegel, Laterza, Bari, 1969; L. Althusser, Per Marx (1965), Editori Riuniti, Roma, 1972; Lenin e la filosofia (1969), Jaca Book, Milano, 1969; con E. Balibar, Leggere il Capitale (1965), Feltrinelli, Milano, 1972.
  10. A. Negri – M. Hardt, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, 2004; Comune. Oltre il privato e il pubblico, ivi, 2010, e Assemblea, Il Ponte alle Grazie, Milano, 2018. Ma si veda la fluviale autobiografia, il cui titolo fa sorridere pensando a uno già dirigente dell’Azione Cattolica e segretario della federazione del PSI di Padova, prima di accedere all’intera filiera marxista operaista, per lui “comunista”: “Quaderni Rossi”, “Classe operaia”, Potere operaio, Autonomia operaia, ma che è interessantissima come storia culturale e dottrinaria, addirittura a livello anche europeo (specie francese), di tutto un milieu, ma naturalmente facendo a tale storia “la tara”: Storia di un comunista, a cura di G. De Michele, Ponte alle grazie, I, 2015, e II, 2018, e III, 2020.
  11. F. Faggin, Irriducibile. La coscienza, la vita, il computer e la nostra natura, Mondadori, Milano, 2022.
  12. J. G. Fichte, Fondamenti della dottrina della scienza (1794 e infine 1812), a cura di A. Tilgher, Laterza, Bari, 1945; La missione del dotto (1794), a cura di C. Mazzantini, SEI, Torino, 1967; Discorsi alla nazione tedesca (1807), a cura di B. Allason, UTET, Torino, 1972.Naturalmente per A. Gramsci penso soprattutto a: Quaderni del carcere (1929/1935), Edizione dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Einaudi, 1975, quattro volumi, ma per quel che dico qui non è meno importante: Scritti giovanili, 1914-1918, ivi, 1958; e Sotto la mole. 1916-1920, ivi, 1975, in cui la matrice idealistica è più evidente.
  13. G. A. Wetter, Il materialismo dialettico sovietico, Einaudi, Torino, 1948.
  14. G. Mazzini, Scritti politici, Introduzione e cura di T. Grandi e A, Comba, UTET, Torino, 1972 (si veda soprattutto: Dei doveri dell’uomo, 1841/1860, pp. 837-943; Pensieri sulla democrazia (1847), a cura di S. Mastellone, Feltrinelli, Milano, 1997; N. Rosselli, Mazzini e Bakunin. Dodici anni di movimento operaio in Italia. 1860-1872 (1925), Einaudi, Torino, 1947; C. Rosselli, Il socialismo liberale (1930), a cura di J. Rosselli, e con Introduzione di N. Bobbio, Einaudi, 1997; A. Capitini, Elementi di un’esperienza religiosa, Laterza, Bari, 1937; Nuova socialità e riforma religiosa, Einaudi, 1950; Il potere di tutti, con Introduzione di N. Bobbio, La Nuova Italia, Firenze, 1964; E. Garin, Intellettuali italiani del XX secolo, Editori Riuniti, Roma, 1974; G. De Luna, Storia del Partito d’Azione, UTET, Torino, 2006; N. Bobbio, Maestri e compagni, Passigli, Firenze, 1994 e infine 2021; E. Mounier, Rivoluzione personalista e comunitaria, Comunità, Milano, 1950. Per gli altri riferimenti rinvio a due miei libri: Coscienza e politica nella storia. Le motivazioni dell’azione collettiva nel pensiero politico contemporaneo, Giappichelli, Torino, 2003; Il mito della nuova terra. Cultura, idee e politica dell’ambientalismo, Giuffrè, Milano, 2000.
  15. J.-J. Rousseau, “Considerazioni di un vicario savoiardo”, in Emilio, 1762, e Armando, Roma, 1969; H. Guillemin, Robespierre politico e mistico, Garzanti, 1989. Robespierre riteneva che l’ateismo fosse dei ricchi e che il cittadino “virtuoso” fondamento della Repubblica avesse bisogno di credere nella giustizia divina e nell’immortalità dell’anima. Robespierre avrebbe persino voluto fondare una nuova religione, dell’Ente supremo, in cui Dio pervade la natura, ma la vittoria dei nuovi ricchi del Termidoro, non certo venuta a caso, glielo impedì.
  16. L’opera di Adam Smith si può vedere a cura di A. Graziani, Bollati Boringhieri, Torino, 1969. Notoriamente volendo porre il libero mercato privatistico come base di tutto, doveva spiegarsi come si autoregolasse. Diceva che si regolava “come se una mano invisibile” lo regolasse. Non molto diverso è l’approccio di Karl Marx nel Capitale. Critica dell’economia politica, I, 1867, e II e III volumi successivi a cura di F. Engels, postumi, sino al 1895. Il I, del 1867, tr. di D. Cantimori, si può vedere, con Introduzione di M. Dobb, Editori Riuniti, 1962. La stessa teoria del plusvalore, e tanto più quella della miseria crescente del proletariato, postulano un’economia in cui valga la libera concorrenza, salvo fluttuazioni. Ma l’economia per me ha quasi sempre una mano “visibile” che la regola: lo Stato. Non è più in gran parte così nell’era della globalizzazione, che però rischia di essere l’era dell’anomia, nonostante le illusioni, direi neo-smithiane, sull’autoregolazione di A. Negri – M. Hardt, in: Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano, 2003.
  17. K. Marx – F. Engels. Manifesto del partito comunista (1848), a cura di E. Cantimori, Einaudi, 1948, e nel 1988 con Introduzione di B. Bongiovanni.
  18. G. Lukàcs, La distruzione della ragione (1954), Einaudi, 1959.La distinzione tra lo spirito del tempo, connesso alla mentalità semiconscia che prevale in un certo periodo, e lo spirito del profondo, della specie, di lunghissimo periodo, relativamente perenne, è in: C. G. Jung, Libro roso. Liber novus (1914/1916, con interventi sino al 1928 e un breve poscritto del 1959, postumo nel 2009), a cura di S. Shamdasani, Bollati Boringhieri, 2010.
  19. A. de Tocqueville, L’antico regime e la rivoluzione (1856), in “Scritti politici”, a cura di N. Matteucci, UTET, 1969, due volumi, I.
  20. K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (1852), a cura di G. Giorgetti, Editori Riuniti, 1964; Per la critica dell’economia politica (1859), ivi, 1959; Il Capitale, I, in tr. Di D. Cantimori e con Introduzione di M. Dobb, ivi, 1962.
  21. Su ciò è da vedere soprattutto G. W. F. Hegel, Enciclopedia filosofica delle scienze in compendio (1830), Introduzione traduzione e note, con testo tedesco a fronte, a cura di V. Cicero, Bompiani-Giunti, Milano, 2017.
  22. Per il riferimento alla sinistra hegeliana resta fondamentale: La sinistra hegeliana. Antologia di testi (1962), Laterza, 1968.
  23. C. G. Jung, Il significato della psicologia per i tempi moderni (1933), in: “Civiltà in transizione tra le due guerre”, in “Opere”, Bollati Boringhieri, 1985, vol. 10, I, pp. 201-224.
  24. Per i nessi tra religiosità e politica nella storiografia, si vedano: G. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo e movimenti di massa in Germania (1812-1933), Il Mulino, Bologna, 1975 e, ancor più specificamente in molti passaggi, Intervista sul nazismo, a cura di M. A. Ledeen, Laterza, 1977; M. Isnenghi, L’educazione dell’italiano. Il fascismo e l’organizzazione della cultura, Cappelli, Bologna, 1979; E. Gentile, Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Laterza, 1993.
  25. R. De Felice, Mussolini, Einaudi, Torino, 1965/1996, quattro volumi in otto tomi; E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, 2002; Storia del fascismo, ivi, 2022; P. Scoppola, La Repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico, Il Mulino. 1991 e infine 1997.

 

II) “Il Rosso e il Verde” e “Psiche e eternità”. Una postfazione

di Franco Livorsi

C’è stato un quinquennio della mia vita, tra la prima fanciullezza e la prima adolescenza, tra gli undici e i sedici anni, tra il 1952 e il 1957, in cui anch’io mi sono sentito un fervente cattolico, che si confessava e comunicava spesso, con mistica partecipazione al rito, e prendeva totalmente sul serio il “grande comandamento” di Gesù sull’amore per Dio, che è infinito amore, e per il prossimo – nemici compresi -come per sé stessi[1]. Ben presto, però, mi persuasi che per moltissimi quelle fossero “parole, parole e solo parole”, e che prenderle molto sul serio, mentre gli altri non lo facevano affatto, era assai disagevole. Imitare il Cristo, “l’agnello di Dio”, era forse una bella cosa, ma si poteva pure correre il rischio di inverare il proverbio più popolare, e ben poco cristiano (e, anzi, inconsapevolmente nietzscheano) dei siciliani, che dice che “chi pecora si fa, il lupo se lo mangia”. (Vi si potrebbe persino cogliere un residuo dell’antico paganesimo greco-siculo).

Lettore appassionato di libri sin dall’infanzia, abituato a pensare che quel che facciamo e quel che pensiamo e vogliamo siano un tutt’uno, cercai di spiegarmi la contraddizione tra atti e parole dei “veri cristiani” che conoscevo andando alla fonte dottrinaria, immergendomi totalmente nella lettura del Vangelo. Avevo sedici anni. Stavo allora in una piccola città del Veneto, in cui mio padre era arrivato come direttore provinciale dell’INAM (come dall’estate del 1961 sarebbe poi giunto in Alessandria: da oltre sessant’anni la città del mio e nostro personale destino, da cui mi sono allontanato per il mio lavoro di professore universitario per diversi anni, ma in cui sono poi tornato a stare, e che è certo oramai destinata a restare la mia città, e la città della mia famiglia d’origine, come di quella formata da me, “in saecula saeculorum”, quando la corsa della nostra vita sarà terminata, e uno ad uno raggiungeremo la tomba di famiglia nel sobborgo di Casalbagliano).

In quel 1957 lessi e rilessi attentamente tutto il Vangelo due volte da cima a fondo senza dir niente a nessuno, come se fosse stato un romanzo. Mi appassionò molto in più punti. Non erano pochi i momenti in cui traspariva una grande saggezza, un amore vero per tutti, una trasfigurazione mistica, e persino la gioia di vivere, e la vera volontà di unione tra umano e divino. Così era pur stata la vita di Cristo e dei suoi amici. Ma mi parve anche di vedere che persino il “Figlio di Dio”, e “Figlio dell’uomo”, in tanti momenti decisivi aveva dovuto amaramente subire il misconoscimento (dapprima pure in famiglia, dove all’inizio della sua missione dicevano che era “fuori di sé”, e tra i compaesani nazareni[2]), e l’incomprensione, l’ingratitudine, il tradimento, e infine la crocifissione da parte degli stessi connazionali e addirittura correligionari “ferventi”, mentre i suoi fedelissimi – quando lui se l’era vista veramente brutta essendo stato arrestato e condannato a morte – l’avevano rinnegato scappando a gambe levate da tutte le parti (pur tornando poi sulla buona strada). Perciò l’idea che ciascuno dovesse “prendere la sua croce” e seguire il Cristo mi parve un’assurdità. Di tanto in tanto quest’idea dell’ingiustificabilità della “croce” in me fa capolino, come un’eco di un tempo remoto. E ancora alcuni anni fa, chiacchierando amichevolmente con uno stimabilissimo sacerdote, e ancor di più grande educatore da poco scomparso, Giorgio Guala, che era venuto ad una riunione di Città Futura come di tanto in tanto allora faceva, su un episodio contenuto in un libro che tra l’altro io considero cristianamente bello quasi come il Vangelo (lo porrei subito dopo), e che inviterei ciascuno a leggere o rileggere integralmente, I fioretti di san Francesco, laddove si parla di San Francesco che spiega a frate Leone che sopportare ogni fraintendimento con santa pazienza è “perfetta letizia”, “e volentieri per l’amor di Cristo sostenere pene, ingiurie, obbrobri, disagi” perché significa “vincere se medesmo”, sicché “nella croce della tribolazione e della afflizione ci possiamo gloriare”[3], a me scappò detto, un po’ sul serio e un po’ celiando, ma ribadendo qualcosa che veniva da quella mia lontana adolescenza ribelle che ogni tanto in me fa capolino, che quello era “il lato masochistico del cristianesimo” (il sacrificio dell’innocente accolto non semplicemente come un brutto accidente, che a chi lotta può suo malgrado capitare, ma come suprema virtù o “cristificazione”). Giorgio Guala naturalmente mi contraddisse, ma a me venne bene citare proprio il libro che dai miei diciassette anni, per parecchio tempo, avevo contrapposto al Vangelo, il Così parlò Zarathustra di Nietzsche, laddove sin dalle prime pagine aveva detto: “Non è la pietà la croce cui viene inchiodato colui che amò gli uomini? Ma la mia pietà non è una crocifissione.” Quell’ottimo prete dal suo punto di vista aveva ragione perché quell’idea in fondo misconosceva il senso stesso della crocifissione. Io, però nella crocifissione dell’innocente, che l’accetta e anzi ritiene necessaria, avevo trovato sin dall’adolescenza una vera pietra d’inciampo.

Il cristiano vero però su ciò ha le sue ragioni, per me un po’ difficili da intendere: perché per il cristiano convinto dopo quella morte atroce del Cristo arriva la resurrezione, che svela Cristo, nella Pasqua, addirittura come il Logos, partecipe dell’unicità divina del Padre, cui è consustanziale. (Così come per il virtuoso perseguitato arriverebbe il paradiso). Ma questa resurrezione, che molti anni dopo l’adolescenza ho compreso essere la chiave di volta del cristianesimo, in quei miei sedici anni mi appariva non credibile: un “Arrivano i nostri” volto a dare un senso a un’atroce tragedia, che in concreto a me sembrava puramente e semplicemente l’assassinio dell’uomo “divino” che aveva più amato gli esseri umani (e mal gliene era incolto). In tale mio giudizio, o “pregiudizio”, pesava certamente – senza che io potessi ancora comprenderlo – una relativa, seppure mai assoluta, miscredenza dei miei avi. Mio padre citava sempre con favore il detto del suo nonno omonimo – un intraprendente Filippo contadino poeta e spiritista di un paesello della Sicilia di fine Ottocento e del primo Novecento – che diceva: “Miracoli e santità se ne credono sempre la metà della metà”, mentre il figlio di quel “saggio”, il mio nonno omonimo Francesco, aggiungeva: “E un piezzu”, come a dire che credere “la metà della metà” era pure troppo. Perciò per me la vera vita del buono assoluto, Gesù Cristo, era terminata in croce. E da ciò ricavavo una morale non certo cristiana.

Allora avevo infatti scoperto – naturalmente dapprima in modo adolescenziale, ma con totale e incredibile empatia per più di quattro anni – dal 1958 al 1961, tra i diciassette e i vent’anni almeno – appunto l’opera di Nietzsche.

In quel quadriennio sostenevo con forza l’idea che Dio fosse “morto”, inesistente e ormai scomparso nella coscienza contemporanea. Certo senza Dio – e senza la connessa idea del Bene e Vero in sé e per sé, senza quell’Amore infinito che tutti ama e che tutti dovrebbero amare amandosi l’un l’altro – l’uomo avrebbe pure potuto peggiorare, precipitando nel nichilismo, nella vita senza senso, in un edonismo fine a sé stesso (“miserabile benessere”), avvalorando la possibilità involutiva dell’ànthropos enunciata da Nietzsche, nel Così parlò Zarathustra, tramite il mito negativo (o anti-mito) dell’”ultimo uomo” (il rovescio del suo mito “positivo” del superuomo: Übermensch che oggi giustamente si preferisce tradurre col termine “Oltreuomo” perché “superuomo” sa troppo di Hitler, o di Nembo Kid).

Quell’”ultimo uomo” sarebbe poi stato ripensato da Marcuse come “uomo a una dimensione”, o uomo del consumismo e vacuità senza limiti: l’uomo medio “americano” del neocapitalismo estremo, detto poi di nuovo “ultimo uomo” dal politologo Fukuyama dopo il crollo del comunismo da Vladivostok a Berlino del 1989-1991, e considerato come destino ormai segnato del genere umano.

Ma la “società liquida”, come oggi la diciamo, per Nietzsche non era il solo possibile destino (in tal caso nichilistico). Per lui c’era pure un’altra strada. Senza l’Assoluto, senza il Bene, senza Dio, l’essere umano avrebbe pure potuto imparare non già a degradarsi, ma a superarsi: ad accettare la propria natura in tutte le sue polarità, come fa ogni animale, che non è intimamente scisso e infelice, ma vive sanamente l’armonia dei contrari che lo compongono. Questa nostra coscienza avrebbe inoltre potuto mirare ad esprimere l’infinità, che connota il nostro umano pensare e volere (appunto il nostro possibile “indiarci”, ma nella contingenza del mondo), invece di seguitare ad alienarci proiettando invano la nostra umanissima infinità su un immaginario Dio creatore. Allora pensavo che ciascuno avrebbe dovuto cercare di essere sé stesso esprimendo in massimo grado la propria creatività umana: l’essere creativo dell’uomo o – come dicevo con ingenua enfasi – il proprio essere “un creatore”. Benché io creda di non aver mai voluto far male proprio a nessuno, ritenevo io pure la vita naturale “al di là del bene e del male”[4].

Da sessant’anni sul piano politico (dal 1962), e da oltre cinquant’anni su quello morale e religioso, non la penso più così, ma allora era quello il mio pensiero “profondo”. Siccome ora ho più di ottant’anni, riconoscerlo non mi fa più né caldo né freddo.

Al culmine di quel tempo remoto, nel 1960-1961 e forse 1962 – specie dopo aver letto e meditato con forte empatia il libro di Karl Löwith Da Hegel a Nietzsche nel 1960[5], che allora ebbe su di me una grande influenza – giunsi a ritenere che si dovesse fare una grande rivoluzione spirituale, politica e sociale contro quello che allora chiamavo “il mondo borghese-cristiano”: una rivoluzione nella quale Nietzsche e Marx avrebbero dovuto darsi la mano, certo al pari dei loro continuatori. Su ciò nel 1961 scrissi, o meglio pretesi di scrivere, pure un libro, intitolato: Con Nietzsche oltre Nietzsche. Prolegomeni a un’etica neopagana. Lo inviai a Feltrinelli. E Brega mi rispose che l’avevano letto “con interesse”, ma che non potevano pubblicarlo perché non rientrava nella loro “linea editoriale”. (Lo credo bene). Mi invitarono, se volevo, a ritirare io stesso il dattiloscritto. Lo feci, e presso l’ascensore nella sede storica di via Andegari, in quell’inizio d’autunno del 1961 in cui io avevo vent’anni, incontrai Giangiacomo Feltrinelli, con i suoi enormi baffi, che mi disse di non fermarmi a quella prima prova andata male. Più oltre, diventato socialista e marxista, il testo mi parve espressione di quello che Marx chiamava “socialismo reazionario” e lo distrussi, nel mio stupido atteggiamento da pentito del nietzscheanesimo e con perbenismo di sinistra, non raro in Piemonte. E feci male, molto male, ma la frittata ormai era fatta.

Comunque dal 1962, a ventun anni, divenni socialista di estrema sinistra (subito segretario della Federazione Giovanile Socialista, e poi fondatore del PSIUP), sin dal principio attratto totalmente dal pensiero di Marx, su cui nel 1968 mi laureai nel migliore dei modi, col filosofo Carlo Mazzantini, presso l’Università di Torino. E subito dopo mi abilitai per concorso nazionale quasi nel migliore dei modi in Storia Filosofia Pedagogia e Psicologia, tra i primissimi della graduatoria nazionale, iniziando la mia vita come professore di Filosofia, prima nella scuola media superiore, dal 1969 al 1974, e poi all’Università, dal 1974 al 2010, quando andai in pensione.

Da Marx mi vennero, sin dal 1962, mille suggestioni (perché certo venivo scoprendo un pensatore grandissimo, anche se ora credo che la sua dottrina non regga), ma per decenni i punti del marxismo che più influirono su di me – animale filosofico – furono tre.

Il primo punto era quello in cui Marx affermava che la religione è “l’oppio dei popoli”: asserzione perentoria del 1844 accompagnata dalla precisazione che “la critica della religione”, sua e dei suoi amici a partire da Feuerbach, non era volta a togliere la speranza all’uomo, ma ad indurlo a spostarla dall’aldilà all’aldiquà: dall’illusorio paradiso in cielo al paradiso in terra (Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico. Introduzione), “paradiso” presto visto da lui come comunismo, inteso però quale società senza classi e senza Stato, in cui tutto diventasse di tutti (Manoscritti economico-filosofici del 1844).[6] Questo punto per me si conciliava benissimo con la polemica contro le religioni e contro il cristianesimo che era stata di Nietzsche. E per molti aspetti era vero (e dapprincipio mi ero rivolto a Marx proprio per questo, cercando l’uomo che supera sé stesso, al di là del mondo “borghese cristiano”).

Il secondo punto che per me risultò decisivo era quello in cui Marx diceva che “non è la coscienza a determinare l’essere sociale, ma è l’essere sociale a determinare la coscienza”.[7] Questo andava molto al di là del valorizzare, o svalutare, soprattutto i modi di pensare e volere dei singoli, che avevo sempre messo al primo posto, prima come cristiano e poi come anticristiano nietzscheano. Per cambiare l’uomo – superandone un egoismo, una meschinità e una bassezza che avevo sempre detestato – bisognava lottare per un mondo senza padroni e per l’autogoverno dei lavoratori; la nuova coscienza umana, cui sempre anelavo, ne sarebbe scaturita. La trasmutazione che avrebbe reso tutti liberi, solidali e creativi non sarebbe, “velleitariamente”, venuta dunque da un’interiorità rinnovata, da una nuova coscienza a monte, ma semmai “a valle”, come conseguenza del superamento del capitalismo, ossia realizzando via via un mondo dominato dai lavoratori stessi, subito spalancato su una società senza classi e senza Stato. Ma già nel corso della lotta per abolire il capitalismo, la nuova coscienza – libera, solidale e creativa, a nessuno asservita – sarebbe stata “en marche”. Essere tra gli operai in lotta non solo serviva loro, ma consentiva di percepire la liberazione umana in fieri, che sarebbe dipesa dalla loro-nostra lotta.

Il terzo punto per me determinante, in Marx, fu quello che vedeva la dialettica della storia tutta incentrata sul Negativo, o antitesi, con schema dello sviluppo già scoperto da Hegel (tesi-antitesi-sintesi). Marx, in particolare nel Poscritto alla seconda edizione del primo libro del suo Capitale (1873) diceva che a dispetto del “guscio mistico” in cui avvolgeva le sue idee, Hegel con la dialettica – con la teoria del divenire tramite l’urto degli opposti verso la sintesi – aveva compreso che proprio il dissolvere la realtà data era la chiave di volta del divenire: perciò – diceva – nella “sua forma razionale la dialettica è scandalo e orrore per la borghesia e pei suoi corifei dottrinari, perché nella comprensione positiva dello stato di cose esistente include simultaneamente la comprensione della negazione di essi, la comprensione del suo necessario tramonto, perché concepisce ogni forma divenuta nel fluire del movimento, quindi anche nel suo lato transeunte, perché nulla la può intimidire ed essa è rivoluzionaria per essenza.” Per almeno vent’anni questa per me fu la mia pagina preferita di Marx: quella – tra l’altro – che spiega pure il famoso grido marxiano del suo Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (1852) “Ben scavato, vecchia talpa”, in cui il soggetto del divenire diventa la Rivoluzione stessa, la potenza dell’antitesi, in tal caso proletaria, che non solo tramite la rivoluzione democratica, ma pure attraverso la reazione, fa sempre cadere le gallerie scavando di sotto (cioè facendo crollare ”l’ordine” preesistente).[8]

Su ciò lessi e meditai moltissimo leggendo già tra i venti e i venticinque anni tutti i libri importanti di Marx, ma pure di Lenin, di Rosa Luxemburg e di Vittorio Foa: un Foa i cui discorsi e saggi d’indirizzo marxista operaista mi persuadevano in sommo grado. Per Foa, che prima e dopo la nascita del PSIUP aveva a Torino e Biella i compagni che più si riconoscevano nelle sue idee (da Gianni Alasia a Fausto Bertinotti, e soprattutto da Franco Ramella e Clemente Ciocchetti a Pino Ferraris), la società via via senza classi avrebbe potuto sorgere solo dall’azione autonoma dei lavoratori stessi in produzione, come esperienza diretta di libertà e liberazione sociale in atto, o partecipando ad essa. In Occidente la rivoluzione proletaria non sarebbe venuta né dall’assalto bolscevico contro il “Palazzo d’inverno”, cioè contro il centro del vecchio Stato, né tantomeno da una nuova maggioranza parlamentare, ma dall’espansione del potere operaio nella fabbrica e nella società tutt’intorno, come vita nuova dentro e contro la vecchia vita e società. Questo era il nucleo forte del nuovo marxismo operaista, espresso in autori che in taluni casi erano miei amici estremisti dalla grande anima (come Gianfranco Faina e Gianfranco Dellacasa, e poi, nel PSIUP, Clemente Ciocchetti, Pino Ferraris, Franco Ramella e compagni), ma soprattutto come Raniero Panzieri (“Quaderni rossi”), Mario Tronti (“Classe operaia”, ed oltre), e pure Antonio Negri (da cui ho sempre dissentito, ma che leggo e medito volentieri ancora adesso)[9].

Ma io mi sentii sempre impegnato a tenere insieme l’idea della liberazione totale dallo sfruttamento e dall’autoritarismo ed il realismo politico, per cui, pur attratto dal neo-marxismo rivoluzionario, ritenni sempre fondamentale mantenere il radicamento di tali istanze nel contesto, che dicevo “storicamente determinato”, dei partiti “storici” della sinistra e del sindacalismo confederale. Questo del resto era pure l’approccio caratteristico di Foa. La lotta marxista operaista per il potere operaio, i consigli di fabbrica, l’azione operaia autonoma, e la formazione di giornalini di fabbrica che facessero sentire la voce degli operai stessi, avrebbero dovuto rinnovare partiti e sindacati lavorandoli ai fianchi, ma senza mai ripudiarli (cadendo in tal caso, volenti o nolenti – semmai l’avessero fatto – nell’avventurismo, vanamente violento e vanamente omicida, come poi si vide).

Leggevo e meditavo moltissimo, con apprezzamento, anche Gramsci, e ancor più Togliatti, da cui per anni mi sentii distaccato, ma che mi pareva, sin dall’inizio, uno dei più grandi leader politici del comunismo del mondo (in fondo la più grande fortuna del PCI, anche se certo non era sbucato come un fungo). L’humus comunista, quando nel 1971 compresi che “il Sessantotto” stava fallendo, e che per molto tempo un’alternativa democratica di sinistra sarebbe stata l’obiettivo più avanzato possibile, prese ad attrarmi irresistibilmente.[10]

La pensai così, a diversi livelli di approfondimento e con le ovvie giravolte tattiche, per un buon quarto di secolo dal 1962. Ma poi compresi, tramite molti decenni di lotte sociali e politiche, e di riflessioni storiche e filosofiche profonde per altrettanti anni, che i tre punti richiamati da me presi come stelle polari erano stati falsificati, cioè confutati, dalla Storia: la negazione della religione non aveva prodotto nessun paradiso in terra, almeno “en marche”, e per ciò, fondata o meno che essa fosse stata o fosse, era sterile; i conflitti nell’esistenza sociale palesemente non portavano a una società senza classi e senza Stato; e la visione del divenire come una sorta di distruzione o rivoluzione permanente “in fieri” o manifesta, generava o alibi per la repressione dei movimenti dei lavoratori o dittature invece che giustizia e libertà.

Che dedurre dal triplice scacco?

In fondo era stata confutata la nostra logica troppo “estroversa” invece che “introversa”. Si era cercato fuori di noi ciò che può essere solo in noi, e poi venire da noi, dal nostro essere e divenire più interiori, fuori di noi e tra noi. La principale alienazione o fuga dalla realtà più umana era risultata proprio quella dall’interiorità all’esteriorità; dal “Regno di Dio” nei nostri “cuori” all’umano sempre troppo umano “sociale”. Non si poteva forse trovare Dio nei cuori, ma neppure considerare l’interiorità come una scatola vuota invece che come la prima linea nel processo di “disalienazione” di sé.

Tramite la lotta del tutto sociale e politica, o quasi solo tale, il mondo senza sfruttamento né autoritarismo, senza classi e senza Stato – per cui decine di milioni di persone del mondo avevano lottato appassionatamente, moralmente e spesso eroicamente dal 1848 in poi – infatti non era mai arrivato (o era stato una breve apparizione subito travolta dalla storia, dopo l’aurora delle rivoluzioni); e, quel che è peggio, non era per strada, ma semmai si allontanava. E l’uomo – dopo mille rivoluzioni e lotte – restava sempre lo stesso almeno dal Neolitico ai giorni nostri. E la negazione totale dell’esistente collettivo dato, troppo spesso produceva frutti marci (dittature o burocratiche o anche liberticide, e pure riformismi troppo proni allo sputtanamento con il potere “borghese”). Giunsi a tali amare conclusioni a piccoli passi, dal 1971 al 1987, ma poi non le abbandonai più.

La nostra lotta però – nonostante l’erroneità di quei tre punti, che erano stati le mie tre stelle per la navigazione nella Storia, e pure per interpretare la Storia – non era stata inutile perché il mondo del lavoro, tramite le sue e un poco nostre lotte dal 1848 in poi, era diventato meno schiavo e miserabile di generazione in generazione. Inoltre tutti quei “buoni libri”, saggi, articoli, discorsi, dialoghi e pensieri che ruotavano attorno al marxismo mi avevano fatto quantomeno toccare con mano che il mondo dominante era ed è invivibile; che così non si poteva né può andare avanti; che era ed è necessaria una diversa civiltà, libera e solidale (e salubre), senza strapotere padronale come burocratico: una civiltà che però non deriva né dalla svalutazione della vita puramente spirituale (come “oppio dei popoli”), né da un mutamento puramente o primariamente economico sociale, che o non arriva mai, o porta nuove forme di servitù, di tipo neocapitalistico (anche socialdemocratico riformista) o burocratico autoritario, (“comunista”).

Ma se l’alternativa al mondaccio che ci ritroviamo non è puramente o primariamente sociale, la vita nuova o è impossibile oppure ha da nascere prima nei “nostri cuori”, Deve avere a che fare, quantomeno in primo luogo, con istanze che siano presenti – più o meno a priori, cioè in modo archetipico, come latenze – nella nostra mente profonda, già alla prima radice. Fu così – detto in due parole – che intorno al 1979 cominciai a diventare junghiano[11], scoprendo che est deus in nobis. Il deus – compreso il “paradiso perduto” – sta al fondo di ogni essere umano come archetipo. È una sorta di grande speranza di una vita infinita in noi a priori[12]. Si tratta di un bisogno ancestrale, o, come avevano detto i romantici intorno al 1800, di Sehnsucht, o “anelito all’infinito” di tipo antropologico, approssimandoci al quale diventiamo sempre di più quello che nel profondo siamo: cioè ci individuiamo. Ciascuno può trovare in sé l’infinito suo, diventare sé stesso, rinascere a sé stesso: con il che il vecchio Nietzsche, messo in frigorifero intorno al 1962, cacciato dalla porta rientrava dalla finestra, ma con molti pensatori “compagni”. Lo si coglie bene, in me, a partire dalla poesia La sorte, del 1978, da me pubblicata tanti anni dopo in Anima e Mondo. Il poema sulla storia e sui sogni (2018).[13]

Quanto al mutamento dell’essere sociale, pur avendo a che fare ben poco con quello della coscienza (perché l’ànthropos muta a ritmi di decine di migliaia di anni), esso restava e resta fondamentale. Infatti è sì vero, come diceva Myskin ad Aglaia nell’Idiota di Dostoevskij, che “anche nell’oscurità di una prigione si può trovare una vita immensa”[14]; ma è pure vero che una libertà e solidarietà, e pure percezione dell’infinità, di tipo solo personale e interiore, per quanto decisive, e di null’altro bisognose per trasformarci, lasciano l’uomo servo nel vissuto esterno, se mai egli sia costretto a dipendere da altri – padroni o burocrati – per campare; e questo guasta sempre la vita interpersonale, e quindi è da risolvere per dare alla vita interiore libera, solidale e infinita, cui abbiamo accesso in qualunque condizione sociale, anche un completamento necessario nel vissuto inter-soggettivo. Il fondamento del liberarsi è interiore e personale, ma il coronamento, che fa vivere la libertà “di dentro” anche nel mondo “di fuori”, ha da essere sociale, anzi politico-sociale.

Da un certo punto in poi questo nuovo approccio ha molto segnato, prima in modo parallelo, e poi in modo sempre più intenso, la mia ricerca, in parecchi miei libri quali: Psiche e storia. Junghismo e mondo contemporaneo (1991); Il mito della nuova terra. Cultura, idee e problemi dell’ambientalismo (2000); Coscienza e politica nella storia. Le motivazioni dell’azione collettiva ne pensiero politico contemporaneo (2003); Politica nell’anima. Etica, politica, psicanalisi (2007); Sentieri di rivoluzione. Politica e psicologia dei movimenti rivoluzionari dal XIX al XXI secolo (2010); L’avventura di Jung. Romanzo verità (2012); Kali Yuga. Il crepuscolo del nostro mondo (romanzo distopico, del 2014); Anima e Mondo. Il poema sulla storia e sui sogni (2018); L’Ombra che uccide. Romanzo psicologico analitico (2020); Il Rosso e il Verde (2021), di cui ho detto nella prima parte di questo piccolo saggio[15]. Non parlo qui di tanti miei saggi e articoli in proposito.

Il lettore, a questo punto, noterà da un lato la centralità della dimensione psichica nell’evoluzione del mio pensiero; dall’altro il suo esplodere in più direzioni, anche di tipo letterario, come in L’avventura di Jung, Kali Yuga, Anima e Mondo e L’Ombra che uccide (e infine in Psiche e eternità, “poema” ora alla prima tra tre “cantiche”).

In questi cinque libri la dimensione letteraria fa la parte del leone (e in quello che vengo presentando molto di più). Potevo e posso esprimermi ormai a tutto campo, in modo alternativamente o congiuntamente “oggettivo” e “ultrasoggettivo”, mentre l’approccio scientifico, o preteso tale, detto anche accademico, deve sempre porre la soggettività tra parentesi, come se non esistesse o fosse ibernabile perché non alteri il rigore “impersonale” della ricerca. Come studioso ho sempre cercato di seguire questa norma minima del rigore analitico, trattenendo l’anima per le ali (per la verità sempre a fatica). E “inter academicos” ancora lo faccio, di tanto in tanto. Ma in linea generale da tanto tempo ho compreso che il pensatore e lo scrittore e poeta – tutti e tre – hanno delle ragioni che nessuno studioso “oggettivo”, o impersonale, ha mai potuto o potrà mai comprendere od accettare. Secondo me non far giocare la soggettività nel filosofare significa non essere uomini “autentici”; significa separare funzioni che in noi sono inseparabili, come il sentire, percepire, avere sentimenti e passioni, e non solo fare ragionamenti “oggettivi”. Le dimensioni non oggettivabili – sensazioni, sentimenti, passioni, sogni, e quant’altro – si possono rimuovere, ma non spegnere: ove si ricerchi non già il modo di fabbricare edifici che non crollino, o farmaci dosati a dovere, ma il significato, il fine e pure la via per realizzare il significato e fine della nostra vita (ossia ove si cerchi di filosofare, e di vivere filosofando, cioè nella pienezza della nostra umanità, che vive a suo modo in ciascuno di noi; e vale pure nella sfera morale e politica, oltre che estetica o “religiosa”). E se a taluno questo modo di procedere non dovesse piacere, a me non interessa assolutamente niente. Non legga e stia sereno. Per me il pensare che libera deve coinvolgere tutto l’essere; deve essere insieme eros, pathos e logos. Io comunque sono così, specie da quando ho potuto, nell’accademia, non tenere tanto conto dell’accademia, o, più oltre, andato “a riposo”, non tenerne nessun conto. La mia analisi è rigorosa, spero, ma non separo più eros, pathos e logos. Piaccia o non piaccia a lorsignori.

Sono dunque pervenuto da un lato a cercare di nuovo nella soggettività, mia e altrui – come da giovanissimo – l’origine di quel che in me, in noi e nella nostra vita, vada o non vada; dall’altro a correlare la soggettività, mia e altrui, ai grandi problemi esistenziali e sociali da risolvere. In ciò, e forse solo in ciò, sto con Kierkegaard e Nietzsche, e non solo. Per me in certo modo è “l’oggettività” a dover “eccedere” la soggettività: una soggettività che ha pure bisogno di ratio, studio e argomenti forti per andare avanti, ma come longa manus di ciò che più intimamente è “lei” e “in lei” (in me, ma pure in noi; anzi, il “me” che interessa e “mi” interessa, è sempre un “tutti noi”, seppure compreso me).

Ma se puntiamo la barra sulla nostra soggettività, l’istanza dell’infinità si coglie alla nostra prima radice. Si manifesta già in Jung, come archetipo di tutti gli archetipi: Dio nell’Io e Io in Dio: archetipo di tutti gli archetipi da Jung detto Sé, “vero dio e vero uomo” in ciascuno di noi. Era già stato detto dall’idealismo romantico hegeliano (parlando di “Spirito assoluto” immanente in noi), sia pure con un eccesso di oscurità. Inoltre Jung attesta ciò su un piano che se non era tanto scientifico quanto egli avrebbe voluto, era certo segnato da innumerevoli analisi psicologiche profondamente persuasive, oltre a tutto a partire dal più profondo inconscio.

Perciò la religiosità a quel punto in me è balzata in primo piano. Intorno al 1989 l’ho fatta sempre più uscire dalla cantina in cui l’avevo relegata sin dal 1962 in nome del socialismo e poi comunismo marxista. Non l’avevo mai del tutto negata, nonostante la mia lotta giovanile, nietzscheana e poi marxista, contro il “mondo borghese-cristiano”: lotta in nome della quale si poteva pure proclamare la “morte di Dio” (Nietzsche) e la religione come “oppio dei popoli” (Marx); infatti avevo sempre saputo che “sotto” c’era un grande mistero ontologico (ad esempio nel pensiero della morte, ma pure nel mistero del grande amore), a dispetto delle più totali negazioni, come Myskin aveva detto a Rogozin, nell’Idiota, in un grande dialogo sulla “fede”[16].

Nel mio primo articolo “filosofico”, del 1963, Ateismo etico storico e problema dei cattolici, citavo con assenso la risposta data dal grande regista Luis Buñuel, a chi gli chiedeva se credesse in Dio: “Grazie a Dio sono sempre stato ateo”. Sull’Essere o Non-Essere dell’Essere ero un dubitante, oscillante tra fede e negazione della fede. Non ritenevo che il pendolo, nella psiche, si potesse arrestare, ad esempio con l’agnosticismo. Oscillando tra i due facevo lì la scelta, pretesa etica, della non-fede, dell’ateismo “umanistico”: soprattutto perché allora la fratellanza cristiana mi sembrava la negazione di un antagonismo cui molto credevo, “classe contro classe”.[17]

Così la religiosità, però di tipo immanente – l’infinito nella psiche e nella natura, e però pure la psiche e la natura nell’infinito, in Dio – uscì dallo stanzino segreto in cui dal 1962 come uomo engagé l’avevo relegata come una mia istanza insopprimibile, ma tutta mia e solo mia, e passò nel mio studio, in tinello, in tutta la casa, e poi dappertutto. Infatti questa infinità interiore, diversa in ciascuno ma presente in tutti, risultò essere anche – per come presi a pensarla – il vero presupposto per una vita libera, solidale e naturale.

Su ciò già il cristianesimo ha detto molto: sia se prendiamo alla lettera, come io credo si debba fare, il Padre “nostro” (est Deus in nobis, e noi “lo siamo” proprio come essere, né più né meno di Gesù Cristo, ed è questo ad affratellarci); sia il “voi siete dèi” del salmo citato da Gesù in Giovanni; sia il cosiddetto “grande comandamento” che connette amor di Dio e del prossimo; sia il fatto che “Il regno di Dio” è nei nostri “cuori” e non “qua o là”.[18] Ma certo un indirizzo che vede lo spirito nel corpo e il corpo nello spirito porta lontano, sino alla visione cosmoteandrica di Panikkar o alle meditazioni recenti, ecologico-teologiche e neo-francescane di Leonardo Boff sullo Spirito Santo come la persona più importante nella Trinità di Dio, e pure a importanti encicliche di papa Francesco[19]. Ma io non mi spingo a tanto, sino a Teilhard de Chardin o Boff, perché non mi considero “teista”, bensì “panenteista”: “tutto è in Dio”, ma anche Dio è nel Tutto[20]. Forse però Panikkar concorderebbe. In certo modo Tutto è Uno, Tutti sono Uno, come diceva il liberalsocialista mazziniano e gandhiano Aldo Capitini[21]. E chi fa il male nega il suo profondo Essere, si autonega, e mal ne deriva, ma pure gliene deriva.

In sostanza io mi colloco, nel mio piccolo, in un punto esattamente a mezza strada tra panteismo e teismo. Come Fritjof Capra, pensatore che amo e su cui ho scritto, considero Dio non come il creatore dell’universo, ma come la sua mente interna[22]. In certo modo l’universo è il dio visibile e dio è la mente invisibile dell’universo, di cui in noi possiamo cogliere come minimo l’archetipo (in Jung il Sé). Oggi la pensa così pure l’inventore dei microprocessori, il fisico Federico Faggin, che ritiene la coscienza “irriducibile” ad altro[23].

Con ciò però sto anticipando la fine del discorso che volevo fare su “Psiche e eternità”. Ormai del tutto libero, e deciso a pensare quel che mi pare e come mi pare, quanto più sinceramente e profondamente mi sia possibile; e cosciente di essere ottuagenario, e quindi di essere precipitato nel tempo dell’“Ora o mai più”, ad un certo punto sono stato preso dal bisogno, quasi ossessivo, di prendere per le corna la questione religiosa, che per me è pure morale, una volta per tutte. Mi è venuta l’ispirazione, in me non nuova (sol che si pensi al mio libro Anima e Mondo), a scrivere sulla mente infinita – che mi pare la base di tutto e di tutti, ma IN tutto e IN tutti – un poema, un testo fatto come mi detta il cuore unito al cervello (e viceversa), senza freni inibitori: un’opera filosofica che esprima il mio spirito del profondo: meditata e intima; mediata e immediata, che suoni tutti gli strumenti e toni, appunto con cuore e cervello “uniti nella lotta”.

Così ho abbozzato una trilogia (che nell’insieme s’intitolerà Psiche e eternità), di cui ora è uscito il primo volume: Psiche e eternità. Alla ricerca del dio perduto. Ma gli altri due – Nietzsche dopo la follia. Romanzo dionisiaco e Il dio nella vita. Lo svelamento dell’Essere nel tempo della “morte di Dio” – usciranno con cadenza annuale, e ho già dato disposizioni perché escano anche se io dovessi morire (a ottant’anni non è da escludere mai, anche “più del solito”). Sono tre volumi di una sola opera poematica, diversi per stile, ma con un percorso predefinito.

Il primo volume or ora edito, Psiche e eternità. Alla ricerca del dio perduto, è un libro psicologico-filosofico, che però, dopo un Prologo discorsivo, è tutto in prosa poetica, anche se di tanto in tanto il ritmo prosastico poetico mio malgrado si spezza in prosa discorsiva; ma l’insieme è in prosa poetica, qual sia il suo valore. Per tal via ho provato a non separare ciò che in me è emozionale e ciò che in me è razionale: l’eros, il pathos e il logos. Ho voluto parlare dei massimi problemi come miei problemi intimi, ma di uno la cui stessa riflessione intima è piena di riflessioni che concernono tutti, con tutti i rimandi del caso.

Volendo mantenere tale approccio mi sono triplicato, come se in me stesso fossimo tre in uno e uno in tre (perché è così). L’esplicita triplicazione è facile, espressa in tre tipi, o volti, pure miei: Religiosus, Atheus e Psychicus. Infatti il mio pendolo oscilla tra il dare a taluni problemi una risposta religiosa (Religiosus), oppure francamente ateistica (Atheus), o di congiunzione tra i due momenti su un piano psicologico, in cui fede e negazione della fede possano convivere come momenti opposti, ma complementari, della mia mente (Psychicus). I quesiti sono tre, e i tre-uno si pronunciano in materia l’uno dopo l’altro: “Dio vivo o morto?”, “La morte oltre la morte” e “Il male oltre il male”.

Dio è vivo, vita da vita, eterno presente (Religiosus). Dio è morto e non vederlo è una vile fuga dalla realtà (Atheus). Dio è un archetipo presente nella nostra mente, e che perciò potrebbe esistere pure fuori di essa, ma che in essa è reale (Psychicus).

La morte non esiste perché ogni vivente è nell’eterno, è eterno nell’eterno (Religiosus). L’esistente è contingente e perciò la morte è la fine di tutto (Atheus). Per l’inconscio la morte non esiste affatto e ci sono molti indizi di una vita continua, prima di noi e dopo (Psychicus).

Il male è frutto di distacco dall’essere che ci comprende, perdita del senso di coappartenenza all’essere da parte degli esseri in esso inclusi (Religiosus). Il male non esiste nella natura, in sé al di là del bene e del male. Bene e Male sono solo giudizi costruiti di volta in volta dall’uomo (Atheus). Noi abbiamo una natura al tempo stesso infinita e finita già nella psiche, per cui viviamo naturalmente tra il bene e il male (Psychicus).

Si capisce che i tre sono “uguali”, ma tra i tre “uguali” uno è per me “più uguale degli altri”: è Psychicus, che infatti su tutti e tre i quesiti parla per terzo, studiandosi di comporre in se stesso i contrari. Ma alla fine della fiera anche Psychicus risolve i contrari in modo che non conclude, perché un vero solo come convinzione soggettiva (psichico) potrebbe pure essere falso. Allora “Religiosus” alla fine, in dialogo diretto con gli altri due, si propone di tornare all’approccio filosofico, naturalmente sempre in modo ultrasoggettivo, e sempre “sulla fede e non fede”: tornando a interrogare “l’uomo del punto di partenza”, il tragico filosofo della morte di Dio.

Che cosa avrebbe potuto dirci Nietzsche, seguitando a filosofare a partire dal punto filosofico cui era arrivato del gennaio 1889 quando impazzì a Torino, se “un dio” l’avesse svegliato dalla sua follia e sotto sotto avesse saputo quel che è capitato dopo? E questo sarà, in forma di romanzo d’idee, e di dialogo, il tema del secondo volume della Trilogia: Nietzsche dopo la follia. Romanzo dionisiaco.

Ma Nietzsche, per quanto spinto al limite ha da essere nietzscheano, mentre io sono “livorsiano”. Così il dialogo del “dio” con Nietzsche si sposta direttamente a quello con me nel terzo volume, Il dio nella vita. Lo svelamento dell’Essere dopo la “morte di Dio”. Qui l’anima deve cantare filosoficamente, mettendosi pure a nudo in termini di autobiografia interiore, ma per parlare poi a tutti e per tutti. E chi sa qualcosa dei presocratici non potrà stupirsi vedendo che tutto questo terzo volume è in versi.

Ma qui faccio “punto”.

  1. Matteo 22: 37-40.
  2. Marco 3: 21.
  3. I fioretti di San Francesco, A cura di G. Davico Bonino, Einaudi, Torino, 1964.L’opera fu in gran parte scritta dal frate francescano Ugolino da Monte Santa Maria, morto intorno al 1350. Il libro fu scritto tra il 1370 e il 1385 (pp. IX-X). Per il riferimento vedi il capitoletto VIII, incentrato sul dialogo tra il “santo Francesco” e frate Leone, alle pagg. 25-27.
  4. Il mio punto di partenza, in tempi in cui Nietzsche era ancora considerato un filosofo “maledetto”, fu un grosso volume che acquistai negli ultimi giorni del 1957, e che ancora posseggo: F. Nietzsche, “Il meglio”, introdotto e curato da Liliana Scalero, uscito da Longanesi nel 1957, e che comprendeva in forma integrale La nascita della tragedia dallo spirito della musica (1872); Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno (1883/1885); Ditirambi di Dioniso; Ecce homo. Come si diventa quello che si è (1888, ma 1905). Lo stesso Zarathustra fu poi ripubblicato, a sé, dallo stesso editore nel 1979. Quel libro per quattro anni divenne la mia Bibbia, e Nietzsche rimase per me un autore molto amato anche quando – diventato, nel 1962, socialista e marxista – lo ibernai. Non sono un germanista, ma credo di aver letto e meditato tutte le sue opere, edite e inedite, nel corso degli anni. Già nel 1961 avevo letto non solo i quattro testi compresi nel “Meglio” citato, ma tutte le principali opere, allora introvabili in libreria, edite negli anni Venti e Trenta del Novecento dagli editori Bocca e Monanni, che trovavo nelle bancarelle di via Po a Torino. In seguito credo di aver letto tutte le opere di Nietzsche nella grande edizione Adelphi diretta internazionalmente da G. Colli e F. Masini.Il riferimento alla pietà che non sia crocifissione e all’antimito dell’ultimo uomo, e al mito filosofico dell’oltreuomo (tradizionalmente detto “superuomo”) sono nell’edizione dello Zarathustra del 1979 alle pagg. 38-43.Ma si vedano pure: H. Marcuse, L’uomo a una dimensione (1964), Einaudi, Torino, 1967; F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), rizzoli, Milano, 1992; Z. Bauman, La modernità liquida (1999), Laterza, Roma-Bari, 2015.
  5. Karl Löwith Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX (1949), Einaudi, Torino, 1949 e 1964. Tra l’inverno 1960 e l’estate 1961, interrotto il mio Liceo Classico quasi alla Maturità (in Seconda Liceo), feci praticantato come giornalista alla “Gazzetta Padana” di Ferrara, città in cui allora presi in prestito e lessi molti libri, tra cui questo per me importantissimo, alla Biblioteca Estense.
  6. Per il testo di Marx sulla religione “oppio dei popoli”, si veda: K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico. Introduzione (1844), in: “Annali franco-tedeschi”, a cura di G. M. Bravo, Edizioni del Gallo, Milano, 1965, pp. 125-142. Il tema del comunismo svolto col significato cui qui ho accennato è in: K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, in: “Opere filosofiche giovanili”, a cura di G. Della Volpe, Editori Riuniti, Roma, 1963, pp. 143-278. Vi sono specifici capitoli sul “comunismo” così intesi. Il tema è ripreso e approfondito pure in: K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca, Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti (1845-1846, ma 1932), ivi, 1958, specie in riferimento al comunismo come società in cui è superata la “divisione del lavoro”. Oggi è di moda, tra i “marxisti”, considerare il comunismo così inteso come la nobile utopia di Marx, ma Marx vi credette totalmente, e sino al 1919 pure Lenin e Rosa Luxemburg. Dopo una fase “mossa” lì si sarebbe “necessariamente” dovuto andare a parare. Egli pensava che la rivoluzione proletaria mondiale avrebbe segnato un nuovo inizio, più o meno come la rivoluzione agricola nel neolitico, dando vita via via, ma in tale direzione dall’inizio, ad una società in cui i beni avrebbero smesso di essere merci al mercato, fosse o non fosse esso regolato dallo Stato (uno Stato che avrebbe dovuto ben presto “estinguersi” nella società civile, come ente artificiale che ha sempre protetto i padroni dell’economia dall’inizio della Storia).
  7. Il punto in cui Marx insiste sul carattere derivato della coscienza dall’essere sociale è svolto nelle Tesi su Feuerbach del 1845 (in appendice a: F. Engels, Ludico Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, del 1886, Edizioni Rinascita, 1950), compare ed è svolto ampiamente nell’Ideologia tedesca (di Marx e Engels) del 1846, ma 1930 (a cura di F. Codino, Editori Riuniti, Roma, 1958), ed è spiegato con maturo approccio sociologico nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica del 1859 (ivi, 1959).
  8. K. Marx, Poscritto del 1873, in: Il Capitale. Critica dell’economia politica, I (1867 e poi 1873), tr. di D. Cantimori e Prefazione di M. Dobb, Editori Riuniti, Roma, 1972, pp. 37-45, ma soprattutto p. 45.
  9. V. Foa, Sindacati e lotte operaie. 1943/1973, Loescher, Torino, 1975 (notevole antologia da lui curata sull’argomento); Per una storia del movimento operaio, Einaudi, Torino, 1980 (importanti saggi); Il Cavallo e la Torre. Riflessioni di una vita, Einaudi, 1991 (che considero uno dei grandi libri memorialistico-teorici del Novecento). Foa scrisse pure l’articolo di fondo della rivista semestrale “Quaderni rossi”, uscita dal 1961 al 1966 per sei numeri diretta da Raniero Panzieri (e che nel n. 5 del 1965 contiene un importante contributo di Pino Ferraris, poi segretario del PSIUP di Torino e tra i protagonisti del Sessantotto). Di R. Panzieri sono da vedere almeno: Spontaneità e organizzazione: gli anni dei Quaderni rossi, 1959-1964, a cura di S. Merli, BFS Edizioni, Pisa, 1994. Mario Tronti, già tra i maggiori teorici dei QR, fondò e diresse il mensile “Classe operaia” dal 1964 al 1966. Il suo libro più importante è: Operai e capitale, Einaudi, 1966 e infine 1971; ma di lui è da vedere pure: Il demone della politica. Antologia di scritti (1958/2015), Il Mulino, Bologna, 2018. La produzione di Antonio Negri – che al pari di Tronti è in primo luogo un filosofo politico – è sterminata, e però sempre interessante, anche se il confine tra comunismo e anarchismo nel suo pensiero è sottile; e, inoltre, ha una fortissima vocazione all’”attivismo” anche eversivo, che probabilmente è il vero tallone d’Achille del suo pensiero. Per la comprensione dell’operaismo marxista trovo molto interessante, di Toni Negri: Dall’operaio massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo, a cura di P. Pozzi e R. Tommasini, Multhipla, Milano, 1989; e dello stesso A. Negri con M. Hardt, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, cit.; sempre con Hardt, Assemblea, Ponte alle Grazie, Milano, 2018. Ma si veda pure la fluviale autobiografia Storia di un comunista, in tre densi volumi, sempre a cura di G. De Michele, presso lo stesso editore, tra 2015 e 2020. Ho sempre dato molta importanza a tale corrente marxista operaista perché mi è parsa e pare, sebbene io ne abbia respinto l’estremismo (e infatti mi riconoscevo in Foa), la sola alternativa alla socialdemocrazia riformista o ultrariformista da un lato e leninista-stalinista dall’altro.
  10. Naturalmente, in base a quanto qui detto nella nota precedente, quello che mi interessò di più fu il Gramsci del settimanale “L’Ordine Nuovo” di Torino, che voleva essere espressione del movimento dei consigli di fabbrica, nel 1919-1920, in particolare: A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1920, Einaudi, 1954 e poi 1987. Ma sempre decisivo è: Quaderni del carcere (1929/1935), prima pubblicato negli anni Cinquanta in volumi tematici a cura di Togliatti e poi nell’edizione critica del 1975 già cit. Di P. Togliatti si veda: “Opere scelte”, Editori Riuniti, 1974.
  11. Proprio nel 1979 lessi e meditai, anche con molti appunti, il grande volume XI delle “Opere” di C. G. Jung “Psicologia e religione”, In precedenza, sin dal 1970, avevo letto la notevole raccolta di scritti scelti da e di Jung “Realtà dell’anima”, ivi, 1969. In seguito avrei letto tutte le opere.
  12. Questo motivo della speranza redentiva come un tratto forte dell’uomo è presente soprattutto nel filosofo marxista “religioso” Ernst Bloch, specie in: Il principio speranza (1942/1962), Mimesis, Milano, 2019; Ateismo nel cristianesimo (1968), a cura di F. Coppellotti, Feltrinelli, Milano, 2008. Il filosofo considerava Jung un reazionario, ma questo non ha alcuna importanza da un punto di vista teorico. Le assonanze teoriche, al di là della politica, sembrano evidenti.
  13. Golem Edizioni, Torino, 2018.
  14. 9 F. Dostoevskij, L’idiota (1869), tr. E cura di G. Pacini, Feltrinelli, Milano, 1998, pp.
  15. F. Livorsi, Psiche e storia. Junghismo e mondo contemporaneo, Vallecchi, Firenze, 1991; Il mito della nuova terra. Cultura, idee e problemi dell’ambientalismo, Giuffrè, Milano, 2000; Coscienza e politica nella storia. Le motivazioni dell’azione collettiva ne pensiero politico contemporaneo, Giappichelli, Torino, 2003); Politica nell’anima. Etica, politica, psicanalisi, Moretti & Vitali, Bergamo, 2007; Sentieri di rivoluzione. Politica e psicologia dei movimenti rivoluzionari dal XIX al XXI secolo, ivi, 2010; L’avventura di Jung. Romanzo verità, Falsopiano, Alessandria, 2012; Kali Yuga. Il crepuscolo del nostro mondo, Moretti & Vitali, 2014 (romanzo distopico); Anima e Mondo. Il poema sulla storia e sui sogni, Golem, Torino, 2018; L’Ombra che uccide. Romanzo psicologico analitico, Moretti & Vitali, 2020; Il Rosso e il Verde. L’idea della liberazione sociale, ecologica e spirituale dal XIX al XXI secolo, Golem, 2021.
  16. F. Dostoevskij, L’idiota, cit., pp.
  17. Questo articolo comparve sull’importante rivista mensile del cattolicesimo del dissenso “Il gallo”, a. XVII, n. 12, dicembre 1963, pp. 13-16. Per la verità fu pubblicata solo la prima parte. Tutto il testo è nel mio Archivio. L’articolo mi era stato chiesto da un intellettuale cattolico dal grande cuore e dalla mente straordinariamente libera e aperta, Pietro Lazagna.
  18. Per il Padre Nostro: Luca 11:2-4; Matteo 6: 9-13. Per il tema “voi siete dèi”, Giov. 10:34; per il Regno di Dio nei cuori: Luca 13: 18-21.
  19. R. Panikkar, La realtà cosmoteandrica. Dio – Uomo – Mondo, Jaca Book, Milano, 2014; L. Boff, Soffia dove vuole. Lo Spirito Santo dal Big Bang alla liberazione degli oppressi, EMI, Milano, 2019; Papa Francesco (J. M. Bergoglio), Laudato si’, Libreria Vaticana, 2015; Fratelli Tutti, ivi, 2020.
  20. Il termine-concetto di “panenteismo” è stato introdotto dal filosofo neokantiano tedesco F. Krause, già allievo degli idealisti Fichte e Schelling, in opera non tradotta del 1834 sull’Assoluto nella filosofia della religione, proprio con l’intento di conciliare panteismo e teismo, tramite l’idea per cui Dio non è il tutto, ma il tutto è “in Dio”.
  21. A. Capitini, Elementi di un’esperienza religiosa, Laterza, Bari, 1937; Il potere di tutti, a cura di P. Pinna e con Introduzione di N. Bobbio, La Nuova Italia, Firenze, 1969.
  22. F. Capra, Il Tao della fisica (1975), Feltrinelli, Milano, 1982; Il punto di svolta. Scienza, società e cultura emergente (1982), ivi, 1982, che considero la sua opera fondamentale; L’anima di Leonardo. Un genio alla ricerca del segreto della vita, Rizzoli, 2012. Rinvio alle pagine su Fritjof Capra nel mio libro Il mito della nuova terra, cit., pp. 297-318.
  23. F. Faggin, Irriducibile. La coscienza, la vita, i computer e la nostra natura, Mondadori, 2022.

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