Il tramonto di un impero

Alcuni giorni fa, durante un incontro di calcio dei Campionati europei, è successo un avvenimento apparentemente insignificante, ma in realtà importante.
Si suonavano gli inni nazionali e i 40’000 spettatori di Wembley hanno fischiato l’inno nazionale tedesco, per poi cantare appassionatamente “God Save the Queen” come un sol uomo.
A parte il fatto che non si fischiano i rivali di una competizione, poiché dimostrazione di antisportività, antitetica al concetto di sporting life, i 40’000, frequentatori di pub e bevitori di pinte, non sapevano che colui che aveva composto tale inno era un certo Haydn, che a suo tempo lo aveva realizzato in onore dell’imperatore germanico.
Quindi, oltretutto, una bella prova d’ignoranza.
Questo atteggiamento di nazionalismo e chauvinismo inglese, secondo me, ha una data precisa di inizio, che coincide con la salita al potere di Margareth Thatcher.
Io stesso, a metà anni ’70, ho passato un anno intero in Inghilterra, dove ho trovato un clima di accoglienza e simpatia verso tutti i partners europei: non posso lamentarmi, anzi.
Ma, con la Thatcher, tutto ciò cambia: ritornano i vecchi miti dell’imperialismo inglese e di una supposta supremazia britannica su tutto il mondo, per cui anche questo accostamento all’Europa viene regredendo, finché nel 2016 gli Inglesi decidono di recidere il loro debole legame con l’Europa.
La Thatcher ricorda certi personaggi Romacentrici di oggi, che pensano di risolvere tutto con un nazionalismo becero e campanilista, come se riferirsi a un glorioso passato bastasse per aprire la strada a un altrettanto glorioso futuro.
La Gran Bretagna, per quaranta anni, è rimasta sulla soglia dell’Europa, e di questo bisogna prendere atto.
Non ha mai riconosciuto il fatto di aver ricevuto aiuti da Bruxelles, come ha fatto l’Irlanda.
L’Inghilterra crede che il mondo faccia perno intorno ad essa e che gli altri debbano essere subordinati.
Certe volte questo atteggiamento assume connotati ridicoli.
Secondo me, un premier come Johnson è un personaggio che nulla ha in comune con certi predecessori, a partire da Churchill, che era molto più realista, e Johnson si colloca in una visione quasi goliardica dell’esperienza politica.
Mi ricorda certi personaggi del Circolo Pickwick di Dickens.
Nel 1943, dopo il summit di Teheran, Churchill disse che l’abbraccio fra l’orso sovietico e il bisonte americano escludeva ogni possibilità di affermazione per l’asinello britannico: aveva colto nel segno.
Boris Johnson nega questa realtà, colloca la modesta barchetta dell’Inghilterra in mezzo all’Atlantico, fra un’America presa dai suoi problemi e indifferente alle richieste del lontano genitore, mentre l’Europa, dubbiosa, non sa che farsene di questo figlio, che vuole essere primogenito a tutti i costi e fare quello che gli pare.
Vista da fuori, sembra che l’Inghilterra eserciti le sue arti ammaliatrici soltanto sulle sue prime secolari colonie, come l’Irlanda, la Scozia, forse il Galles.
La domanda che ci si può porre è la seguente: cosa pensano di fare gli Inglesi nella loro piccolissima isola?
Non si sa.
Poi, questa figura anacronistica di una piccola regina, che, curva sotto il peso degli anni, vuole superare il record di durata al trono della regina Vittoria, senza però ricordarsi che Vittoria era l’imperatrice di mezzo mondo, lei no.
Poi, permettetemi una nota di colore: il povero Carlo deve attendere, non si sa per quanto, di poter salire al trono, questo perché è antipatico ai media più corrivi, tipo “Daily Mirror” e il “Sun”, che hanno scatenato una campagna contro di lui, accusandolo di aver tradito la Cenerentola Diana…
Mi sembra che è stato invece il matrimonio organizzato dalla Corona quaranta anni fa a rovinare la vita al principe di Galles, che aveva altri interessi e altre passioni.
La morbosità del pubblico ha provocato una serie di sconquassi, che hanno disturbato la vita di una persona, la quale, forse, potrebbe fare il re, come qualunque monarca scandinavo.
Saltiamo di pal in frasca: si stanno svolgendo gli Europei di calcio, l’Inghilterra giocherà le semifinali a Wembley e, forse, la finale.
Speriamo che l’esito di questi campionati non sia manovrato, come si sussurrava per quello (dei Mondiali) del 1966, in cui un goal fantasma dette la vittoria alla squadra di casa, poiché così doveva essere.
In questa volontà di apparire a tutti i costi, mi vengono in mente i personaggi del mio amato Orson Welles, i quali sono sovente “bigger than life”.
Come in un gioco di specchi, le immagini ritornano a protagonista.
Ma si tratta di un falso.

Giorgio Penzo

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