Salvini e Meloni radical chic di destra

E’ curioso come Salvini e la Meloni (il Meloni? il melone? attendiamo una nota ufficiale esplicativa di Palazzo Chigi(*)) incarnino alla rovescia il ritratto, da loro stessi tratteggiato, dei loro peggiori nemici: i radical chic (**). In parlamento praticamente da sempre, nella loro lunga pratica politica lautamente stipendiata dai contribuenti non hanno fatto altro che occuparsi quasi esclusivamente di propaganda, di questioni puramente simboliche e identitarie (quello che rimproverano anche giustamente alla sinistra degli ultimi anni): e la Meloni anche più di Salvini, dato che quest’ultimo ha cercato sia pure goffamente di dare una definizione nazionale alla nuova Lega (tanto da attirare l’attenzione e la simpatia della Le Pen che peraltro non gli ha portato buono) e si è dotato di una qualche forma di pensiero economico, una sorta di keynesismo di destra ispirato a Putin e Orban che pretenderebbe di tenere insieme, non si sa concretamente come, il nazionalismo e il ritiro dello stato, la flat tax e il sostegno alle piccole imprese del nord tramite l’autonomia differenziata (la secessione fiscale delle regioni del nord, sostenuta anche da buona parte del PD a partire dal segretario in pectore Bonaccini). Non ha però dato nessun seguito concreto a queste suggestioni, essendo stata invero la sua principale preoccupazione da ministro dell’interno quella di dare la caccia ai migranti e alle ONG. Se la sinistra (coi suoi rappresentanti attuali) ha dato l’impressione di avere abbandonato la classe operaia per occuparsi quasi esclusivamente di minoranze, i nostri eroi fanno specularmente lo stesso. Dagli all’immigrato e alla ONG è stata di gran lunga l’attività preponderante di Salvini al ministero dell’interno nel governo Conte 1 “gialloverde”. La cosa poi gli ha dato alla testa perché non si è accorto che il consenso per quella politica greve ed eccessiva (quanto ovviamente inumana nei confronti dei più deboli) era dovuto solo in parte alla condivisione da parte degli italiani del pugno di ferro contro gli immigrati sui barconi, ma per altra consistente parte era dovuto al battage mediatico a suo favore di grandi giornali e televisioni che mirava a indebolire, con pieno successo, i Cinque Stelle e Conte. Perché è molto facile convogliare il consenso attraverso le politiche xenofobe, ma è anche un consenso passivo, che scivola in secondo piano non appena la realtà economica e sociale, locale e globale, con i suoi problemi irrisolti e le sue complicazioni, non si riprende violentemente la scena e le battaglie puramente identitarie dei “nostri” non si rivelano per quello che sono: fumo negli occhi e specchietti per le allodole.

Non appena però l’operazione di affondare Conte e i 5S era a prima vista riuscita e si avvicinava la possibilità di portare “l’algido banchiere” Draghi a Palazzo Chigi (stava scadendo il suo mandato alla BCE e dietro le quinte Renzi e Giorgetti già tramavano, liquidando il Conte 1 e immaginando il Conte 2 come transitorio, mentre poi è arrivata la pandemia che ha parzialmente scompaginato i piani ai congiurati e lanciato inaspettatamente la figura di Conte come leader progressista) gli stessi giornaloni dunque lo hanno mollato in mutande al Papeete mentre tentava di spiegare agli italiani, da bravo radical chic di destra, che lo stravaccamento sudaticcio in spiaggia del ministro era un doveroso omaggio alla cultura popolare. Oggi lo stesso Salvini, sempre al governo nell’ennesima configurazione del kamasutra politico che vede infine i post-fascisti prendere il testimone di Palazzo Chigi (era l’ultima combinazione rimasta) si appresta tramite un suo uomo di fiducia, l’ex prefetto Piantedosi, a ripercorrere lo stesso canovaccio, per infastidire Giorgia, senza accorgersi però che ora la prediletta dell’establishment è la Meloni e ora sarà probabilmente riguardato dagli stessi media che lo portarono in trionfo come un importuno disturbatore del nuovo “senso di responsabilità” meloniano.

Il vertice del wokenism destrorso Salvini lo ha però raggiunto nel corso della manifestazione per le elezioni europee del 2019, invitando a maggio la Le Pen a Milano, esibendo in modo inopportuno simboli religiosi come il rosario ed elencando tutta la teoria dei santi protettori dell’Europa, un elenco di figurine di santi che probabilmente nemmeno le più assidue beghine milanesi saprebbero riconoscere. Avevamo già notato per tempo che allearsi con La Pen non è un segnale di particolare acume politico: simbolo vivente di una lunga carriera politica in cui non ha mai combinato assolutamente niente se non preoccuparsi di vivere di rendita con i proventi della manutenzione dell’importante feudo elettorale ereditato dal padre fascista Jean-Marie. Una manifestazione grottesca di strumentalizzazione della devozione religiosa dei più semplici, ancora condivisa da molte persone, che ovviamente ai ceti produttivi del nord, ai padroncini e loro operai, non poteva suscitare alcun tipo di interesse.

Anche se lì per lì la Lega alle europee fece il boom, arrivando al 34%, da lì a poco nell’agosto successivo sarebbe cominciato il declino della fortuna di Salvini, travolto dal delirio egomaniaco e dall’eccesso di ideologia spicciola “sovranista” (ovvero una pura suggestione, senza nessuna concreta dottrina politica a sostegno) del tutto inconcludente quando non dannosa.

Molto più furbina e coperta la Meloni da presidente del consiglio: ma il suo temperamento aggressivo e ideologico traspare già dai primi dibattiti parlamentari e dai primi atti. Dimostrando di non essere mai uscita da quella bolla spazio-temporale da parrocchietta missina degli anni ‘70, tutta presa da questioni identitarie tra fughe dalla realtà con gli Hobbit e Atreju (l’idea era quella di mascherare l’aggancio al pensiero tradizionalista di Evola dentro la letteratura fantastica: stendiamo un velo pietoso) tentando poi di agganciarsi alla nuova (e vera) internazionale reazionaria di Orban e Trump, ma senza avere veramente la stoffa per interpretare il nuovo corso dell’ultra-destra globale, cercando disperatamente la legittimazione dell’establishment economico finanziario (dopo averne detto per anni peste e corna) e rimanendo quindi a galleggiare nella coalizione di centrodestra, da cui avrebbe avuto tutto l’interesse ad affrancarsi anche rimandando di qualche anno l’ascesa a Palazzo Chigi (ma i colonnelli e le lobbies spingevano per arraffare le poltrone più prestigiose) con le solite disastrose ricette economiche berlusconiane tra ammiccamenti all’evasione fiscale togliendo il tetto al contante, la continua disarticolazione dello stato sociale e dell’economia pubblica, l’assalto ai sussidi e il disprezzo per i poveri, i nuovi tagli programmati alla sanità. Del resto quando sei in parlamento da 20 anni e sei competente praticamente solo di questioni identitarie, che al 96% degli italiani non interessano minimamente, non puoi che aggrapparti all’usato sicuro delle ricette economiche berlusconiane e draghiane. Tanto da doversi appoggiare a Giorgetti per il ministero economico più importante perché tutti gli altri, a partire da Tremonti, se le sono data a gambe.

La Meloni sempre preda della bolla spaziotemporale degli anni ‘70, si preoccupa di denunciare gli eccessi dell’antifascismo militante (degli anni ‘70). Facendola di nuovo fuori dal vaso, perché chi non ha le carte in regola e non ha fatto interamente i conti con la storia del fascismo e della strategia della tensione (non basta prendere genericamente le distanze da tutti i regimi fa notare Barbacetto) non può certo mettersi a fare le pulci ai limiti di certo antifascismo militante. La critica dell’antifascismo è cosa seria e concessa solo ai veri antifascisti, si astenga chi come la Meloni (e il grottesco troll eletto alla presidenza del Senato che colleziona i gagliardetti del Duce) ha ancora parecchie pendenze con la storia da sistemare.

Naturalmente va riconosciuto che la destra oggi al governo ha saputo individuare temi e preoccupazioni reali nella popolazione italiana, come la paura per l’insicurezza, la denatalità e il rischio del declino demografico incombente. Peccato però che le ricette proposte da questa destra siano totalmente risibili, all’insegna della fuga dalla realtà e della più bieca spocchia “identitaria”: 1) guerra ai sussidi pubblici per i più poveri (che per il 40% sono lavoratori poveri a cui vorrebbero togliere ogni forma di sostegno al reddito per raggranellare qualche spicciolo per far quadrare i conti della finanziaria); 2) cancellazione delle politiche industriali pubbliche rifacendosi soltanto a “imprese e made in Italy” (ne ho già parlato qui); 3) rilancio delle tematiche xenofobe come se non avessimo urgente bisogno oltre che di incrementare, giustamente, la natalità degli autoctoni che vorrebbero avere figli e non possono, a causa delle condizioni economiche precarie (ma però gli vogliono togliere i sussidi pensa te!), anche della fondamentale quotaparte di immigrati che vengono a cercare fortuna da noi e che vanno non respinti ma accolti e integrati con l’adeguata organizzazione sociale e amministrativa. Molto WOKE! questa Meloni. E per il resto allineata per insipienza (dopo 20 anni in parlamento e 30 di politica!) alle peggiori ricette economiche berlusconiane.

Ma è chiaro invece che il cerchio ristretto del ceto politico nostrano, una lunga teoria di impresentabili che ci costano uno sproposito, che non vogliono cambiare la legge elettorale per continuare ad auto-eleggersi senza rappresentare nessuno, esponenti dell’italietta più provinciale di sempre, fatto di mogli, di cognati, di attendenti di campo e di amici quando non di paggi e di famigli, attualmente, pare tenere molto a questi irrilevanti posizionamenti identitari, con discussioni infinite sui social, il che la dice lunga sulla loro incompetenza e sulla distanza siderale dalla realtà (come nota anche Giovanni De Luna su La Stampa del 22 novembre). Impressione confermata drammaticamente dai risultati elettorali del 25 settembre che hanno visto complessivamente il 39% degli italiani disertare il voto o annullare la scheda, 18 milioni di persone che sono largamente il primo partito, manifestando una totale sfiducia nell’attuale sistema politico. Cionondimeno la presidente Meloni (il presidente Giorgio Melone?), l’arrogantina di Palazzo Chigi, vanta temerariamente una piena investitura politica da parte del popolo italiano, che ogni volta pare convocare al suo fianco senza chiedere il permesso, che evidentemente però non ha. Ma naturalmente lorsignori, pur legittimamente eletti e governanti, non sono interessati a volare un po’ più basso e a recuperare gradualmente, umilmente un contatto con la realtà del paese, anzi fremono dalla brama incontenibile di scaricare sugli italiani le loro miserabili ubbie “identitarie” che nascondono evidentemente diffusi atteggiamenti parassitari, mediocri e rabbiose ansie di affermazione sociale attraverso le facili scorciatoie di un consenso fasullo, artefatto, a discapito degli altri e del bene comune.

Filippo Boatti

23 novembre 2022

(*) che comunque ha già, in modo magnanimo e liberale, rassicurato che siamo liberi di mantenere e manifestare le nostre opinioni, rendiamo grazie anzi baciamo le mani;

(**) la definizione di radical chic fu coniata dal giornalista Tom Wolfe in un celebre reportage del 1970 per il New York Magazine: https://it.wikipedia.org/wiki/Radical_chic

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