Uno più uno, se facesse duale di Milena Nicolini

Partirei da tre versi emblematici d’una poesia di Milena Nicolini ‒ tratta dalla seconda edizione riveduta e ampliata della sua silloge Uno più uno, se facesse duale (Edizioni ROSSOPIETRA) ‒ per iniziare un discorso sulla poetica e sulle tematiche affrontate in questo testo dell’autrice modenese. Eccoli: “non so / dove stia il senso di tutto questo / vivere morire”. Vera e propria ammissione socratica della nostra ignoranza e al contempo della mai dismessa ricerca d’un significato rispetto alla fragilità del nostro esistere; indagine e/o assillo collegati al sospetto di un non-senso estendibile a livello generale/universale. Una nescienza che tuttavia non conduce a desolazione; piuttosto a stupore per il miracolo dell’esistere; o ad una consolazione, per quanto minima, che potremmo rendere attraverso un verso della Nona elegia duinese di Rilke: “essere stati terreni, sembra non sia revocabile”.

È infatti una vita umile, terragna e semplice, quella narrata qui dalla poetessa. Una vita all’insegna di quotidianità comuni a tutti, per quanto colta attraverso un’ottica direi quasi meditativa, dove il prendersi cura ‒ delle cose e degli umani ‒ si fa accoglienza e accettazione; come testimoniano i seguenti versi: “affatica / spostare libri materassi mobili / pedane cuscini coperte sbattere e sbattere/ lavare piastrelle statuette piatti nobili // ma con un fondo di piacere”. O come quando si rinnova il mirabile fenomeno della luna piena e si esperisce: “energia dall’ombra di luce/ da godere in solitaria deliranza // senza attesa di date”; o quando il giorno successivo non resta che ammettere: “ho avuto la luna addosso tutta notte / e adesso mi annega di rosa il mattino // suo respiro nel mondo / io fatìco la bellezza”.

Ma di che tratta, quali sono i temi della silloge? Nicolini in primo luogo parla di sé, ovviamente, ma non guardando al proprio ombelico; semmai interrogandosi intorno all’io e chiedendosi in cosa esso consista. A questo proposito, ritengo che l’autrice si situi sulla linea della filosofa Adriana Cavarero, secondo la quale l’io inteso come monade ‒ come entità isolata ‒ non esiste; anzi senza un tu, costituito dalla madre (o da una figura genitoriale accudente), l’io bambino non prende forma. Di conseguenza ‒ come meravigliosamente scrisse Hölderlin ‒: “noi siamo un colloquio”, siamo relazione, mutuo e costante legame; anche se spesso prevale la tendenza egocentrica e uno più uno non produce il duale, bensì la solitudine, la separazione, la guerra. Così seconda tematica di queste poesie non può essere che l’altro da sé ‒ specie quando l’incontro col tu diviene occasione d’amore ‒; e quindi gli altri, in ispecie quelli che l’autrice ha frequentato in una dimensione amicale/emozionale. La terza tematica è meno facile da delineare in modo non banale. Potremmo dire che si passa dall’io a dio; che qui ci si interroga (interrogando il lettore) intorno alle domande che hanno sempre intrigato i filosofi: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, che cosa c’è oltre l’orizzonte esplorato dell’universo, della fisicità, della vita?

Va sottolineato un ulteriore aspetto della silloge. La sua pregnanza metaforica, la vivacità delle immagini che ricreano una realtà mai statica, in quanto “le cose sono dentro un continuo permutare” o evocano un passato paradossalmente mai trascorso del tutto e quindi ancora vivo: nella memoria quantomeno. Come il piccolo mondo contadino, dove: “le stanze erano grandi vuote, piene / dell’essenziale e / magia la luce della lampadine”. Come ‒ in alcune poesie ‒ le parentesi (i segni di punteggiatura) che si aprono e più non si chiudono, restando sospese, inconcluse, disponibili a essere colmate/visitate da parole altre/ulteriori (magari da parte di chi legge). Dimenticavo una cosa importante, che va subito detta. C’è molta sofferenza in queste poesie, ma non annichilente: solo amara o cifra esistenziale pessimistica. Per fare ad esempio, in un confronto con la dolorosa immagine montaliana della vita quale muro “che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”, Nicolini preferisce volgere lo sguardo a dei limoni profumati, cosicché: “sul muretto il dono ha aperto nel cielo / livido / la gioia dell’umano”.

Altrove la poesia dell’autrice è davvero imparafrasabile; vedi anche solo la icastica dichiarazione d’intenti espressa in questi due versi esemplari: “arrivare alla parola nuda / è la gioia del contatto”. Cosa altro aggiungere? Che vi è una forma di religiosità declinata all’insegna di un femminile sempre espressione di fecondità/felicità quando si esprime come vita generante vita. Che vengono presentate/sottolineate, qui, valenze/istanze opposte che non si contraddicono per nulla, rifiutando l’autrice l’astratto e limitato principio di non-contraddizione (vedi la poesia intitolata beatitudine della disperazione che esprime l’umanissima ambivalenza emozionale e la pietas nei confronti della madre anziana/malata da accudire ‒ la quale si fa figlia della propria figlia ‒ a cui son dedicate varie altre poesie). Che solo l’umile consapevolezza della pochezza di ogni parola può nobilitarla. Così, dice bene l’autrice: “la mia poesia è piccola / perché la domanda / sempre troppo grande / annienta”; nella coscienza del limite quale indice della generale finitudine (“e poi il sole esploderà l’universo / cambierà ogni assetto dell’adesso // […] allora a cosa le parole di carta?”).

Infine solo un accenno alle (belle) poesie dedicate/incentrate a/su chi ha fatto il passo al di là ‒ per dirla con Blanchot ‒, a chi è mancato e ci manca, procurando una scomparsa che ricompare appena nel ricordo, e allora appare: “assolutamente inconsolabile l’amore / che rimane vuoto di mondo e il suo nome / a una volatile ombra delle nuvole dà richiamo”. Tuttavia non c’è mai rancore per il dolore nei versi di Nicolini; semmai stupore per un universo che: “tende all’entropia, tende al disordine / eppure sta in equilibrio / meraviglioso”.

Francesco Roat

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