Vannini e “La morte dell’anima”

È stata recentemente pubblicata dalla Casa Editrice Le Lettere una nuova edizione rivista ed ampliata del saggio di Marco Vannini, La morte dell’anima. Dalla mistica alla psicologia, dove il noto studioso fiorentino affronta un tema da far tremar le vene e i polsi ‒ per dirla col suo antico conterraneo Dante ‒ ovvero cosa l’uomo occidentale abbia voluto esprimere dall’antichità ad oggi tramite concetti davvero problematici quali: anima, psiche, spirito. Innanzitutto il nostro autore premette subito che, ricordando come la parola anima derivi dal vocabolo greco anemos ossia vento, essa nasca dalla consapevolezza di quanto il respiro/soffio vitale rappresenti appunto la principale fonte di vita dell’uomo e di ogni animale: dotato cioè di anima, della possibilità di respirare ed esistere. Con la morte, infatti, il soffio vitale viene meno abbandonando il corpo, che, prima di divenire inanimato, rende l’anima a Dio, come si diceva un tempo.

Non a caso le prime forme di religiosità prendono inizio dal culto funerario, con la speranza/credenza in qualche forma di sopravvivenza dell’anima dei defunti. Ma saranno i sapienti greci a interrogarsi filosoficamente sul significato dell’anima, considerata dai pitagorici una sorta di demone proveniente dagli dèi e di natura immortale. Ed è al fondatore della scuola eleatica, Senofane di Colofone ‒ ricorda Vannini ‒, che dobbiamo l’idea di anima come pneuma: spirito, il quale dopo il decesso entrerà nell’etere: ‟fondendosi con la vita e l’intelletto universale”, come poeticamente ebbe a scrivere Epicarmo. Però sarà grazie a Platone e ai suoi dialoghi che la mitologia dell’immortalità dell’anima influenzerà gran parte della produzione culturale ellenica e persino lo stesso cristianesimo. Anche se in seguito Plotino, non preoccupandosi particolarmente del destino dell’anima individuale, sottolineerà piuttosto: ‟la necessità di compiere, qui e ora, il cammino del ritorno verso l’Uno, da cui tutto proviene”.

Erede insieme dell’ebraismo (che peraltro non aveva una vera e propria nozione dell’anima) e della cultura greca, il cristianesimo vede con l’apostolo Paolo ‒ ritenuto da Nietzsche il fondatore/teorizzatore di tale religione (pure se non dovremmo certo scordare il contributo essenziale di Agostino) ‒ l’uomo composto di corpo/carne (sarx), anima (psyche) e spirito (pneuma): elemento, quest’ultimo, ritenuto superiore e prossimo al divino, in quanto Dio stesso è inteso come spirito. Al vangelo di Giovanni, sottolinea tuttavia Vannini, la tradizione occidentale deve anche: ‟se la nozione di spirito ha un carattere agapico, di amore, prevalente su quello noetico, intellettuale”.

Ma forse il maggiore maestro dell’anima in Occidente resta colui il quale non per nulla fu chiamato il Meister per antonomasia, ovvero il mistico tedesco Eckhart, che sostenne l’impossibilità di descrivere in qualche modo tale ambito spirituale, in quanto essa è namenlos: senza nome o indicibile, giusto al pari di Dio. Così non vi può essere scienza alcuna relativa allo spirito, semmai di esso si fa esperienza; lo si coglie tramite la fede ‒ che non significa credenza ingenua ma fiducia nell’assoluto e quindi abbandono a Dio ‒, il distacco (che non implica abulia e/o apatia d’alcun genere), l’accettazione serena dell’ineluttabile e l’eliminazione (o meglio la caduta spontanea/gratuita) dell’egoità. Si accede quindi alla dimensione spirituale tramite la cosiddetta mors mystica, cioè la morte dell’anima (o dell’egocentrismo), da cui essa resuscita a vita nuova/divina; che altro non è rispetto a quanto ammonisce il Cristo, affermando paradossalmente: Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà; ma chi la perderà, la manterrà viva (Lc 17,33).

Purtroppo, prende atto con rammarico Vannini, la Chiesa (ogni chiesa) ha sempre temuto i mistici, perché restii a sperare in qualche improbabile salvatore ultraterreno e assai poco o per nulla inclini a questa o quella ortodossia/dogmatica. E l’Occidente disincantato e laico, che da tempo di fatto non crede più davvero a inferno e paradiso o a un padreterno iperuranico ha finito per perdere, oltre al vecchio Dio/idolo paternalistico, anche l’anima nel senso più elevato del termine, ridotta com’è a sola psiche, a mero ambito affettivo/emozionale. Come far fronte allora a tale impoverimento o decurtazione spirituale che dir si voglia?

Vannini propone un rimedio: riscoprire la mistica nella sua vera essenza, che non è sentimentalismo/irrazionalismo: ‟non terreno riservato a qualche momento o a pochi ‒ privilegiati o malati a seconda dei punti di vista ‒ ma esperienza universale del fondo dell’anima, dello spirito, vita nella salus et beatitudo, cui si accede col coraggio della verità, con la «morte dell’anima», in un itinerario che è esso stesso spirituale e religioso”.

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