Un libro per uno e per tutti – Anima e Mondo il nuovo libro di Franco Livorsi

“Eterno dileguare, eterno essere; il fiore muore nel frutto, dunque è il frutto, ha scritto un geniale e talora pomposo professore di Jena dimostrando che anche il più grande dei filosofi può essere un poeta. Muori e divieni, diceva quel poeta di Weimar tanto più poeta di lui […]. Muori e divieni così veramente sei, se non vuoi restare un ospite frettoloso e oscuro su una terra opaca”1. Così scrive Claudio Magris nel racconto che dà il titolo alla sua ultima fatica letteraria; e così potremmo dire per Anima e Mondo. Il poema sulla storia e sui sogni. L’idea della rinascita nel XXI secolo, di Franco Livorsi, un’opera vasta e poliedrica, in cui l’uso di generi letterari e stili di scrittura differenti – il lirico, il narrativo e l’espositivo-epidittico -, che si intrecciano e si fondono reciprocamente, realizza e dimostra già di per sé la tesi fondamentale dell’autore, vale a dire l’istanza di risoluzione a unità dell’antitesi tra filosofia e poesia, tra logos e mythos, tra biografia, natura e Storia o, per dirla con Nietzsche, tra apollineo e dionisiaco, inaugurata dal socratismo e dal platonismo.

Libro vasto e poliedrico, si diceva, in cui le numerosissime, fitte ed eclettiche letture e riflessioni di un’intera intensissima vita intellettuale, si stratificano e per così dire si distillano e decantano, fino a comporre una grandiosa visione sistemica, quasi hegeliana, della natura, della vita del singolo, della società, della politica e della Storia, attraverso una sorta di Bildung dal singolare dell’Io al complesso del Sé e al plurale del Noi, che si articola in tre momenti e in tre parti dell’opera: una prima, intitolata “L’Anima nel mondo”, di evidente derivazione plotiniana e hegeliana, scritta in forma di prosa lirica, giacché è lirico il linguaggio dell’anima e che non casualmente termina con quattro poesie; una seconda, dedicata a “Il mondo nell’Anima”, in cui poesia e ricordi onirici affrescano la vita interiore dell’autore, secondo un modello psicoanalitico junghiano; la terza, “Anima e Mondo”, in cui si delineano l’interpretazione del passato storico-politico e le prospettive future, sulla base dell’assunto, tra idealismo, junghismo e filosofia orientale, secondo cui la radice della vita individuale e collettiva è psichica e, dunque, in un rovesciamento di ogni forma di materialismo e di scientismo, l’essere precede l’agire, o, come perspicuamente scrive l’autore, “facciamo ciò che siamo”, anziché essere definiti da ciò che facciamo. Quest’ultima è una parte teoretica, in prosa, fondata sul modello argomentativo del discorso razionale.

A conclusione del libro, l’autore pone il “Testamento del sé”, ode in cui la complessa riflessione – nelle due accezioni di ri-flessione, ripiegamento in sé e nell’anima e di rispecchiamento– indagine del mondo – si conclude nella sintesi neoplatonica dell’unità degli enti singoli nell’Uno-Tutto. Proprio in ragione di tale continuum dal soggettivo all’intersoggettivo, dal singolare al plurale, potremmo, parafrasando Nietzsche, affermare che questo è un libro per uno e per tutti, così come appunto lo ha concepito l’autore.

Il punto di vista prospettico del testo è senza alcun dubbio intriso di profonda religiosità e di un senso sacrale del numinoso che, sia pur non riconoscendosi in una specifica religione positiva, illumina e pervade l’intera esposizione, a partire dalle suggestioni tratte anzitutto e soprattutto da Jung, ma anche da Hegel e da Plotino, rivisitati attraverso la lente dello junghismo. È una religiosità, dunque, che riprende la tesi plotiniana dell’emanazione del mondo dall’Uno e del ritorno di Tutto a esso, ma ne espunge in larga misura la nozione di assoluta alterità e ineffabilità del Divino; e al tempo stesso concepisce hegelianamente l’immanenza del Geist nella Natura e nella Storia, ma non lo assume affatto come Idea, come pura Ragione universale. Nel riprendere infatti alcune suggestioni di Jung, Livorsi postula una unità tra divino e umano, tra pathos e logos, tra spirito e materia, vale a dire, come scrive, ipotizza una “materiaspirito” che si pone come coincidentia oppositorum per nulla estranea, anzi per molti versi identica – se non nelle premesse, certamente negli esiti – al misticismo cusaniano e altrettanto contigua alla concezione dell’unità armonica priva di individuazione delle filosofie orientali. In essa traluce e a essa si congiunge la lezione nietzscheana del dionisiaco e persino dell’oltreomismo, nell’istanza di una pariteticità tra divino e umano, che sappia eludere la minaccia della subordinazione dell’uomo al Dio.

Attraverso tale interpretazione, l’autore introduce le due nozioni centrali dello junghismo, quella di archetipo e quella di mito, che lo soccorrono nella ricostruzione del cammino verso il Sé, che si svolge, come dicevamo, nell’esperienza (nel senso in cui parliamo di esperienza nelle Lebensphilosophien e con forti analogie con molte riflessioni di Edith Stein) singolare, a partire dalla ricostruzione delle radici in una Sicilia dionisiaca, solare e arcana, pervasa dagli antichi miti mediterranei e greci, per giungere alla Storia collettiva e in particolare ai riferimenti culturali e teoretici che in essa l’autore individua (Sorel, Rosa Luxemburg, Lenin, Bordiga, Gramsci, e soprattutto Marx) e che collega a concrete vicende politiche vissute nella seconda metà del Novecento.

I testi poetici che seguono testimoniano, infine, il convivere di amara analisi delle sconfitte politiche, da un lato e di volontà dionisiaca dall’altro, quasi in una riproposta del celeberrimo binomio gramsciano di pessimismo della ragione e ottimismo della volontà, cui si congiungono a tratti l’esperienza della Sehnsucht, lo struggimento e l’anelare per l’infinito, il senso del dionisiaco e  la percezione di ciò che, con grande lucidità e sensibilità, Nietzsche aveva definito, a proposito di Eraclito, ma riferendosi anche a se stesso, “la agghiacciante solitudine del saggio”.

Nella seconda parte del testo, i resoconti dei sogni, di grande interesse per chi sappia coglierne la presenza delle figure archetipiche, attestano, con i loro contenuti per così dire ideal-tipici, l’interpretazione junghiana del mondo onirico.

La terza parte dell’opera costituisce il contributo teorico per così dire esplicito del testo, nel quale lo storico delle dottrine politiche si fa filosofo della politica, divenendo non soltanto interprete delle dottrine del passato, bensì anche e soprattutto costruttore di nuova teoria per il futuro. In essa, possiamo identificare tre nuclei tematici fondamentali: la prospettiva idealistica, ma profondamente ancorata allo junghismo, della funzione centrale degli archetipi inconsci e del mito, quale struttura fondante della psiche umana e del divenire collettivo; una filosofia della Storia, che ne identifica una costante radice “naturale”; e la possibile prospettiva politica per il futuro, fondata su una forma che potremmo definire mistica e attivistica di anti-capitalismo.

Anzitutto, l’autore richiama l’attenzione sulla dimensione verticale della vita psichica, vale a dire su ciò che ritiene l’ineludibile tensione verso l’infinito che, probabilmente presente in forma non consapevole in ogni animale, sarebbe peculiare di ogni essere umano. Traluce in tale tesi un riferimento al Filebo platonico, con la sua distinzione tra natura animale e natura divina e la concezione dell’uomo come partecipe di entrambe, concezione che si traduce qui nell’affermazione della naturale religiosità umana, intesa appunto come dimensione psichica infinitizzante e percezione profonda del divino e basata sulla identificazione di strutture archetipiche immutabili della psiche umana, assunta nelle dimensioni, per dirla come Campanella, di potenza, sapienza e amore, cui Jung annette anche la dimensione della distruttività. Da esse deriverebbero secondo Livorsi gli eventi e la praxis della vita individuale e della vita collettiva. Di conseguenza, egli interpreta la Storia come effetto ed epifenomeno di tale immutabile base naturale, o, per meglio dire, bio-psichica dell’uomo, con una concezione che rischierebbe di incagliarsi nella tesi vichiana di una storia ideale eterna immodificabile sottesa alle vicende umane, in cui la nozione di Provvidenza sarebbe sostituita dal concetto di natura archetipica della psiche, se egli non chiarisse che il corso storico non è rigidamente preordinato, bensì è fortemente dinamico e plastico, in ragione di un altro carattere naturale della psiche, vale a dire la creatività, assunta qui nella sua accezione romantico-idealistica e al tempo stesso fortemente vitalistica. Ugualmente e in perfetta coerenza con queste premesse, l’autore esclude la concezione kuhniana della Storia come discontinuità e successione di paradigmi reciprocamente contraddittori e la concepisce come continuum, nel quale dinamicamente agiscono archetipi psichici immutabili e creatività modificatrice. Nella descrizione del fondamento archetipico del capitalismo e del materialismo e nella tesi della modificabilità della Storia da parte della creatività umana è invece a nostro giudizio presente, ma rovesciata di segno, dal materialismo allo spiritualismo, la stessa lucida e vigorosa critica di Hobbes alla natura istintuale e pulsionale umana per quanto concerne l’egotico desiderio di possedere tutti i beni per sé soltanto.

Si evidenzia qui il congedo definitivo non soltanto dal materialismo del marxismo – di cui sono, invece, conservati l’orizzonte ideale di tensione verso la liberazione dell’uomo da ogni genere di subordinazione e l’attivismo marxiano, sia pure reinterpretato alla luce del volontarismo soprattutto nietzscheano-, ma anche dalla socialdemocrazia e dal Welfare State, accusati, la prima, di aver prodotto forme di autoritarismo e il secondo di aver favorito e consolidato il capitalismo, di cui l’autore pone in luce il paradigma spirituale di tipo materialistico e consumistico, secondo una critica che in un certo senso riechiama la nozione heideggeriana di Verfallenheit, di deiezione, come modo di essere inautentico dell’uomo immerso nella quotidianità e nella cura del mondo materiale.

Livorsi postula il superamento di tali concezioni politiche in nome di una “nuova civiltà alternativa”, che, coerentemente con le premesse teoriche che ha delineato, ritiene possibile soltanto in virtù dell’abbandono del paradigma spirituale da cui capitalismo, comunismo, socialismo e liberalismo traggono origine. Si situa qui la stretta correlazione ch’egli traccia tra politica e mito, in contrapposizione alle visioni razionalistiche della Storia. Egli infatti ritiene che le tragedie storiche e in particolare lo stragismo siano stati prodotti più dalle Weltanschauungen scientifiche di tipo positivistico, che dal riferimento al pensiero mitico; ed esemplifica tale tesi citando il razzismo biologico, che Hitler riteneva scientificamente fondato e il socialismo scientifico cui faceva riferimento Stalin. Ne scaturisce l’asserzione dell’equivalenza tra scientismo positivistico e razionalismo tout court, logos dalle nefaste conseguenze, cui si contrappone il ben più benevolo e tollerante mythos. In ciò certamente emerge il riferimento al giovane Nietzsche de La nascita della tragedia dallo spirito della musica e al Nietzsche del Così parlò Zarathustra, nonché ai teorici del mito, che Livorsi elenca e di cui tratteggia brevemente le posizioni (Schelling, Sorel, Cassirer, Bergson, Lévi-Strauss, Jung e Hillman). È invece a nostro avviso almeno parzialmente accantonata la “filosofia chimica” del cosiddetto periodo illuministico nietzscheano, secondo la quale non sarebbe in realtà identificabile una vera antitesi tra Weltanschauung scientifico-razionalistica e concezione mitica, giacché entrambe sono in ultima analisi null’altro che narrazioni rassicuranti e di identico status epistemologico, privo di qualsivoglia valore euristico. In altri termini, sulla scorta di Nietzsche, un neo-illuminista potrebbe obiettare che socialismo scientifico e biologismo hitleriano fuorno a loro volta miti e non già scienza o logos.

Nelle pagine finali del libro, Livorsi richiama il fallimento dell’utopia marxiana, la crisi della socialdemocrazia e il declino del pensiero liberale, travolto dalle sue conseguenze in ambito sociale ed economico e costruisce un nuovo orizzonte di riferimento, secondo una prospettiva mistico-spiritualistica, democratico-cooperativistica ed ecologistica, i cui tratti specifici lasciamo alla scoperta dei lettori, che auspichiamo numerosi.

Vi sono infatti tre robuste ragioni, per leggere questa opera così peculiare; anzitutto, in essa emerge il prezioso racconto di un testimone del tempo, che consente di comprendere le radici e le ragioni del presente, anche grazie alla vastissima bibliografia che conclude il volume e ai molteplici riferimenti psicologici, filosofici, teologici, sociologici e politologici che lo percorrono; in secondo luogo, in una stagione di vuoto teorico e di devastanti incertezze filosofiche, ideologiche e politiche, questo è uno dei rarissimi, forse addirittura l’unico tentativo di elaborare una fondata e rifondante alternativa teorica alle grandi narrazioni del Novecento, che il nuovo secolo ha condannato a una inemendabile sconfitta; e, infine, con la sua unità di pathos e logos, di theoria e praxis, di conscio e inconscio e con il suo orizzonte vitalistico e dionisiaco, questo testo presenta una concezione etica e metafisica di grande fascino, almeno per chi veda oggi vacillare le credenze granitiche della Modernità nel valore e nella forza della ragione.

Livorsi, Franco, Anima e Mondo. Il poema sulla storia e sui sogni. L’idea della rinascita nel XXI secolo, Torino, Golem Edizioni, 2019, pagg. 443, euro 32

1 Magris, Claudio, Tempo curvo a Krems, Milano, Garzanti, 2019, pag. 53

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