Un invito a vedere (o a rivedere!): Below Sea Level di Gianfranco Rosi

«L’acqua è mal distribuita su questo pianeta:
serve a morire di sete o a morire annegati»

 (Zoltán Korda, Sahara)

[“Carico” questo pezzo al solo, deliberato scopo di invitare quanti tra gli eventuali lettori ne avessero voglia e non lo conoscessero neppure loro, ad andarsi a vedere su Raiplay, prima e piuttosto che… Fiorello, questo film a mio modesto avviso assolutamente straoodinario]

Non soffro, fortunatamente, di insonnia. Di norma la notte dormo, con rare eccezioni. Il principale rimpianto per questa… dote è il non aver mai potuto fruire adeguatamente in diretta della straordinaria offerta ormai ultratrentennale di “Fuoriorario”. Tranne eccezionali sedute in bianco, ne ho ricavate solo, per molti anni, prima di desistere, decine e decine -anzi no: centinaia!- di ore di registrazione, che probabilmente non troverò mai tempo e modo di vedere (senza parlare delle più remote, ancora in vhs, troppo laboriose o costose da riversare su più aggiornati supporti, dove peraltro conoscerebbero la stessa, ingloriosa fine).

Ma talvolta anche la pur rara insonnia può essere un dono, o quanto meno un’opportunità. E’ capitato qualche settimana fa. Se non riesco a dormire troppo a lungo, la reazione è alzarmi e mettermi a leggere, non prima di aver compiuto un rapido zapping tv, che solo in rari casi “positivi” si tramuta in visione e ascolto (ghezzi & C. non vanno in onda tutte le notti). Infantilmente, però, quando colgo di passaggio un film -quale che sia- al suo esatto inizio, se non è proprio terrificante vado fino in fondo, previa identificazione valutativa, mnemonica o all’occorrenza manualistica che sia.

Il colpo di fortuna cui accennavo, curiosamente, non mi è stato accordato infatti dalla “Tre” o da un canale di soli film, ma da RaiDue, con la visione di Below Sea Level (2008) di Gianfranco Rosi.

Prima della vittoria veneziana di  Sacro GRA (2013), e della straordinaria impressione riportata da quel capolavoro (reiterata, per quanto un pochino in minore, dal successivo Fuocammare),  non mi ero mai occupato, sinceramente, di lui e del suo cinema: sapevo vagamente trattarsi di un documentarista importante. Ma, prima dell’uscita del bellissimo libro di Bertozzi (Marsilio 2008) e delle magnifiche 27 puntate con lui (queste sì, viste e riviste) di Corto reale su RaiStoria, anche riguardo al documentario conservavo superficialmente solo l’impressione di noia ereditata dall’adolescenza: la lontana epoca in cui la sua proiezione era obbligatoria, dopo l’intervallo pubblicario o non, ad ogni replica del film a “spettacolo continuato”. Oggi ne sarei entusiasta: crescendo per fortuna -o sfortuna?- si cambia. E pensare che negli anni Cinquanta noi bambini vogheresi giocavamo a calcio sul campetto della Edison, mai più immaginando che dietro le finestre prospicienti ci fosse… l’allora sconosciuto Ermanno Olmi intento al montaggio dei suoi capolavori di cinema industriale! (A questo punto completo per onestà e trasparenza l’autosputtanamento: mio malgrado, ci sono davvero tuttora, purtroppo, tre generi di fronte ai quali, volente o nolente, non riesco a trattenere -salvo rare eccezioni canoniche- lo sbadiglio: animazione, fantascienza, fantasy).

Vengo al “contenuto”. Nomadi, vagabondi, straccioni e truffatori a 300 km da Los Angeles ma in New Mexico. In una base militare abbandonata in pieno deserto situata 40 km sotto il livello del mare (anche metaforicamente…) convive un gruppo di persone senza acqua, elettricità, governo politico e polizia. Alcuni  sono ricercati o lo sono stati, e hanno anche una composizone recitata da uno di loro, Ken, che li narra: «Nomadi, vagabondi, straccioni, e truffatori / Pensionati migratori, vecchi strampalati scorbutici / abitanti del deserto, rettili, umanoidi / Per tutta la vita evitata la California / ma questa non è California / è un paese straniero / Niente acqua, niente elettricità / Livello del mare: sotto il livello / Viviamo qui, sotto il livello del mare…».

E che ci vengono presentati ad uno ad uno, nei primi dei 110 minuti montati con la consueta perizia raffinata da Jacopo Quadri, superstite del possibile annegamento nei quintali -metaforici: il digitale non pesa- del girato di Rosi. Sono sette: Sterling “Water Guy”, che distribuisce acqua a pagamento ai “colleghi” di isolazionistico soggiorno; Michael “Mike Bright”, lontano dalle figlie di cui pure parla, e con cui ha contatti telefonici; Lili “The Doctor”, una ex-veterinaria che dispone anche di una micro-simil-baracca «Avevo una bella casa, un bel figlio, una carriera molto gratificante, ho speso tutto quello che avevo per ottenere la custodia di mio figlio, e ho perso la causa. Tutte quelle auto dilaniate, senza ruote, è come un manicomio per macchine, che abbiano avuto una crisi di follìa. Non sono neanche più riconoscibili: guardo la mia parcheggiata accanto alla vecchia Ford e penso: “Sono così bloccata in aquesto posto, che dovrò starci finché anche la mia macchina diventerà così?”»; appunto Kenneth “Bus Kenny”, il già citato filosofo-narratore-(auto)biografo del gruppo-non gruppo; Wayne “Insane Wayne”, indimenticabile ritratto vivente della folìa pura; Cindy “The Hair Stylist”, un travestito reduce dal Vietnam, traboccante di simpatia e ancora, con ogni evidenza, sessualmente disponibile, che aspira ad aprire un… salone di bellezza open air (e ci riesce pure!); e Carol “Bulletproof”, la cui figlia è stata uccisa da un colpo di arma da fuoco. Più alcuni sperduti, pazientissimi quanto ipercinetici loro cani, e i relativi veicoli classe sfasciacarrozze in cui hanno via via trovato rifugio nella vasta, remota e isolatissima landa. Li conosciamo dapprima individualmente: poi a poco a poco entrano anche in faticosa interazione, talora, fra di loro, e la scena dialogica si anima.

Ken è il letterato, il teorico e il cantore programmatico del gruppo, e dai suoi esercizi di scrittura canora, stesa o pensata, ne apprendiamo la profondità “filosofica”: «Allora mi sono detto: vado nel deserto, che è molto grande e nessuno ci fa caso. Finalmente non devo preoccuparmi che qualcuno mi denunci perché dormo all’aperto. Qui sto bene e ho le mie comodità. In città devi nasconderti. La sopravvivenza è legata al caso, non al diritto. Dormirei persino in un cassonetto, per stare al sicuro in città ed evitare l’arresto. Qui non devo scervellarmi troppo, ho trovato la libertà e la sicurezza: posso accendere un fuoco, non devo preoccuparmi del mio cane. E’ fantastico».

Si resta stupefatti di fronte all’eccelso livello qualitativo del film, e umanamente coinvolti come raramente può accadere dal visivo e dal sonoro irradiato dai personaggi. Sentendosi nel contempo vertiginosamente attratti e sideralmente terrorizzati dalla radicalità di quella scelta o di quella caduta che hanno determinato un così totalmente estremo modo di vivere, il quale peraltro riesce a richiamare in sé tutte le contraddizioni del mondo progredito odierno: si può essere liberi fin che si vuole, ma anche lì l’acqua, la benzina, la forza motrice, i dollari, gli oggetti di consumo, gli scarti stessi del vivere “normale” consumistico servono eccome, e vi ci si deve piegare. E le analisi che alcuni personaggi fanno della propria situazione e di quella generale sono di un’esattezza e di una profondità tanto lucida e perentoria quanto disperatamente definitiva. Ma l’aver raggiunto una vetta cinematografica così infinitamente … Above Sea Level si comprende penetrando l’estremo, abituale metodo di lavoro di Rosi, che in quella davvero ultima Thule ha soggiornato per  qualcosa come quattro anni, impressionandovi complessivamente addirittura 120 ore di riprese (si fosse trattato di vecchia cellulode, avrebbe voluto dire l’equivalente di quasi 200 km di pellicola!!).

Insomma, l’invito, se non vi è già familiare il film, è quello di non perpetuare il mio percorso di ignoranza. Se ancora non lo conoscete, o se per vostra fortuna l’avete visto da tempo (ma allora vuol dire che siete frequentatori di festival o nottambuli…) e non lo rammentate, non mettete tempo in mezzo e raggiungetelo su RaiPlay. O -meglio ancora- nel dvd Feltrinelli che comprende anche Boatman (2004) ed El sicarioroom 164 (2011: a questo punto li ho visti entrambi!). E già che ci siamo, non perdetevi nella medesima collezione, se già non li conoscete a loro volta, come invece stavolta immagino, di Ermanno Olmi appunto Gli anni Edison. Documentari e cortometraggi (1954-1958). Capolavori nascenti, con nelle orecchie dell’autore alla moviola gli strepiti ignari di piccoli calciatori vocianti, tutti dietro al pallone alla “viva il parroco!”, nell’aurea e povera Voghera dei pasoliniani anni Cinquanta.

Nuccio Lodato

                                          (in diversa forma in «Diari di Cineclub», 79, gennaio 2020)

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