Tutti contro tutti? Anche no

Il paradosso della democrazia oggi si può sintetizzare così: i voti si prendono alle estreme, per governare bisogna mettersi al centro. Questo scollamento nasce da almeno tre fattori. La fine delle grandi famiglie ideologiche, che tenevano gli elettorati uniti consentendo, a chi vinceva, di mediare. La frenetica volatilità dei votanti, che cambiano idea a giorni alterni e spesso disertano le urne. Infine, la difficoltà a governare in un’epoca di risorse scarsissime. Si può urlare dall’opposizione, ma quando si passa ai fatti nessuno ha la bacchetta magica. A questi tre fattori «strutturali» va aggiunto il ruolo del Web. Che facilita molto la protesta – vedi i like a Salvini e Meloni e, da ultimo, alle sardine – ma fa fatica a costruire soluzioni. E il piatto dell’ingovernabilità è servito.

Può darsi che ci sia anche questa improvvisa presa di coscienza nella mossa – almeno a parole – dialogante di Salvini. Giovanni Orsina, ieri sulla Stampa, vi vede soprattutto il tentativo di non lasciare tutta la scena mediatica alle piazze sardinizzate. Ma adombra, a fin di bene, anche l’ipotesi che – svanita la speranza della spallata immediata – si faccia strada nel leader della Lega il tentativo di riguadagnare uno spazio di manovra strategico. Utile soprattutto al dopo. Invece di fare affidamento solo sui post un po’ spuntati della Bestia, rimettere mano a alcune regole del sistema politico da provare a cambiare tutti insieme. E’ la stessa lunghezza d’onda su cui sembrerebbe muoversi – si parva licet – l’iniziativa di Mara Carfagna con la sua neonata associazione, Voce libera. Uno spiraglio di riflessione e progetti moderati in un’area di centrodestra che, nell’arco di poco più di un anno, si è bruscamente radicalizzata. Ma questi sprazzi di pragmatismo – e di buon senso – che chance hanno di pacificare un quadro politico dai toni sempre più esasperati e ultimativi?

Una cartina di tornasole interessante sarà la Gran Bretagna di King Boris. Appena eletto con una vittoria imprevista – nelle dimensioni schiaccianti – si è affrettato a lanciare un ramoscello, anzi un albero di ulivo ai perdenti. Anche approfittando del fatto che erano andati fragorosamente al tappeto. E’ probabile, cioè, che Johnson abbia ben presente i rischi di chi si illuda di governare strepitando, e cerchi subito di correre ai ripari delle fratture che lui stesso ha causato. Non diversamente da Trump, che ha dismesso da tempo gli abiti – e i tweet – da capitan Fracassa, per concentrarsi sulle questioni ben più pratiche dell’economia. Dove sta dimostrando di conoscere abbastanza bene il mestiere, a giudicare da come tirano le borse e i principali settori industriali.

All’atto pratico sembrerebbe, quindi, che il paradosso della democrazia è – un po’ – meno disperante di quanto apparirebbe a prima vista. Una volta insediati al governo, gli urlatori abbassano i toni e cercano una sponda coi nemici sui quali, fino al giorno prima, hanno cannoneggiato alzo zero. O almeno, questo sarebbe lo scenario auspicabile, il cosiddetto minimo sindacale perché il sistema – tutto il sistema – non si sfasci. È quello che – tornando all’Italia – Conte e Zingaretti hanno capito. Ma non è chiaro se anche Renzi e Di Maio siano dello stesso avviso. Anzi, sembra proprio di no. Complice il proporzionale che invita i partner a litigare tra loro per cercare più visibilità e rosicchiare qualche frammento di sottopotere, l’esecutivo italiano sembrerebbe sfuggire a qualunque principio di pacificazione interna. Tenendosi insieme soltanto con la colla delle – proprie – poltrone.

Sarà così fino a fine gennaio, alla «battaglia di Stalingrado» in cui si saprà se la Lega conquista anche l’Emilia rossa. Se Salvini dovesse passare, è certo che non farà prigionieri. E metterà a ferro e fuoco le piazze – reali e virtuali – per avere quanto prima le elezioni politiche. Se, invece, vince il centrosinistra, Conte e il Pd potrebbero aprire un forno ri-costituente con quella parte del centrodestra interessata a non passare il resto della legislatura segregata all’opposizione. Non serviranno necessariamente parlamentari «responsabili», ma i dialoganti saranno decisivi per mettere su binari diversi – più civili – la dialettica tra i due poli. Un Salvini ridimensionato potrebbe cogliere l’opportunità per rifarsi un look meno aggressivo. Lo aiuterebbe, se tornasse al governo, a fronteggiare l’onda delle sardine. Che è improbabile che diventino un partito. Ma resteranno un movimento capace di far scendere in piazza, in pochi giorni, l’Italia che si rifiuta di gridare.

di Mauro Calise. (“Il Mattino”, 16 dicembre 2019).

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