DEF: un documento economico finanziario, insufficiente e pericoloso

La imminente approvazione del DEF, documento economico-finanziario “cardine” per l’utilizzo dei fondi nei prossimi anni, porta ad una rivisitazione di una serie di questioni, altrimenti “dimenticate”. E’ evidente l’intenzione di utilizzare uno storno (di minimo impatto se paragonato alle cifre generali) dal settore “accoglienza” – “inclusione” a spese di carattere generali, a buon titolo definibili come “populiste”, come è evidente una sottovalutazione, nel DEF, di tutto quanto è tutela dell’ambiente e del territorio. Sostanzialmente il DEF non fa che confermare la pochezza del “contratto”. Un giochetto già visto: si enunciano una serie di principi ma non si indicano mai né le modalità, né le tempistiche, né gli investimenti e neanche dove si pensi di trovare le risorse necessarie.

Principalmente ci si dimentica (ad essere benevoli) che occorre agire immediatamente contro il cambiamento climatico attraverso una politica energetica nazionale sostenibile, rivedendo subito la SEN, introducendo obiettivi più ambiziosi al 2030 e puntando al 100% di energie alternative con investimenti in rinnovabili ed efficienza energetica, con obiettivi vincolanti di riduzione di CO2 che prevedano la de-carbonizzazione e il progressivo abbandono delle fonti fossili.

In Italia, dopo la Conferenza di Rio del 2012, con la ‘delega fiscale’ di quell’anno era stata introdotta una fiscalità verde con lo scopo di ridurre progressivamente la tassazione dal lavoro accrescendo quella sulle risorse naturali ed energetiche in modo da rendere più efficiente l’economia. Norma che non è mai stata né approvata né applicata perché legata ad una proposta di una direttiva europea sulla tassazione dei prodotti energetici che non si è poi concretizzata.

Questo è accaduto in Italia, perché in altre parti di Europa e del mondo la “carbon tax” è già una realtà.

Basti citare la Svezia, dove il suo valore attuale è di 136 $/t ottenendo in 20 anni la riduzione del 22% delle emissioni a fronte di un aumento del Pil del 58%, la Finlandia, dove è pari a 20 euro per tonnellata di CO2 emessa e dove si tiene conto dei conseguenti effetti negativi per la salute per l’uso di carburanti fossili, nei Paesi Bassi, dove le aliquote fiscali sono calcolate sia sul contenuto di energia che sugli effetti delle emissioni, ma anche in Norvegia, Danimarca, Svizzera e Irlanda.

Secondo i dati stimati dal Kyoto Club penalizzare l’impiego dei fossili in una logica di neutralità fiscale, varrebbe 8 miliardi di Euro. Lo studio ipotizza che gli 8 miliardi di euro deriverebbero con un livello iniziale di tassazione di 20 €/t.

Con questa cifra non solo si potrebbero ridurre le bollette dei cittadini del 10%, ma ci sarebbero anche le risorse per restituire gli incentivi alle fonti rinnovabili, con un nuovo Conto Energia, e incentivare il passaggio all’auto elettrica: attualmente (dati ACI rew. 2017) la mobilità elettrica è ferma al palo, ma investendo queste risorse potremmo avere mezzo milione di veicoli su strada entro cinque anni (515.000 motori elettrici, per l’esattezza, secondo la stessa fonte)..

Anche se in alcuni punti del “contratto” questi temi venivano citati sporadicamente, mai era indicata una data di realizzazione e i fondi per realizzarli. Ancor meno ci sono riferimenti specifici nell’attuale DEF in approvazione e questo non può che preoccuparci.

Sempre riguardo all’impatto in atmosfera è giusto ricordare quanto sia importante la mitigazione delle emissioni in agricoltura . come pure di  quelle industriali e domestiche. Un DEF che si rispetti avrebbe messo le premesse “in termini di numeri concreti” in vista di un divieto (graduale) alla circolazione dei motori diesel e benzina indicando, anche in questo caso, chiaramente una data a partire dal 2035 (indicazione proveniente da fonte EPA, 02.02.2018). Servirebbero  anche investimenti concreti sulla mobilità sostenibile attraverso la cura del ferro, il sostegno al trasporto pubblico e ai sistemi di multi-sharing. Questo sempre nell’ottiva di un documento economico finanziario “green”, evidentemente non di interesse della attuale direzione “giallo-verde”.

Creare la filiera dell’auto elettrica e dell’auto pulita con le conseguenti politiche di incentivazione graduate in base al reddito, comporterebbe impegni non giganteschi di spesa ma ricavi (diretti e indiretti) infinitamente superiori. Si sarebbe dovuto porre mano da subito ad un “Piano nazionale per la collocazione di colonnine di ricarica”, incentivando a dovere  la mobilità ciclistica, le zone 30 e le aree pedonali. Unaltro tema totalmente disatteso è quello delle “concessioni”. Si sarebbero dovute rivedere, ad esempio, le concessioni autostradali non in linea con l’UE, questo ancor di più dopo la tragedia di metà agosto al ponte Morandi a Genova.

Il “documento” avrebbe dovuto promuovere la conversione ecologica dei modelli sociali e di quelli produttivi come volano per uscire dalla crisi e creare nuovi posti di lavoro “verdi” e di qualità. Invece no. Pertanto “rafforzare le reti monitoraggio dell’aria e i sistemi di depurazione delle acque”, “istituire un Fondo per le bonifiche dei SIN”,  “abrogare il comma 6 dell’art.1 della legge 151/2016 sull’immunità penale in caso di violazione legislazione ambientale e sanitaria” rimangono pie illusioni, legate a proposte di modifica di regolamenti e leggi presentate nelle passate legislature.

Anche nei “conti di casa” il DEF non è all’altezza: nel 2016 l’Italia ha versato sussidi dannosi per l’ambiente per un importo pari a 16 miliardi di euro. Non è una ONG ambientalista a denunciarlo ma lo stesso ministero dell’Ambiente ad ammetterlo in un documento pubblicato a fine febbraio 2018 con l’eloquente titolo “Catalogo dei sussidi ambientali favorevoli e dei sussidi ambientali dannosi 2016” (*)

I tecnici del ministero sono infatti andati a spulciare l’insieme delle misure approvate dal nostro Paese per mantenere i prezzi per i consumatori al di sotto dei livelli di mercato o quelli per i produttori al di sopra dei livelli di mercato o ancora per ridurre i costi sia per i produttori e che per i consumatori.

Le risorse recuperate togliendo questi incentivi dannosi per l’ambiente potrebbero essere efficacemente utilizzati per la “Green Economy”.  Una nota informativa in tal senso è arrivata a inizio settembre al Ministero del Tesoro… ma non se ne è fatto nulla.

Giusto a titolo informativo si ricorda che investendo sull’economia circolare e sulle 4 R nei rifiuti (Riduzione, Riuso, Riciclo e Raccolta differenziata), punti indicati nello stesso contratto M5S-Lega, il rientro in termini complessivi nei tre anni previsti, è di addirittura dieci miliardi netti reinvestibili. La priorità, sempre seguento la “nota informativa”,  sarebbe quella di penalizzare lo smaltimento in discarica e superare la pratica dell’incenerimento per evitare ulteriori procedure d’infrazione da parte dell’UE che ci sono già costate 366 milioni di euro negli ultimi sei anni.

Il nuovo Governo, invece di limitarsi ad un DEF legato a criteri vecchi, dovrebbe avere il coraggio di cancellare rendite e privilegi, non più ammissibili, di cui beneficiano coloro che gestiscono cave, acque di sorgente, concessioni balneari, estrazioni di petrolio e gas. L’eliminazione di questi privilegi consentirebbe, infatti, di generare quasi 2 miliardi di euro ogni anno, a partire dal 2019.

Con queste risorse si potrebbe approvare una legge sul consumo del suolo che preveda interventi immediati per prevenire il dissesto idrogeologico e i rischi nelle aree sismiche attraverso un’adeguata politica di tutela del territorio, contrastando il consumo del suolo, l’abusivismo edilizio e quei provvedimenti di legge tesi a fermare le demolizioni.

Un documento economico-finanziario “green” dovrebbe partire quindi da altri presupposti che, evidentemente, non sono nelle possibilità di questa compagine amministrativa. Si dà più forza agli sgravi fiscali, si ascoltano di più le richieste dei dottori commercialisti e degli avvocati da sempre impegnati ad aggirare le norme di legge. Senza una vera politica di investimenti e di rilancio (che non sia “parassitario”) di tutto il Sud, delle isole e di molte aree “deprivate” ormai presenti anche nel centro e nel nord dell’Italia. Un “non piano” che guarda indietro, agli anni Novanta, sostanzialmente legato a logiche berlusconiane, con qualche spruzzata di novità, su questioni comunque marginali. Ne sono un esempio i provvedimenti per “seggiolini con avvisatore elettronico automatico”. L’Italia merita ben altro. Sennò non saremo noi ad andarcene dall’Europa che conta, saranno gli altri – giustamente – a cacciarci.

(*)http://www.minambiente.it/sites/default/files/archivio/allegati/trasparenza_valutazione_merito/SVI/economia_ambientale/catalogo_sussidi_ambientali_-_def.pdf)

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