“Il traditore” di Marco Bellocchio

      – 1. Il recentissimo film di Bellocchio può, per certi aspetti, lasciare sconcertati. Per un regista così abituato a narrare storie di carattere personale, a sfondo esistenziale, psicosociale, o addirittura filosofico, in gran parte intessute intorno alla soggettività dei personaggi, la scelta di un argomento che implica un confronto serrato con la storia recente del nostro Paese, per di più con la questione della mafia e delle oscure trame tra mafia e politica, può essere considerata alquanto azzardata e sorprendente. A parziale correzione di questa impressione, va osservato che Bellocchio non è nuovo ad affrontare, nella sua filmografia, temi di carattere sociale e civile, oppure anche temi di carattere storico. Il fatto è che Bellocchio non è certo divenuto famoso per questo aspetto della sua cinematografia, il quale aspetto ha piuttosto sempre rappresentato un pretesto per mettere in scena quel che decisamente gli risulta più congegnale, cioè, per l’appunto, drammi interiori, questioni esistenziali, questioni di carattere filosofico e psicoanalitico.

      – 2. Ma veniamo al Traditore. Il film è senz’altro fedele, per lo meno a grandi linee, allo sfondo storico, sociale e cronachistico che Bellocchio ha scelto di trattare. La ricostruzione tuttavia soffre non poco per l’omissione di taluni aspetti della carriera criminale del mafioso pentito “don Masino” Buscetta, elementi che forse avrebbero troppo nociuto alla costruzione del personaggio cinematografico. Del resto il film non pretende di essere opera storiografica, cosa che si evince anche dalla narrazione che è costantemente giocata attraverso un montaggio non del tutto lineare, capace di svolazzare agevolmente avanti e indietro, per aggiunte, precisazioni, chiarimenti. La cadenza del montaggio degli eventi si adegua costantemente alle tappe della memoria personale e privata del protagonista che, poco a poco, si riallaccia progressivamente alla cronaca pubblica, per lo più già nota alla memoria dello spettatore, per lo meno di quelli di una certa età. Accanto ai mafiosi resi celebri dalle cronache troviamo il giudice Falcone, troviamo l’ineffabile Andreotti. Ci sono anche alcuni fatti di sangue, alcuni feroci omicidi della guerra di mafia tra i Palermitani e i Corleonesi, c’è il sanguinoso attentato a Falcone, rappresentato con una prospettiva visiva davvero efficace. C’è un Riina davvero credibile e iconicamente molto somigliante. Chi tuttavia si aspettasse il classico film di mafia – come siamo stati recentemente abituati dai vari Gomorra, o dai “canari” & Co. o, ancora, dalle varie serie televisive – potrebbe andare seriamente deluso. E di ciò va reso merito a Bellocchio. Sullo sfondo della ricostruzione delle vicende di mafia, quel che viene in primo piano infatti – e non poteva che essere così in un film di Bellocchio – è la soggettività del traditore.

      – 3. Proprio su questo terreno segnaliamo subito un problema. Che forse costituisce il problema del film stesso. Favino è bravissimo nella sua parte, ma, ahimè, risulta inevitabilmente troppo simpatico, tanto da passare per il mafioso buono contro i mafiosi cattivi, tanto da diventare una sorta di eroe civile, tanto da far scivolare in secondo piano la stessa figura del giudice Falcone. Sul piano dello spettacolo indubbiamente il film guadagna assai dalla prova attoriale di Favino, a prezzo però di un qualche stravolgimento del significato complessivo dell’analisi del fenomeno mafioso e dei servitori dello Stato suoi antagonisti. Il Buscetta di Bellocchio ha una biografia “umana” che si dispiega compiutamente sotto gli occhi dello spettatore, ha una vita relazionale complessa, ha un’interiorità, ha dei dilemmi, fa delle scelte. Sembra perfino intelligente. Appare come un uomo del popolo che si è fatto dal niente, rischiando sempre in prima persona. È rappresentato come un uomo intriso della cultura mafiosa classica. È, in altri termini, un uomo d’onore, seppure vagamente anomalo in quanto preferisce, per sua stessa asserzione, futtiri piuttosto che cummandari. Sembrerebbe sostenitore di una certa versione romantica della mafia, che in quegli anni veniva sempre più messa da parte dalla ferocia e dal bieco materialismo dei corleonesi, i quali non esitavano a usare le vendette trasversali, la lupara bianca, e a uccidere indiscriminatamente parenti e bambini. Su questa mitologia del personaggio Buscetta, che pervade il film, abbiamo decisamente qualche riserva. La mafia romantica, se mai c’è stata, era da un pezzo in via di sparizione e don Masino, il boss dei due mondi, era ben addentro al traffico internazionale di droga e ai metodi della nuova mafia. Basterebbe ricordare che La mafia imprenditrice di Arlacchi è del 1983 e che le trasformazioni cui si riferisce il libro datano almeno a un decennio prima. Le disquisizioni sull’etica mafiosa che compaiono qua e là nel film appaiono dunque alquanto pretestuose e sovra dimensionate. La lotta tra la vecchia e la nuova mafia, per com’è rappresentata da Bellocchio, assomiglia piuttosto al noto motivo della distruzione del mondo arcaico a opera della modernità e dello sviluppo economico, come era rappresentata presso certi intellettuali di sinistra degli anni Sessanta. In realtà don Masino ha fatto anch’egli pienamente parte di quello stesso mondo che poi, alla resa dei conti, voleva farlo fuori. Non basta la chiusa del film (dove si vede Buscetta in veste di killer feroce, seppure riluttante) a rimettere le cose a posto e a smontare l’eroe civile pazientemente costruito.

      – 4. Pare, quello di Bellocchio, un film sulla famiglia. Proprio le relazioni interpersonali nell’ambito delle famiglie mafiose sono al centro del film, a partire dall’iniziale rappresentazione del summit e della festa, il rito conciliatorio di un fragile equilibrio pacifico trovato tra le diverse famiglie siciliane prima della tempesta. Equilibrio che sarà ben presto rotto. È questo senz’altro uno scorcio davvero efficace di vita quotidiana della mafia. Il tema del film sembra giocato appunto intorno al conflitto tra la famiglia mafiosa, organizzata intorno alla brama del potere, e la famiglia tout court, organizzata intorno al matrimonio, alla vita sessuale e alla generazione di uno stuolo di figli. Nel momento della pacificazione sembra che le due dimensioni possano convivere, ma nel momento dello scatenamento della guerra di mafia (le cui motivazioni peraltro avrebbero meritato, nel testo del film, un maggiore approfondimento) inevitabilmente la famiglia tout court – la famiglia del protagonista – viene stritolata. La divaricazione tra le due obbedienze – oltre a generare delitti efferati – mette costantemente gli individui di fronte al problema della scelta e alla questione delle alleanze. In fondo, la ragione ultima della collaborazione di Buscetta con lo Stato non pare proprio essere stata la riscoperta di una diversa etica civica, bensì il senso della vendetta per l’offesa alla nozione arcaica della famiglia, per il tradimento dei legami di solidarietà tra gli “uomini d’onore”. Allo sconfitto non resta che affidarsi a un altro potere forte per farsi la vendetta. Insomma, una questione del tutto interna agli sviluppi della “cultura mafiosa” in un periodo di scontri per il controllo del territorio e degli affari. Anche l’incontro con il giudice Falcone non pare andare più in là del rapporto tra uomini d’onore. Un rapporto tra il servitore dello Stato, ritenuto poco affidabile dallo stesso potere politico, e il membro della famiglia mafiosa caduto in disgrazia.

      – 5. Le ricostruzioni dei vari processi in cui Buscetta ha avuto un ruolo come collaboratore di giustizia costituiscono senz’altro un pezzo assai efficace del film. Sono ricostruzioni decisamente teatrali, con i mafiosi, denunciati e fatti imprigionare dallo stesso Buscetta, stipati dietro alle sbarre che si comportano come animali – la cosa è suggerita nel film anche visivamente – urlano, imprecano, si denudano, sostengono tesi difensive paradossali, sfruttano, secondo la loro logica, il diritto a difendersi loro concesso dalla legge. Sembrano provenire da un altro mondo ed esibiscono una vitalità e un’irriducibilità straordinaria. Il tutto accade di fronte a dei giudici privi di qualunque carisma, per lo più burocratici, imbarazzati e remissivi, che tentano invano di mantenere l’ordine, di far tacere le gabbie. Di fronte a un folto pubblico di sostenitori che incita e appoggia gli imputati e di fronte a degli avvocati che appaiono come tecnici senza anima, legulei asserviti agli interessi dei loro clienti. Giudici e avvocati sono, evidentemente, il rovescio della figura di Falcone, che ovviamente nel processo non compare. Falcone è l’unica figura nel film che appare effettivamente degna di rappresentare lo Stato, la qual figura tuttavia è tirata via un po’ troppo in fretta, non riesce a brillare di luce propria, non riesce a trovare effettivamente una propria autonoma fondazione. Forse perché troppo compressa dall’eroe civile Buscetta. S’intuisce che Falcone non sta tanto simpatico a Bellocchio. La freddezza tenuta nei suoi confronti si riscatta soltanto nella sequenza – davvero efficace e straordinaria sul piano filmico – dell’attentato e della morte del giudice e della sua scorta. Con il seguito, davvero agghiacciante, di fronte alla notizia dell’attentato, dei festeggiamenti e degli schiamazzi nelle patrie galere e in tutto il mondo mafioso.

      Così, sotto l’occhio imbarazzato e impotente della Legge, i due partiti di mafia diventano i veri protagonisti nell’aula bunker. Negli svariati confronti tra Buscetta e i suoi antagonisti mafiosi non c’è chi vince o chi perde. Buscetta difende il particulare della sua famiglia, dei suoi figli assassinati, del codice d’onore arcaico tradito, mentre i suoi antagonisti difendono l’omertà e gli interessi dell’organizzazione. Difendono la cultura del popolo mafioso che plaude rumorosamente dal settore riservato al pubblico. Insomma, la lotta risoluta alla mafia sembra condotta in prima persona da un pezzo della mafia stessa, sotto gli occhi svogliati e distratti dello Stato.

      – 6. Veniamo così al problema fondamentale che emerge dal film. Bellocchio, forse del tutto inavvertitamente, sembra condividere e sostenere una concezione primitiva del potere, di qualunque forma di potere, e cioè quello di un potere inteso comunque e sempre come forza bruta e prevaricazione. Motori della storia e fondamento della società sono gli istinti animali, il sesso, la violenza, il denaro, la forza dei legami di sangue, dei legami parentali, i giochi dello scambio e delle alleanze che, all’occorrenza, si trasformano e si sublimano nel potere sottile e mistificatore di un Andreotti o dei politici sostenitori della mafia, cui spesso si fa allusione nel film. Insomma, non ci sono poteri buoni. Il potere legittimo è tale non per qualche tipo di superiorità morale ma soltanto perché ha il monopolio della forza. Falcone non rappresenta lo Stato in termini positivi, è anch’egli un estraneo al potere dello Stato, è anch’egli un eroe accidentale, prodotto dalle circostanze, proprio come Buscetta. Anche Falcone dà fastidio al potere, a quelli della sua parte, e rischia costantemente di essere eliminato. Anche Falcone, a suo modo, è un traditore del suo mondo. Nel testo filmico questa tesi viene sostenuta esplicitamente. In una conversazione tra Falcone e Buscetta, quest’ultimo afferma che si tratta solo di sapere chi dei due morirà per primo. In effetti, tra i due sarà proprio Buscetta a farla franca.

      – 7. Bellocchio, cineasta senz’altro impegnato, sia sul fronte civile sia sul fronte dell’esplorazione della problematicità dell’esistenza, mostra qui tutta la debolezza del suo retroterra culturale che a quanto pare – ci dispiace davvero molto ammetterlo – continua a restare ancorato a uno schema vagamente ribellistico. Bellocchio, qui, mostra tutti i limiti delle sue radici anarchiche e rivoluzionarie. Ci ricorda costantemente che i rapporti tra i soggetti altro non possono essere che rapporti spietati di potere, a loro volta inscritti nelle loro specifiche matrici sociali e culturali. Sono i rapporti di potere che costituiscono i vari mondi che occultamente si organizzano e si scontrano tra di loro. Non esiste ciò che è giusto o sbagliato. Esiste solo la possibilità della ribellione, la costituzione contro il potere di quei soggetti che, per qualche motivo, sono “venuti storti”, si sono trovati nel posto sbagliato, nei panni sbagliati. Buscetta e Falcone appaiono come vittime predestinate a causa della loro rivolta individuale. O stai dalla parte del sistema, o ti ribelli a tuo rischio e pericolo. Un amarissimo Bellocchio, forse un po’ esageratamente foucaultiano. Un Bellocchio che non lascia intravvedere alcuna via di uscita. Nel film, la sola giustizia che opera – e che è in grado di ottenere qualche risultato – è quella di Buscetta, non quella dello Stato. Quella che ha effettivamente successo è una giustizia che è altrettanto cattiva e feroce dell’ingiustizia che essa stessa persegue, una giustizia senza formalismi, senza burocrazia, che nasce dai legami di sangue, dall’odio e dalla vendetta, dall’esigenza di riparare a un torto inferto a un arcaico codice di onore. Del resto uno Stato che ricorre all’uso dei “pentiti”, chiamandoli eufemisticamente “collaboratori di giustizia”, mostra la propria intrinseca debolezza, il proprio istinto a mercanteggiare e a patteggiare. E questo nel film viene abbondantemente mostrato.

      – 8. Solo le ribellioni individuali di Buscetta e Falcone, pur collocate su piani decisamente diversi, permettono che avvenga il processo, il confronto tra i due mondi capovolti. La cultura dei mafiosi dietro le gabbie e la cultura dello Stato nell’aula bunker ci vengono mostrate, entrambe nei loro limiti, entrambe nelle loro miserie. Da un lato la selvaggia “moralità” dell’organizzazione mafiosa, con tutti i rituali intimidatori e di auto celebrazione, dall’altro la davvero incerta e malferma moralità dello Stato, simboleggiata da quell’incredibile figura del giudice che non riesce a far tacere i mafiosi nelle loro gabbie e quasi li prega di collaborare nel condurre ordinatamente il processo. Non si può evitare di concludere che – e forse questa è la cifra autentica del testo del film – che tra quello Stato inerme e quegli animali dietro le sbarre si dipana la trama di un unico eterno potere originario che nella storia assume soltanto diverse parvenze. Certo, ha ragione da vendere Bellocchio a sottolineare la debolezza dello Stato e le complicità tra potere mafioso e potere politico. Si tratta di fatti storicamente fondati e ormai dal tutto assodati. Ma l’esaltazione degli eroi individuali e la conseguente ritrosia a stare dalla parte dello Stato, perché lo Stato è comunque sempre sporcato dal sospetto e dall’ombra del potere, non può che essere la logica conseguenza di una cultura antiautoritaria coltivata fino all’estremo, fino a fare dello Stato e della autorità uno stupido fantoccio, smarrito di fronte alle esplosioni di vitalità che provengono dalle gabbie.

      – 9. La visione di Bellocchio è quella stessa, ahimè, di una generazione antiautoritaria che continua a identificarsi e a ripetersi nella propria ribellione individuale, a coltivare il proprio senso di estraneità verso il potere, e che tuttavia non riesce proprio a intravvedere il percorso possibile per la costruzione di un qualche tipo di ordine civile su cui non cali immediatamente il sospetto del malaffare, della violenza e della repressione. Ancora una volta assistiamo dunque agli effetti di un astratto rifiuto a “sporcarsi le mani” con la legalità. Così, detto qui veramente per inciso, a costruire l’ordine e la legalità ci penseranno i Salvini di turno. Si tratta dunque – questo Traditore di Bellocchio – di un film forse davvero involontariamente sincero. Quasi l’autobiografia di una generazione. Quasi la segnalazione di un limite mentale e culturale divenuto ormai cronico e inemendabile. Bellocchio sta dalla parte di Buscetta e, seppure un po’ più tiepidamente, dalla parte di Falcone, perché sono, a loro modo, degli anomali, dei ribelli, ma non riesce autenticamente a stare dalla parte dello Stato. In quella ben nota visione – senz’altro fondata sul piano fattuale, ma non altrettanto sul piano morale e su quello politico – lo Stato altro non può essere che il prolungamento di Totò Riina. O, se si preferisce, la prosecuzione di Cosa nostra con altri mezzi.

Giuseppe Rinaldi  (06/06/2019

Sito: https://finestrerotte.blogspot.it

 

 

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