Scuola di classe e società industriale in Gramsci. Note.

1.- Ciò che non consente ancora alla pedagogia di fondarsi come scienza, vale a dire di essere in grado di giungere ad enunciati generalmente validi mediante l’esame analitico di problemi e oggetti investigati “materialisticamente”, è l’ancora pesante retaggio, tutto idealistico, che vuole quale suo oggetto specifico di indagine una generica e indefinibile “persona umana” sganciata dalla storia e dalla società, perennemente uguale a se stessa e dotata di eterne qualità naturali. E’ così che la ricerca del principio pedagogico, da tensione intellettiva e specifico modo di penetrazione razionale dei fatti umani, viene ridotta a mistica rammemorazione di peculiarità “innate”, a processo di evidenziazione di una natura al di fuori dell’uomo storico. In questa visione la scienza non serve e l’involgimento filosofico si accosta presto alla metafisica per poi cadere definitivamente nella “mistica”.

2.- Per Antonio Gramsci una fondazione scientifica della pedagogia è possibile invece solo partendo da una concezione storico-sociale dell’uomo e liberandosi da ogni apriorismo e finalismo metafisico. L’uomo è il portato della storia, è un “prodotto” storico; egli è il produttore di se stesso, della sua persona come della sua natura, e ogni suo atto autocreativo è lotta e superamento del precedente livello di umanità. <<L’uomo è tutta una formazione storica…: che altrimenti si cadrebbe in una forma di trascendenza o di immanenza>>(Lettere dal carcere), il risultato di <<una continua lotta contro l’elemento ‘animalità’…, un processo ininterrotto, spesso doloroso e sanguinoso di soggiogamento degli istinti (naturali, cioè animaleschi e primitivi) a sempre nuove, più complesse e rigide norme e abitudini di ordine, di esattezza, di precisione, che rendono possibili le forme sempre più complesse di vita collettiva>>(Quaderno 22). Capire l’uomo, pertanto, vuol dire capire il livello storico della sua esistenza, e ogni proposito di stabilire rapporti umani più autentici non può prescindere dall’analisi puntuale, dettagliata, scientifica appunto, di quelle <<forme di vita collettiva>> che non sono altro, poi, che la società intesa come insieme di rapporti storico-materiali espressi da un determinato sviluppo delle forze produttive. Anche nel fare pedagogia, quindi, bisogna <<riferirsi ai rapporti tecnici di produzione, a un determinato modo di vivere, determinate regole di condotta, un certo costume>>(Quaderno 16). Come ha ben sintetizzato in un suo vecchio libro(Antonio Gramsci e l’educazione come egemonia) A. Broccoli, il problema pedagogico o diventa <<il problema di una intera struttura sociale, in tutta la gamma più o meno vasta delle sue articolazioni>> oppure è <<sterile esercitazione di esperti, edotti in questa o in quella tecnica, ma incapaci di promuovere l’effettivo sviluppo delle masse come degli individui>>.

3.- Se è così, appare evidente come ogni nuova proposta educativa debba partire dai problemi che pone il livello di civiltà cui si è giunti, che nel nostro caso definiamo <<civiltà industriale>>( da qui l’importanza che hanno le note rubricate da Gramsci col titolo Americanismo e fordismo per la delineazione del nuovo principio educativo). L’industrialismo ha messo in crisi in maniera irreversibile il vecchio principio umanistico. La scuola tradizionale –‘formativa’ e non professionale, ‘disinteressata’ e non legata alle funzioni produttive immediate, di élite e non di massa, che rifletteva una società prevalentemente agricola, a base contadina e artigiana, con una capacità produttiva ancora limitata e orientata soprattutto verso la produzione di valori d’uso– è stata travolta dalle esigenze dello sviluppo tecnico-produttivo dell’industria moderna. Ne è stato minato anche il principio pedagogico-organizzativo su cui si reggeva e il cui compito esclusivo era quello di preparare una ristretta schiera di individui alle funzioni direttive, di preparare cioè la futura classe dirigente. L’industria ha sostituito la scuola disinteressata con una scuola ‘interessata’, cioè funzionalizzata alle proprie esigenze produttive, ha di molto ampliato la massa studentesca e moltiplicato gli indirizzi scolastici, offrendo così, formalmente, a tutti, già dalla fine del ciclo elementare, ampie possibilità di scelta. C’è però da aggiungere subito che la scelta non poteva essere davvero libera in quanto la condizione sociale obbligava a scegliere un determinato indirizzo scolastico: scuole tecniche e professionali per le classi subordinate e ‘strumentali’, scuole ‘classiche’ e umanistiche per la nuova generazione dei gruppi dirigenti. Sulla natura classista di questa scuola Gramsci si esprime con una nettezza: <<L’aspetto più paradossale –scrive- è che questo nuovo tipo di scuola appare e viene predicata come democratica, mentre invece essa non è solo destinata a perpetuare le differenze sociali, ma a cristallizzarle in forme cinesi…. L’impronta sociale è data dal fatto che ogni gruppo sociale ha un proprio tipo di scuola, destinato a perpetuare in questi strati una determinata funzione tradizionale, direttiva o strumentale… Il moltiplicarsi di tipi di scuola professionale tende dunque a eternare le differenze tradizionali, ma siccome, in queste differenze tende a suscitare stratificazioni interne, ecco che fa nascere l’impressione di una sua tendenza democratica>>(Quaderno 12).

4.- A tale determinismo sociale nella scelta scolastica ha creduto di reagire quella corrente del pensiero pedagogico moderno sostenitrice del cosiddetto <<attivismo>> o <<puerocentrismo>> , cioè di quella pratica educativa che proclama la necessità di lasciar fare alla spontaneità del fanciullo e di limitarsi semplicemente a favorire l’emergere delle sue inclinazioni naturali. Gramsci ha parole severe contro questi principi, specialmente contro la tradizione ginevrina di Rousseau, in quanto essi aggiungono al determinismo sociale dell’organizzazione scolastica il determinismo individuale o psicologico, risultato non di una spontaneità assoluta che non esiste(cfr. Quaderno 3), ma di una adesione acritica ad una concezione del mondo storicamente data che perpetua la discriminazione sociale. Per Gramsci, infatti, rinunciare a formare il fanciullo, a intervenire attivamente sulla sua personalità e sulla sua psicologia <<significa solo permettere che la sua personalità si sviluppi accogliendo caoticamente dall’ambiente generale tutti i motivi di vita>>(Lettere dal carcere), senza tenere conto che ogni individuo già <<da quando incomincia a ‘vedere e a toccare’, forse da pochi giorni dopo la nascita, accumula sensazioni e immagini, che si moltiplicano e diventano complesse con l’apprendimento del linguaggio. La ‘spontaneità, se analizzata, diventa sempre più problematica. Inoltre la ‘scuola’, cioè l’attività educativa dietta, è solo una frazione della vita dell’alunno, che entra in contatto sia con la società umanasia con la societas rerum e si forma criteri da queste fonti ‘extrascolastiche’ molto più importanti di quanto comunemente si creda>>(Quaderno 1). Insomma, lasciar fare alla natura vuol dire solo lasciar fare ad una natura “posta” dalla società esistente e ad essa funzionale e identificantesi col conformismo all’empirico dato. Infatti, è certamente molto più probabile che un ragazzo, nella situazione data, scelga, poniamo, l’indirizzo tecnico o professionale anziché classico o scientifico per ragioni economiche e provenienza sociale che per indefinite e indimostrate inclinazioni. Tutta l’analisi gramsciana porta alla conclusione che il classismo della scuola è la “conseguenza” necessaria dell’organizzazione complessiva della società che la esprime. La scuola diventa il prolungamento “meccanico” della fabbrica, il luogo in cui <<il destino dell’allievo e la sua futura attività sono predeterminati>>(Quaderno 12), con alla base un principio pedagogico che tende a formare passivi esecutori di scelte fatte altrove e da altri: proprio –come voleva Taylor- tanti <<gorilla ammaestrati>>(cfr. Quaderno 22).

5.- Gramsci è irriducibilmente contro tale sistema scolastico e contro le più diffuse teorie pedagogiche che lo ispirano. Una scuola veramente democratica –egli dice- non può essere quella che si frantuma in una miriade di indirizzi, in ognuno dei quali si è incanalati in base ad una rigida selezione sociale; democratica è, invece, quella scuola che offre a tutti le stesse opportunità e consente a tutti di impadronirsi di quella preparazione critica soltanto ottenuta la quale si sarà poi veramente liberi e in grado di scegliere il proprio destino professionale. Come primo intervento per spezzare la trama intessuta dalla scuola ‘borghese’ si dovrà dunque <<non moltiplicare e graduare i tipi di scuola professionale, ma creare un tipo unico di scuola preparatoria (elementare-media) che conduca il giovinetto fino alla soglia della scelta professionale, formandolo nel frattempo come persona capace di pensare, di studiare, di dirigere, o di controllare chi dirige>>; i giovani dovranno essere introdotti nell’attività sociale solo <<dopo averli portati a un certo grado di maturità e capacità, alla creazione intellettuale e pratica e di autonomia nell’orientamento e nell’iniziativa>>(Quaderno 12).Una scuola formativa, va precisato, deve però essere lontana non solo dalla frantumazione in un pulviscolo di interessi professionali ma anche dal vecchio umanesimo retorico e pedante della visione gentiliana. Il nuovo umanesimo sarà l’umanesimo scientifico, da ottenersi mediante una organizzazione e una politica culturale complessiva che parta dalle più nuove e più avanzate prospettive della civiltà industriale e che abbia come punto di riferimento il mondo della produzione e del lavoro(cfr. Quaderno 7). Più esattamente, si tratta di realizzare una scuola unica di cultura generale (e non generica), umanistica e formativa (ma non astratta), che sappia contemperare <<lo sviluppo della capacità di lavorare manualmente (tecnicamente, industrialmente) e lo sviluppo della capacità del lavoro intellettuale>>, in maniera che soltanto in un momento successivo, <<attraverso esperienze ripetute di orientamento professionale, si passerà a una delle scuole specializzate o al lavoro produttivo>> (Quaderno 12). Nessuna nostalgia passatista traspare da questa analisi, ma, semmai, una audace proiezione verso il futuro con la proposta di una organica fusione tra istruzione e lavoro industriale capace di formare il <<nuovo tipo intellettuale>>. Precisa Gramsci:<<Il modo di essere del nuovo intellettuale non può consistere nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente nella vita pratica>>. E ancora:<<Il concetto e il fatto del lavoro(dell’attività teorico-pratica) è il principio educativo immanente>>(Quaderno 12). Da queste espressioni –ricorrenti nelle pagine dei Quaderni– si ha immediatamente il senso delle proporzioni di un progetto che scardina dalle fondamenta l’intero assetto sociale dato.

6.- In verità, con Gramsci e prima di Gramsci altri indirizzi pedagogici avevano affermato il principio dell’unità di istruzione e lavoro (si pensi, per esempio, a Kerschensteiner, o a Dewey, o a Hessen), ma in essi è soltanto un fatto della didattica, limitato e circoscritto alla sfera della sperimentazione nella scuola, o tutt’al più un’esigenza morale, separato cioè da una analisi e da un progetto globali di rinnovamento della società. In Gramsci invece esso è un fatto sociale, è <<l’atto iniziale della creazione di una società nel cui complesso (e non solo nell’istituzione scuola) istruzione e lavoro sono strettamente interconnessi, centri di studio e centri di produzione concrescono assieme>>(M.A. Manacorda). Come si vede, l’orizzonte teorico si allarga enormemente: sotto esame non è soltanto un tipo di scuola, ma tutta una organizzazione sociale fondata sulla separazione storica tra lavoro e creatività, tra dirigenti e diretti. La scuola unica diventa uno strumento necessario del progetto generale di unificazione del genere umano in una organizzazione sociale in cui l’uguaglianza universale al più alto livello storico è anche il segno del massimo potenziamento dell’individualità di ciascuno. L’accusa quindi di “generico democraticismo” da alcuni mossa al progetto educativo di Gramsci è palesemente destituita di ogni fondamento : c’è, invece, lo sforzo di delineare una diversa e più alta concezione del mondo con al centro le più larghe masse di uomini e le future generazioni. E’ un progetto sicuramente ambizioso, difficile, e Gramsci ne è perfettamente consapevole. Si tratta –nientemeno- di demolire la “vigente” visione del mondo – così consolidata e articolata da essere penetrata in tutti i pori della società civile e capace di ottenere una adesione ad essa basata essenzialmente su un “conformismo passivo”- e sostituirla con un’altra basata su un “conformismo attivo”, e dinamico, che nasce dal basso, che è accettato consapevolmente, che è, cioè, fondato sulla consapevolezza di ciascuno che per diventare dirigente e per autodirigersi, per una convivenza umana superiore, è indispensabile elaborare collettivamente e accettare un nuovo ordine sociale, nuove regole di vita. Gramsci si rende conto che il termine conformismo, utilizzato da lui come termine caratterizzante anche la “nuova società, susciti perplessità, ma nella sua accezione non significa altro che socialità e in questo senso esso è <<sempre esistito: si tratta oggi di lotta tra ‘due conformismi’, cioè di una lotta di egemonia, di una crisi della società civile>>(Quaderno 7). Confessa maliziosamente: <<Mi piace impiegare la parola ‘conformismo’, appunto, per urtare gli imbecilli>>(Quaderno 1). Nel campo dell’istruzione spetta alla scuola unitaria farsi banditrice di un nuovo conformismo: il quale consisterà nella estensione dell’attitudine allo studio e alla comprensione critica del reale a tutti quegli strati sociali che ne sono stati sempre privi, addestrandoli a sottostare al duro tirocinio che la conquista della scienza, della cultura, del ragionamento critico richiede. Per Gramsci, infatti, scuola per tutti non significa scuola più facile. Si rende conto che <<la partecipazione di più larghe masse alla scuola media porta con sé la tendenza a rallentare la disciplina dello studio, a domandare ‘facilitazioni’>>, ma esorta a reagire energicamente e a convincersi che <<anche lo studio è un mestiere e molto faticoso…, è un abito acquistato con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza>>(Quaderno 12).

Egidio ZACHEO

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